Si fonda su una metafora potente e basilare, l’acqua, il libro di Lidia Yuknavitch recuperato da Nottetempo. Uscito negli Stati Uniti nel 2011, si tratta di un memoir che fa presagire alcuni temi del distopico Il libro di Joan. Ma se in quel romanzo post-apocalittico sui generis e sui generi la commistione di tradizione e urgenza sociale è declinata nelle tante direzioni del nostro minaccioso domani, La cronologia dell’acqua scava nel passato di un solo io autobiografico, sul quale sembra scorrere tutta la frenesia del nostro presente. A unificare queste memorie, che troviamo allo stato fluido tra romanzo di formazione e picaresco, c’è l’acqua, l’elemento che rigenera di volta in volta la vita dell’autrice e la scrittura della narratrice. Fin dall’inizio, infatti,  la struttura alterna frammenti di vita a considerazioni sul valore di ciò che si sta scrivendo, e qui la metafora è subito svelata:

«Scoprirai che esistono un tono e una trama sottesi alla tua vita, al di sotto di ciò che ti hanno raccontato. Circolari e visivi. Qualcosa che sfiora la tragedia, che sfiora l’intollerabile, ma racchiuso all’interno della tua irriducibile immaginazione – chi l’avrebbe mai pensato, se non tu –, all’interno della tua abilità di metamorfosare come materiale organico al contatto con elementi mutevoli. Le pietre. Trasportano la cronologia dell’acqua. Nelle tue mani, tutte le cose simultaneamente vive e morte».

Le prime pagine sono lancinanti, ci mettono difronte al corpo di una giovane donna che ha partorito una figlia morta. Il gesto vitale per eccellenza è rivoltato in rito funebre, di asettica angoscia ospedaliera. Come per gli atri eventi traumatici raccontati dal libro – le molestie sessuali subite dal padre, l’abuso di alcol e droghe, due matrimoni falliti – il contrappunto è sempre metanarrativo e non c’è pagina in cui Yuknavitch non si rivolga al lettore per ribadire che è tutto vero ma è anche tutto filtrato dalla scrittura. È la scrittura che evita di cadere in quel «commerciale racconto della perdita» da cui l’autrice vuole smarcarsi, come dalla moda del romanzo sulle dipendenze trasgressive alla Trainspotting. Colpisce in particolare l’intimità e una certa complicità ragionante stabilita con il lettore, costruita sul filo della pornografia di se stessa. Il corpo di dolore dell’inizio ripercorre a sbalzi le violenze del padre, il nuoto, le perdite sensoriali date dagli stupefacenti, le orge disperate con uomini e donne usati come oggetti. Ma è l’acqua liberatrice che lo attraversa a essere sempre messa in risalto: l’acqua della prima doccia dopo il parto di morte; il venire così forte da schizzare dopo aver detto al padre che lei se ne va di casa; il nuoto da bambina, e poi la birra, la vodka, lo sputo contro il primo marito; il luogo dove il fiume sfocia nell’oceano, nel quale spinge le ceneri della figlia; l’acqua del mare che si vuole prendere suo padre, portandolo alla soglia dell’annegamento; il lago dove Ken Kesey le dice di suo figlio Jed, anche lui morto, e due vite di scrittori e genitori luttuosi si incrociano; sono le lacrime liberatorie tra le braccia di una mistress che chiama “mamma”, «il pianto di qualcuno che abbandona il corpo. E poi mi frustava dove era nata la mia vergogna e dove mia figlia era morta, e io allargavo le gambe il più possibile per accoglierla»; l’acqua con cui inonda il letto del suo umore grazie a Kathy Acker. Ovviamente il nuoto è l’ipostasi di questa vita: nuotare anche fuori dall’acqua, nuotare anche quando si scrive. «Nell’acqua, come nei libri, puoi abbandonare la tua vita», ed è nel doppio senso di liberazione e soffocamento che è condotta questa metafora prolungata, quasi allegoria di una vita e di un destino. Lidia Yuknavitch è stata nuotatrice agonistica con tempi che a sedici anni le avrebbero aperto le porte delle università americane, ma un padre violento e incapace di concederle spazio, una madre passiva e alcolizzata la portano a distruggere il proprio talento, a bere e strafarsi di droga, a consumare sesso promiscuo e compulsivo con l’unico obiettivo di dimenticarsi di sé. Ha nuotato di giorno e di notte in laghi, piscine, fiumi e nell’oceano. Le pagine che descrivono il senso di precaria libertà dato dal nuoto sono tra le più belle del libro, lo sospingono avanti fino a confondere il gesto atletico con il gesto della scrittura. Sarà infatti quando scoprirà il potere della letteratura che Lidia smetterà di nuotare, dopo che è riuscita a «riportare il corpo nel discorso» e a lasciarsi alle spalle l’acqua sporca di ieri. Quello che resta sono le moltitudini di sé della grande tradizione americana riaggiornate nella sola epica possibile di oggi, quella di una tenace messa insieme dei precari frammenti della propria storia, nella speranza che arrivino a toccare quella del lettore.   


L. Yuknavitch, La cronologia dell’acqua, Milano, nottetempo, 2022, 336 pp., € 17.