In “Five Years”, brano di apertura di The Rise and Fall of Ziggy Stardust and the Spiders from Mars, David Bowie evoca l’arrivo della notizia di un’apocalisse che lascerebbe alla vita umana solo cinque anni: «News had just come over | We had five years left to cry in | News guy wept and told us | Earth was really dying | Cried so much his face was wet | Then I knew he was not lying». Persino in una dimensione di assoluta visionarietà, colpisce la figura del news guy, del conduttore che in lacrime annuncia l’inizio della fine. E colpisce non tanto perché Bowie ne canta nel 1972, ma perché cinquant’anni dopo, nella peggiore distopia che è diventata la realtà attuale, la televisione generalista non lascia trapelare quasi alcuna traccia di simili reazioni, emotive o intellettuali, alla catastrofe climatica. Un fine settimana di caldo alla fine di novembre è piuttosto salutato come «bel tempo», mentre le alluvioni o gli scioglimenti di ghiacciai che sempre più spesso colpiscono ampie aree del pianeta vengono derubricate, quando discusse, a eventi eccezionali. In questo contesto, si sarebbe portati ad accogliere con entusiasmo qualsiasi contributo che miri a parlare al grande pubblico di crisi climatica, tra cui Il libro della speranza. Manuale di sopravvivenza per un pianeta in pericolo, un dialogo tra la primatologa Jane Goodall e lo scrittore Douglas Abrams, tradotto nel 2022 da Emma Cappa per Bompiani.

In effetti, la collana Overlook della casa editrice milanese ha il merito di avere incluso la questione ambientale tra i suoi temi-guida (si ricordi il convincente e documentatissimo lavoro di Fabio Deotto in L’altro mondo, da poco insignito del Premio Biella Giuria dei lettori 2022). Nel caso specifico del libro di Goodall e Abrams, persino la veste grafica e materiale del volume dimostra un’attenzione non comune al suo impatto ecologico: il testo è stampato su carta FSC (certificazione Forest Stewardship Council), dunque proveniente da materiale di riciclo e recupero, al pari della copertina realizzata con Toile Ocean, un filato prodotto riciclando la plastica ripescata dagli oceani, per ogni metro venduto del quale Winter&Company devolve l’1% del fatturato al progetto “MyClimate” per fornire acqua potabile in Uganda. I presupposti per essere ben disposti verso Il libro della speranza ci sarebbero, dunque, tanto più che un focus costruttivo e fiducioso è quanto di più necessario si possa immaginare in questi tempi ecologicamente e politicamente bui. Eppure il libro offre due possibili letture, a seconda che si voglia ingerire la pillola blu della credulità che si accontenta di rimanere in superficie, oppure quella rossa che permetta di vedere «quant’è profonda la tana del bianconiglio», in una versione di Matrix aggiornata alla realtà, certo disturbante, della crisi climatica.

La pillola blu pone di fronte alla naturalista Jane Goodall, una delle più celebri esperte di scimpanzè al mondo di cui, nella prima e terza parte del libro, viene raccontato “Il viaggio di una vita” – dalle prime ricerche in Africa alla fine degli anni ’50 alla trasformazione in messaggera di pace di risonanza globale – con annesso un ricco corredo fotografico. Goodall tiene a precisare di non sentirsi una scienziata, figura che «si concentra di più sui fatti e sul desiderio di quantificare tutto», bensì una naturalista che «ascolta la voce della natura e impara da lei mentre cerca di capirla» con «empatia e intuito – e amore» (p. 24). La sua forza intellettuale ha risieduto nell’inoltrarsi senza pregiudizi accademici o convinzioni preconcette nella foresta di Gombe, sulla riva tanzaniana del lago Tanganica. Contando solo sui propri occhi e sulla pazienza affinata nella ricerca delle tracce degli scimpanzé e nell’attesa della loro comparsa, Goodall è stata in grado di comprendere e dimostrare il funzionamento delle emozioni e la diversificazione delle personalità degli animali – concetti oggi entrati nella sensibilità comune, ma all’inizio fortemente osteggiati dall’accademia inglese, in particolare dall’Università di Cambridge. «Jane è stata una delle persone che più si sono riproposte di dimostrare che l’intelligenza è una linea continua che tocca tutti gli animali, umani compresi» (p. 58), scrive Abrams – che prima di questo Libro della speranza si era dedicato al Libro della gioia, una conversazione col Dalai Lama e Desmond Tutu pubblicata in Italia da Garzanti nel 2016. L’intelligenza come tratto diffuso in ogni essere vivente, dunque (pertinente il riferimento agli studi di Suzanne Simard e Peter Wohlleben sull’intelligenza delle piante, a cui andrebbero aggiunte le recenti ricerche di Monica Gagliano); ma anche la speranza come sentimento di natura comunitaria.

Per scandagliare le potenzialità della speranza utile ad affrontare le crisi attuali, quella climatica in testa, il corpo centrale del libro è diviso in quattro sezioni, dedicate ai quattro ingredienti che secondo Jane Goodall costituiscono, appunto, “Le quattro ragioni per sperare”: 1. “L’incredibile intelletto umano”; 2. “La resilienza della natura”; 3. “Il potere dei giovani”; 4. “L’indomito spirito umano”. La trattazione oscilla tra evidenze scientifiche e critiche socio-politiche blande, ma pur sempre apprezzabili. A proposito dell’intelletto umano, ad esempio, viene sottolineato il ruolo fondamentale del linguaggio per tramandare saggezza, fare programmi e discutere problemi, linguaggio che ha sede non a caso nella stessa corteccia prefrontale dalla quale vengono innescati i meccanismi di speranza. Al netto delle dinamiche di sottoistruzione programmatica messe in luce soprattutto in relazione a Stati Uniti e Gran Bretagna, così come «della convizione assurda e molto poco saggia che ci possa essere uno sviluppo economico infinito in un pianeta dalle risorse naturali finite» (p. 73), Goodall tiene a nominare alcune soluzioni innovative già sviluppate dall’intelligenza umana nella direzione di un nuovo modo di abitare il pianeta, come «l’energia rinnovabile, l’agricoltura rigenerativa e la permacultura, le diete vegetali» (p. 62). All’aggressività umana che, in quanto consapevole e non meramente istintuale, è uno dei comportamenti deteriori ad avere accompagnato l’evoluzione della nostra specie, Goodall contrappone con convizione l’altruismo e la compassione, a suo parere sempre più centrali nel codice morale universale – sulla linea delle teorie avanzate da Rutger Bregman in Humankind: A Hopeful History (Bloomsbury, 2020).

Che parli di intelletto o di spirito, di natura umana o non umana, di giovani o di adulti, Goodall sembra non stancarsi mai di raccontare storie di ispirazione: storie fatte di interconnessione tra esseri, di forza interiore e di cura circolari tra esseri umani, alberi e animali, di partecipazione attiva. Molto riuscita, tra queste storie, quella del progetto Tacare, portato avanti dal Jane Goodall Institute in Tanzania dal 1994 in poi, sulla base della cognizione per cui i problemi degli scimpanzé in molti paesi africani sono inestricabilmente connessi ai problemi delle comunità umane. In mancanza di fonti di sostentamento e di strutture educative e sanitarie, queste ultime sono state spesso portate a distruggere habitat boschivi e a commerciare in legname e cacciagione. Solo garantendo agli abitanti di dodici villaggi l’accesso a cibo, ambulatori e scuole, nonché a programmi di microcredito, è stato poi possibile procedere, in collaborazione con le stesse popolazioni indigene, alla piantumazione di alberi e alla protezione delle fonti d’acqua necessarie al benessere degli scimpanzé.

Fino a qui tutto bene, dunque: «obiettivi chiari e motivanti, modi realistici di realizzarli, la convinzione che si possano raggiungere quegli obiettivi, e il sostegno sociale per continuare anche di fronte alle avversità» (pp. 139–140) sono gli elementi imprescindibili per la costruzione della speranza, nonché denominatori comuni di molte storie vissute o anche solo raccontate da Jane Goodall. Eppure qualcosa, in questo libro, stride. Goodall mette in chiaro sin dalla prima pagina che «[i]l cambiamento climatico non è qualcosa che potrebbe colpirci in futuro, ma ci colpisce adesso con l’alterazione delle condizioni meteorologiche in tutto il mondo» (p. 7), nonché con l’ormai conclamata sesta estinzione di massa che ha «già spazzato via il sessanta per cento dei mammiferi, degli uccelli, dei pesci e dei rettili» (p. 86). La naturalista sottolinea con efficacia la mancanza di sincronizzazione tra questo disastro presente, oltre che futuro, e la miopia di aziende e governi che non riescono a uscire da una prospettiva di profitto economico e elettorale a breve termine che, paradossalmente, fa finta di ignorare uno dei maggiori problemi dell’oggi. Sul presente e sul futuro, dunque, Goodall suona piuttosto convincente. Ma che ne è del passato?

Le crepe che più indeboliscono Il libro della speranza affondano in una storia politica e culturale ricostruita con pericolosa leggerezza, se non con un’aperta distorsione della realtà dei fatti. Ad esempio, nel supportare la propria fiducia nei confronti dell’intelligenza umana, Goodall delinea un pantheon intellettuale e artistico in cui, tra gli altri, compaiono Linneo e i costruttori delle piramidi. Il botanico svedese che nel 1735 pubblicò il Systema Naturae, imponendo una terminologia e una nomenclatura sistematica sulla storia naturale, è anche altrove nel libro menzionato come «quel genio di Linneo» (p. 72). Eppure Carl Nilsson Linnaeus è uno degli esempi più eclatanti di quel subdolo razzismo applicato alla scienza che molti danni ha generato nel corso della storia, dal Manifesto della razza in giù. Nato e formatosi a Uppsala, vicino a Stoccolma, Linneo non ha quasi mai viaggiato (uno dei pochi spostamenti fu nella non proprio esotica Finlanda, ma persino lì arrivò a lamentarsi perché nessuno parlava la sua lingua e tutti, a sua detta, puzzavano di stoccafisso). Il sistema tassonomico da lui creato è stato influenzato con forza da questa visione statica, oltre che rigorosamente religiosa, del mondo. Come ricorda Deotto nel già citato L’altro mondo, «Linneo era convinto che il mondo fosse stato creato così com’era da una divinità superiore, il che significava che ogni pianta o animale aveva sempre abitato le stesse zone, perché così era stato deciso da un imponderabile calcolo divino. Questo limite concettuale portò Linneo a classificare anche gli esseri umani secondo questo parametro» (p. 232) – arrivando a identificare presunte specie di Homo troglodytes e Homo caudatus, nonché di Homo monstrosus (in riferimento alla popolazione indigena dei sami, abitanti della penisola finno-scandinava), oltre che a travisare, se non ignorare del tutto, il ruolo fondamentale di migrazione e adattamento per l’evoluzione di tutte le specie. Insomma, non proprio il tipo di eroe che si vorrebbe nel proprio olimpo.

E che questo errore di valutazione non costituisca un caso isolato è purtroppo confermato da una serie di altri riferimenti. Come si diceva, le piramidi costruite col sangue di un numero incalcolabile di schiavi sono esaltate come uno degli esempi più magnifici di architettura. Ma la schiavitù era all’ordine del giorno nell’antico Egitto, si obietterà. Che dire allora della ripetuta esaltazione, nel corso del libro, della figura di Winston Churchill (pp. 161; 168–169; 209), uno che di schiavitù moderna se ne intendeva parecchio? Goodall lo ricorda solo come la guida spirituale che portò «l’Inghilterra a battersi contro la Germania nazista anche quando quasi tutti gli altri paesi europei erano stati sconfitti» (p. 161). Ma Churchill è stato portatore di una serie di visioni razziste, sessiste e fasciste che, ricordate tutte insieme, fanno rabbrividire – come fa anche solo la quarta di copertina del volume da poco pubblicato da Verso Books, Winston Churchill: His Times, His Crimes, scritto da Tariq Ali. Tra le altre, dichiarazioni come queste: «Non credo che un grande torto sia stato fatto agli Indiani Rossi d’America o alle popolazioni nere d’Australia […] per via del fatto che una razza più forte, una razza superiore, una razza che sa come va il mondo, per dire così, è arrivata e ha preso il loro posto». Oppure: «Odio le persone con occhi a mandorla e treccine. Non mi piace il loro aspetto né il loro odore – ma forse non fa male andare solo a vederli». O ancora: «se permettiamo alle donne di votare questo significherà la perdita di ogni struttura sociale […]. Le donne sono ben rappresentate dai loro padri, fratelli e mariti». Infine, per avvicinarsi al punto di vista italiano: «Se fossi stato italiano, sono sicuro che avrei supportato con tutto il cuore te [Mussolini] dall’inizio alla fine nella tua lotta trionfante contro i bestiali appetiti e le passioni del Leninismo».

Forse la stessa mancanza di prospettiva storica ha permesso a Jane Goodall di accettare il titolo di Commander of the British Empire, come attestato nel libro da una foto di famiglia con medaglia annessa (p. 205). È qui che si rivela la problematicità della trattazione, quella portata alla luce dalla pillola rossa. Focalizzarsi sui discutibili modelli politici e culturali di riferimento di Goodall non costituisce un semplice esercizio di pignoleria. Il punto è che quando a un’indiscussa evoluzione morale e spirituale – che Goodall suggerisce e rivendica a ragione (p. 225) – non si accompagna una solida consapevolezza politica, la discussione tende a perdere credibilità e efficacia. La studiosa arriva a scrivere frasi a dir poco inesatte come questa: «[l]a sopraffazione coloniale inglese è finita quando l’Impero britannico è crollato» (p. 71) e così a cancellare di un tratto le conseguenze a lungo termine dell’estrazione di forza lavoro, di materiali e di risorse da parte dei poteri coloniali (in testa l’imperialismo inglese di cui Churchill è stato tra i maggiori esponenti) che è legata a doppio filo alla crisi climatica in atto – come argomentato dal cosiddetto “ambientalismo popolare” e “post-coloniale”, da numerosi movimenti di giustizia ambientale e da studiosi di riferimento quali Joan Martínez-Alier o Alfred W. Crosby, tra tanti. 

Fragile contezza politica e frammentaria prospettiva storica indeboliscono un libro altrimenti importante, nonché una figura di riferimento che si sarebbe preferita più solida. Goodall, invece, si riferisce all’Accordo di Parigi come al punto di svolta nel discorso ecologico che, come molti ormai sanno, non è stato affatto, sia per la limitatezza degli obiettivi prefissati che per il minimo impatto sulle politiche reali dei paesi firmatari. Si lascia raggirare in modo alquanto acritico da siparietti di spudorato greenwashing – come quello di Ben van Beurden, CEO della Shell, che in un meeting del World Economic Forum aveva chiesto di incontrare faccia a faccia Christiana Figueres, una delle menti dell’Accordo di Parigi, per raccontarle «di quando sua figlia di dieci anni era andata da lui a chiedergli se era vero che la sua compagnia stava distruggendo il pianeta» e di come «lui le aveva promesso che avrebbe fatto qualsiasi cosa per farla crescere su un pianeta sicuro e sostenibile» (pp. 145–146). Si ricordi, per contesto, che nel novembre di quest’anno Shell ha annunciato un altro quarto di profitti record che ammonta a 9,5 miliardi di dollari, quindi più del doppio dei profitti della stessa compagnia lo scorso anno. Forse van Beurden ha una visione molto personale di cosa sia «un pianeta sicuro e sostenibile», visto che la sua compagnia non traffica quasi in nient’altro che petrolio.

Insomma, considerando che Goodall si pregia di essere in grado di parlare con sincerità alle persone «di ciò che stiamo sbagliando, soprattutto quando possiamo assicurare loro che c’è una via d’uscita» (p. 217), ci si sarebbe aspettato uno sforzo informativo e argomentativo maggiore nel suo lavoro, che andasse al di là di un certo tono rassicurante e bonario. Per quanto difficile da metabolizzare, sarebbe stato forse preferibile leggere in questo libro che la CO2 emessa dalle centrali ora in uso è già sufficiente a riscaldare il pianeta oltre il limite tollerabile di 1,5°C identificato a Parigi nel 2016. E avere chiaro che bisogna tagliare entro il 2030 il 50% delle emissioni globali di gas serra rispetto ai livelli del 2010, il che equivale a un taglio di più dell’80% rispetto ai livelli di oggi, visto che nel mentre le emissioni medie sono aumentate. Sarebe stato più rassicurante se la realtà dei fatti fosse stata affrontata con onestà, senza le distorsioni e le imprecisioni presenti nel Libro della speranza, perché non può esserci davvero speranza senza conoscenza approfondita e spirito critico. Come afferma Ernst Bloch in Il principio speranza, è sempre necessario pensare oltre rispetto a dove ci si trova al momento, ma occorre dirigere la luce della speranza su ogni attimo della vita presente, con attenzione. Per rimanere in tema, un volume che promette di aprire davvero degli orizzonti futuri alternativi, sulla base di un’analisi attenta dell’oggi, sembra essere Hope in Hopeless Times, di John Holloway, pubblicato quest’anno da Pluto Press: un libro che propone di emancipare la ricchezza dalla sua monetizzazione capitalista. Principio utopico che permetterebbe allo stesso ambiente naturale di essere liberato dallo sfruttamento economico a cui è stato assoggettato soprattutto a partire dalla rivoluzione agricola e industriale, per tornare a fiorire come una ricchezza fragile e proprio per questo da salvaguardare. Con speranza, sì, ma anche con la rabbia consapevole indispensabile alle rivoluzioni.


Jane Goodall e Douglas Abrams, Il libro della speranza. Manuale di sopravvivenza per un pianeta in pericolo, traduzione di Emma Cappa, Bompiani, Milano 2022, 272 pp, 20 €