Una nota

Aftersun, lungometraggio d’esordio di Charlotte Wells, classe 1987, è uno dei film più chiacchierati dell’ultimo mese. Distribuito in Italia da MUBI, ha avuto un ottimo successo e ricevuto buone critiche, ma qualche voce – d’autore, assennata, tutt’altro che peregrina – si è discostata dal pensiero prevalente. La discussione si è aperta anche nella nostra redazione: cos’è Aftersun? Piccolo capolavoro, film indie di maniera, una via di mezzo tra le due cose? Abbiamo deciso di presentare due letture del film, molto diverse nei modi d’espressione e negli esiti, per rappresentare l’angolo rosso e l’angolo blu. 

Una sinossi, precisa e breve

Calum (Paul Mescal) ha poco più di trent’anni. Con sua figlia Sophie (Frankie Corio), undici anni, sta trascorrendo una settimana di relax in uno scalcagnato villaggio vacanze turco. Ha un avambraccio ingessato per motivi non chiari, uno sguardo triste, malinconico, che a volte si tinge di una spensieratezza che non lascia traccia del suo passaggio, e una voglia matta di far divertire Sophie. Lei, invece, ha l’aria di una bambina intelligente che passa troppo tempo da sola ma è felice di stare per un po’ con il suo giovane, piuttosto assente papà. I giorni si susseguono: Sophie si fa sempre più allegra, forse perché si convince di poter davvero rinsaldare il legame con il padre; Calum è sempre più inquieto e triste, forse perché vede all’orizzonte il ritorno a una normalità che detesta e a una città che non lo ha mai accolto. Sono molto simili, loro due, ma ciò che li allontana è forse la prospettiva del ritorno. A un certo punto, Calum confessa a Sophie di non aver mai potuto soffrire il clima di Edimburgo; lei risponde che quella città, dopotutto, è casa. Lei un posto nel mondo lo avrà. Lui non lo ha mai avuto. 

Il racconto della vacanza è inserito in una cornice temporale: Sophie, adulta, riguarda le riprese video di quella settimana – ora vive con la sua compagna, non è più una bambina, ma nel giorno del suo compleanno torna al ricordo della villeggiatura. Quando ripensa a suo padre, a quell’essere fragile e umbratile, non riesce a trattenere le lacrime. 

Una prospettiva entusiasta, in tre tempi (Ambrogio Arienti)

Raccontare in corpo minore

Aftersun è il racconto di un’estate di respiro in un mondo e in un’esistenza di caos. Lo spettatore impara a conoscere Calum e Sophie a partire dai molti silenzi e dalle mancate risposte, facendo delle ipotesi, e questa costruzione per ellissi è la strategia portante di tutto il film. Spesso, nelle loro chiacchiere, i due protagonisti raggiungono dei punti di snodo, si trovano di fronte alla possibilità di raccontarsi delle verità scomode, ma Calum taglia sempre la corda: per esempio quando Sophie gli chiede perché dica ancora “I love you” a sua madre, o quando gli domanda come si sia rotto il braccio. Lui non risponde, a volte si irrita, altre improvvisa delle risposte evasive o insufficienti. Ma la verità, non detta, trova comunque un modo per colare sullo schermo.

Spesso è la scansione dei tempi a creare tensione e suggerire una risposta, attraverso una ragnatela di silenzi e scambi di sguardi (in questo senso, le prestazioni di Paul Mescal e di Frankie Corio sono magistrali), mentre in altre occasioni a caricarsi di significato sono gli oggetti: il braccialetto all inclusive che una ragazza regala a Sophie, simbolo di un tipo di vacanza che loro due non possono permettersi; il gesso, incarnazione dell’ennesimo non detto, forse di un tentativo di suicidio fallito; il tappeto che Calum, rapito, decide di acquistare contro ogni logica – “ognuno di questi tappeti racconta una storia diversa”, dice il venditore, ognuno di essi è unico, perciò diverso dagli altri, e questa frase si pianta nella corteccia cerebrale del ragazzo; allo stesso tempo, passando a un significato più banale ma importante, un tappeto così prezioso è un oggetto che soltanto una persona ricca può decidere di comprare in vacanza, quasi per capriccio.

È come se una parte – importante, anzi la più importante – di ciò che deve essere raccontato sia da afferrare in negativo. Per far funzionare questo meccanismo c’è bisogno di una tensione drammatica calibrata al millimetro, e di un bilanciamento dei tempi perfetto. 

Una catena di mediazioni

C’è un’altra smaccata strategia di rappresentazione: i piani ravvicinati sono rari, spesso i protagonisti sono ripresi da una debita distanza, mai in modo invasivo, e a governare la scena è un sofisticato sistema di rifrazioni o filtri: la sagoma degli attori si moltiplica attraverso lo schermo spento di un televisore a tubo catodico, l’acqua della piscina, uno specchio; una parete o un impedimento fisico dividono l’inquadratura, oppure lasciano passare soltanto la voce. Altrimenti, qui la modalità è diversa ma raggiunge un risultato analogo, i personaggi parlano davanti all’obiettivo della telecamerina di Calum, interrompendo il flusso della spontaneità, indossando delle maschere. Quando il passaggio è diretto, quando l’interazione non è mediata, i risultati sono strazianti. È come se, sollevato il tappeto, sotto ci siano soltanto vetri appuntiti: come quando Sophie chiede a Calum cosa pensava che sarebbe diventato da grande quando aveva la sua età e lui – fissandola negli occhi, instaurando un contatto non mediato – le chiede con un tono brusco e violento di spegnere la telecamera, iniziando concretamente a chiudersi e a declinare nella sua disperazione; o come quando, poco dopo, Sophie domanda cosa gli sia stato regalato per il suo undicesimo compleanno, e lui, attingendo alla verità di tutti i giorni per un secondo terribile, le dice che i suoi genitori si sono dimenticati del suo compleanno, quell’anno. La lezione è chiara: ciò che accade o è accaduto nel mondo di fuori non va fatto passare. 

Essere fuori dal tempo

La vacanza in Turchia è la Rosebud condivisa di Calum e Sophie, il ricordo di un miracolo imperfetto ma bellissimo. La mia persona d’oggi è solo una cava abbandonata, potrebbe dire lui, che tra le mani non stringe una palla di vetro, ma la sua telecamera. Arriva a quella settimana di ferie, questo è il vero, insopportabile non detto, già condannato. Ma al villaggio si ricorda di avere una ragione d’esistere: la sua bambina – per lei vorrebbe essere il buon padre che non ha avuto, una fonte inesauribile d’amore, e banalmente il modello di una persona che riesce a resistere agli urti della realtà. Si illude, le dice che ci sarà sempre per lei, che la aiuterà in ogni momento – quando incontrerà i primi ragazzi, quando e se sperimenterà delle droghe, quando diventerà adulta. Ma pur essendo un padre meraviglioso, non riesce a resistere. Il mondo lo ha messo sott’acqua da tempo, lo soffoca: le scene subacquee in questo senso sono funzionali. Quando, negli ultimi giorni di villeggiatura, diventa chiaro che soltanto uno dei due protagonisti abita ancora il mondo dei vivi, l’incanto si rompe.

Qualcosa però rimane. In un’inquadratura, quando Calum e Sophie fanno un’escursione in una località termale per festeggiare il compleanno di lui, c’è una sorta di manifesto di quanto Charlotte Wells sta cercando di mettere in scena (evocare?) attraverso queste delicate strategie di rappresentazione e narrazione: i due sono soli, sulla cima della collina su cui s’è abbarbicato il pullman di turisti, e giocano a imitarsi; è un momento di pura, cristallina felicità, uno dei pochissimi, anche se durante la notte Calum si è ubriacato e ha lasciato Sophie sola, dimenticandosi di lei; sulla destra, decentrato, c’è un cartello che illustra la storia del luogo in cui si trovano; la scritta più grande è tagliata, si riesce soltanto a leggere: We know the perfect pl-. Quel momento, unito ad altri, pochi e fragili, Sophie lo custodisce ancora, esiste ancora, direbbe Proust, come frammento di tempo allo stato puro. Quando incappa in quell’attimo può provare, e custodire, una gioia simile a una certezza e bastevole, senza altre prove, a rendere indifferente la morte. E Wells – avanzando a passi brevi, ragionando per mediazioni e smorzature – è riuscita a costruire attorno a questo tema imprescindibile, quello della custodia e della comprensione (dolorosa) del tempo, un capolavoro

Aftersun è l’autofiction che non vogliamo (Elisa Teneggi)

È strano perché la Scozia incontra sempre il mio favore ma la scozzese Charlotte Wells, proprio all’esordio con Aftersun, me lo rende difficile. Ambrogio è molto bravo a riassumere le trame, d’altronde lo fa più o meno di mestiere, dunque mi limiterò a certificare quanto sopra scritto. Anche Proust ci sta, d’altronde il titolo significa doposole, bianchiccio pastoso che secca sulla pelle e ti lascia profumato sopra gli strati di sale, di mare. Qualcosa che fissa (in certi casi, l’abbronzatura, qui, il tempo che non passa). Oggi è sempre ieri. Alla Sophie adulta basta sgranchirsi le dita dei piedi sul tappeto follemente acquistato da Calum durante quell’ultima vacanza insieme per riavvolgere il nastro. Ognuno, ça va sans dire, ha la propria madeleine. Quella di Sophie si chiama dubbio, perdita. Forse, con il sopraggiungere dell’età adulta, colpevolezza. È proprio possibile che non mi sia accorta di nulla, mentre tutto succedeva? È successo davvero, che mio padre, il mio migliore amico, non si sia mai confidato con me su ciò che più lo riguardava, che più ci riguardava? Lo schermo che appronta Wells è bucato di domande. Il problema è che sono interrogativi a cui lo spettatore, che non è né Sophie, né la sua stupenda interprete Frankie Corio, ha già una risposta. Dal primo fotogramma di film.

Un po’ perché la colonna sonora di Oliver Coates, delicato contrappunto al sole della Turchia e condotta da un ritornello tematico, malinconico e bellissimo, One Without, non lascia spazio a dubbi: quello che stiamo osservando (pure piuttosto indiscretamente) è un canto del cigno. Ce lo comunicano anche i tape di videocamera che bucano piccinamente la quarta parete e rimangono schiacciati sul piano della memoria. Mi spiego: non c’è nessun montaggio alternato a darci la speranza di un finale conciliatore, chessò, un noioso pranzo di Natale in cui una famiglia allegra si rivede i filmini sganasciandosi dalle risate. Anche il misterioso braccio ingessato di Calum, quando appaiato a un momento di suo bilicoso bilanciamento sulla balaustra del balcone del resort, diventa pistola fumante: le cose, qui, non finiranno bene. Non c’è segnale narrativo per cui dovrebbero farlo. Dal minuto uno.

È in questo senso, allora, che lo sguardo di Wells si sdoppia, diventa narrativamente schizofrenico: come diceva il collega, la vicenda è sì presentata attraverso gli occhi di Sophie, che, in Aftersun, significano la calma, il divertimento, l’illusione che tout va bien. Il problema è che le convenzioni narrative impilate comunicano allo spettatore un messaggio del tutto opposto. Nel mezzo, cioè tra l’inizio e la fine del film, durante il quale la tensione narrativa è rimasta a livello di bolla, la speranza sdrucita che qualcosa, magari, finisca per accadere: un BANG! da qualche parte, turpi segreti di famiglia, un peso reale sulla coscienza di Sophie, trasformazioni in idiosincratici Spaghetti Western. Ma va’. Wells, a cuocere Aftersun, impiega più che per un brisket.

Si arriva dunque a una constatazione al limite dell’accettabilità morale: il film funziona solo se ci si è trovati in situazioni equiparabili a quella della regista, perché Aftersun, come ha dichiarato la cineasta in un’intervista rilasciata al Guardian, è autofiction-rasente, e, concludiamo noi, in chiave minore. Riassumendo: “sfruttamento del dolore”. C’è da dire, Aftersun non ha avuto molte critiche, e siamo tutti felici che Paul Mescal sia candidato agli Oscar per il 2023 (che tutti speriamo non vinca sul serio). Tra le voci contro, però, si è levata con particolare forza quella del regista italiano Fabio D’Innocenzo, peraltro metà dei Fratelli D’Innocenzo, che, a mezzo storie Instagram, ha definito l’esordio di Wells una bella furbata. Un prodottino da algoritmo che nemmeno “Gli occhi del cuore sacro di Gesù” nella quarta stagione di Boris. Credo che, anche se non sono parole sue, almeno un terzo della definizione sia riconducibile a questo utilizzo del dolore a mo’ di esca (voluto o non voluto: il dubbio, senza parlare direttamente con Wells, giustamente rimane). Gli altri due terzi: la somiglianza abbastanza spiccata di Aftersun con Somewhere (2010) di Sofia Coppola, dove si racconta il mutamento di una relazione padre-figlia in un assolato hotel con piscina di Beverly Hills nel momento in cui lui si trova costretto al riposo per un braccio rotto bello ingessato (vedasi screenshot sotto).


E, per l’ultima frazione, avanzo proposta, il look&feel del film: negativo in 35mm, alternanza con tape anni ’90 di una videocamera Sony, fotografia succube dei capricci del meteo diretta da un abile Gregory Oke. Il risultato, per quanto tecnicamente ben realizzato, è un volantino di Maisons Du Monde. Non l’Ikea, non un sofisticato brand di interior design finlandese: proprio la medissima Maisons Du Monde. Quel “Millennial” aspirazionale e pulito-pulito, piaga di arredi bianchi e spigolosi, per nulla ergonomici né fantasiosi, che trasforma in “tana” la maggior parte degli appartamenti in affitto recentemente ristrutturati di Milano. Rassicurante, insomma. Aftersun è un film dannatamente rassicurante. E non fa nemmeno ridere. Come direbbe Proust (o forse no), accipicchia se il tempo non passa, a mettersi a vederlo.