Per una di quelle curiose coincidenze che inducono a credere nell’astuzia del destino, ho finito di leggere l’ultimo libro di Jonathan Gottschall, The Storytelling Paradox, negli stessi giorni in cui ho visto la serie di Netflix dedicata a Wanna Marchi. La storia di Wanna Marchi sembra “scritta” apposta per mettere in evidenza il lato oscuro delle storie, come suona il titolo del libro nella traduzione italiana. È un esempio perfetto che sintetizza la tesi di fondo di Gottschall: le storie hanno una potenza cognitiva ed emotiva che può diventare pericolosa. Le persone sono strutturalmente vulnerabili alle storie, hanno bisogno di storie per vivere e per capire il mondo. E quindi dando loro una storia in cui credere si può persuaderle a fare di tutto. 

Wanna Marchi, infatti, non ha mai davvero venduto cose: ha venduto storie. Nel docufilm la sua vicenda decolla a partire da un punto di svolta molto cinematografico: dopo le prime televendite andate a vuoto, senza ricevere nemmeno una chiamata, Vanna (il nome non è ancora divenuto il marchio che sarà, WM) decide di presentarsi davanti alle telecamere da sola, senza prodotti, per chiedere scusa al pubblico e congedarsi per sempre. Piange. Racconta la storia di una donna come tante, venuta dal nulla, che ha provato a emanciparsi, e sta per fallire. A quel punto i telefoni cominciano a squillare. E non smetteranno più.

La prima storia di Wanna Marchi è già una menzogna, un annuncio della grande abbuffata di reality cui sta andando incontro l’immaginario occidentale, ma in sé non è ancora una storia tossica. È una versione casereccia e provinciale di quello che anche i più grandi brand globali fanno: raccontare storie per creare una connessione emotiva con il pubblico. Parlare alle persone a prescindere dal prodotto, non per vendergli qualcosa ma per farle sentire parte di un mondo. Wanna Marchi lo ha fatto con strumenti rudimentali, con una retorica da venditrice ambulante, da ciarlatana delle fiere, ma condividendo con il mercante girovago anche un istinto infallibile per i bisogni narrativi del pubblico.

Baffo da Crema, altro mitico televenditore, dice nel documentario che finché ha fatto davvero la venditrice, Wanna è stata degna di stima e ammirazione; quando ha cominciato a vendere la fortuna e la magia, è scesa sotto il già basso limite etico dei mercanti, approfittando della credulità delle persone. Ma il confine è sottile: Wanna in realtà ha venduto sempre la stessa cosa, cioè niente di concreto; ha venduto storie, mondi possibili. A un certo punto però è inciampata in una legge intrinseca delle storie, che è proprio quella su cui riflette Gottschall: per restare attrattivo un racconto deve continuamente alzare la posta. Crescere di intensità. Radicalizzare le emozioni. All’occorrenza, diventare violento. 

Questi “due tempi” dello storytelling sono il movimento indagato nel libro di Gottschall, che del resto andrebbe letto in dittico con il precedente The Storytelling Animal: lì lo studioso celebrava la potenza civilizzatrice delle storie. Il fatto che le storie sono il modo in cui gli umani hanno letteralmente reso il mondo abitabile, inventando strategie narrative per comprenderlo e trasformarlo. Qui invece mostra come le storie possono distruggere le stesse civiltà che hanno contribuito a creare: prima costruiscono le comunità aggregando i gruppi umani, stringendo le persone le une alle altre attraverso l’empatia generata dal racconto; poi con la stessa forza creano divisioni e fratture, mettendo i gruppi gli uni contro gli altri. Generando mondi narrativi in conflitto tra di loro, e spesso incompatibili: Gottschall chiama questi mondi narrativi “storiversi”, per sottolineare sia la loro forza poietica, la loro capacità di creare realtà radicalmente alternative, sia la loro affinità con le realtà virtuali abilitate dalla tecnologia, la somiglianza con le terre promesse dei “metaversi” attualmente in costruzione. E se alle origini dell’umanità le comunità contrapposte vivevano in luoghi diversi, separati, e ogni storiverso corrispondeva a un territorio preciso, oggi storiversi tra loro anche violentemente contrapposti vivono fianco a fianco dentro la stessa società, minacciando di distruggerla dall’interno.

Gottschall vede le storie precipitare in una sorta di spirale distruttiva. Dal momento che le storie hanno bisogno di conflitto, contrapposizione morale tra buoni e cattivi, emozioni intense, tendono naturalmente a diventare sempre più estreme. Complice il funzionamento dei nuovi media, le storie diventano polarizzanti, violente, radicali. E in questa radicalizzazione si affermano le teorie del complotto, le falsificazioni, i racconti che mettono in discussione i fatti storici e i dati scientifici.

In economia si dice che “la moneta cattiva scaccia quella buona”, ovvero le valute meno preziose e meno garantite si diffondono con più forza di quelle di maggiore valore. Allo stesso modo le storie cattive tendono a scacciare quelle buone. Più sono drammatiche, violente e dozzinali, più le storie si affermano nel mercato dello storytelling. Così Wanna Marchi percorre l’escalation che la porta dalle alghe dimagranti ai riti magici del mago Do Nascimento (le intimidazioni e le estorsioni ovviamente cadono fuori dall’analisi “narrativa” della vicenda, eppure sono uno dei tanti casi in cui la violenza emotiva di una storia diventa violenza reale, concreta).

In questo regime concorrenziale delle storie, le storie ragionevoli, autentiche, fondate su fatti, dati, evidenze scientifiche, hanno spesso partita persa. Un po’ perché sono più “pesanti”, più complesse e difficili da raccontare, meno emozionanti e accattivanti. Un po’ anche perché scienza e cultura hanno spesso rifiutato di entrare nell’arena dello storytelling: lo hanno snobbato e deriso, se ne sono tenute lontane con disdegno. Hanno seguito l’esempio di Platone, continuamente evocato da Gottschall, che pensava di potersela cavare mandando in esilio i raccontatori di storie. E hanno ottenuto soltanto di lasciare campo aperto alle brutte storie.

Ma certo questa non può essere l’unica ragione del trionfo delle storie tossiche analizzato da Gottschall, e visibile sotto i nostri occhi (come ha scritto Mario Barenghi, il libro è profondamente radicato nel trauma del trumpismo, autentico shock culturale e sociale per l’intellettualità statunitense). Tra le pagine del libro si delinea una sorta di teoria generale della degenerazione delle storie. Un decadimento intrinseco dovuto proprio a come le storie sono costruite, e a come il nostro cervello le processa. Il passaggio dall’empatia all’odio, dall’azione benefica a quella malefica sembra a tratti inevitabile. È come se anche la storia delle storie seguisse un andamento narrativo, ispirato all’archetipo dell’ascesa e della caduta dell’eroe.

Se questo ciclo di degenerazione delle storie esiste, e noi ora ne stiamo forse vivendo uno dei picchi negativi, allora si impone la necessità di inventarsi modi di contrastarlo, di combatterlo. Fare un lavoro di manutenzione dello storytelling. Cercare di rivitalizzare continuamente le storie, riscriverle, tenerle fluide, in modo che non perdano mai di complessità e non si blocchino in polarizzazioni tossiche. La letteratura, del resto, la cultura, servirebbero a questo, a rilanciare sempre sulle storie già raccontate. A riportare complessità là dove le storie tendono a semplificarsi. A scongiurare le divisioni nette e le posizioni inconciliabili mostrando simultaneamente tanti punti di vista diversi, esplorando prospettive non ancora pensate.

Letteratura, cultura e scienza però devono scegliere di collaborare. Smetterla di tenersi alla larga dalla competizione, e chiedersi finalmente come fare a scrivere storie buone, civilizzatrici, in grado di competere con le storie cattive e tossiche. Perché nel mondo descritto da Gottschall c’è un’anomalia enorme: in una realtà in cui tutto è storytelling, anche il telegiornale, ciò che manca è proprio la capacità di scegliere e individuare le storie autentiche, vere, dense, interessanti, stimolanti. Gottschall sembra dimenticare che le storie non sono tutte uguali, e che il modo per proteggersi dalle storie peggiori è scegliere, e insegnare a scegliere, e trovare la creatività per costruire alternative che le persone abbiano voglia di scegliere. Per evitare che le persone restino da sole in balia delle Wanna Marchi di tutti i tempi, non si può pensare che sia valida la soluzione di Platone, bandire le storie dalla Repubblica. Bisognerebbe avere la capacità di immaginare un altro racconto, più potente e più credibile.


Jonathan Gottschall, Il lato oscuro delle storie (trad. it. Giuliana Olivero), Bollati Boringhieri, Torino, 2022, pp. 274, €24.