Ad accompagnare l’uscita della nona raccolta di Fabio Pusterla c’è un’aura di novità e cambiamento, come se il libro chiudesse una stagione avviata una decina d’anni prima (e comprendente le ultime tre raccolte: Corpo stellare del 2010, Argéman del 2014, Cenere, o terra del 2018) e avviasse un nuovo capitolo. E la novità, come notava Massimo Gezzi durante la presentazione della raccolta al festival Pordenonelegge (il 17 settembre 2022), sta già nella copertina in cui non figura questa volta nessun animale-guida.

Certamente, non di una cesura netta si tratta e di alcune di queste evoluzioni, riguardanti l’aspetto più propriamente formale e metrico, qualche sentore lo si aveva già avuto. C’è il desiderio di una sperimentazione maggiore con la lingua, anche autoimponendosi delle regole e delle forme entro cui muoversi, nella scia di un’aderenza più profonda e partecipata a certe soluzioni zanzottiane. Emblematiche in tal caso le figure etimologiche: «di tutto lo snaturabile snaturato rinaturato | malamente ridetto o silenziato: e svenduto» in Paesaggio verticale. Compianto per una valle tra le tante, in cui l’autore si rivolge proprio a Zanzotto confrontandosi con Avventure metamorfiche del feudo (in Sovrimpressioni, 2001). Il tutto avviene all’insegna della varietà e della compresenza di registri e di espedienti strofico-metrici anche molto eterogenei e dissonanti (si confrontino ad esempio, all’interno della stessa Requiem per una casa di riposo lombarda, le terzine in rima e il tono da filastrocca della sezione V con la libertà metrica e lo stile più grave delle sezioni II e III).

All’idea della varietà riconduce anche un altro elemento strutturale. Sempre in occasione del festival di Pordenone, Gezzi ha infatti messo in evidenza come Tremalume insceni in certo modo la successione delle tre cantiche della Commedia dantesca. Osservazione senz’altro fondata, che però porta con sé un’ulteriore constatazione: la prevalenza quantitativa della parte ‘infernale’, magari stemperata da venature purgatoriali, che sembra estendersi fino all’arrivo di “Lugangeles” (la raccolta è divisa in cinque sezioni precedute da una lirica-preambolo senza titolo: “Le sbarre”, “Requiem”, “Cielo dei vinti”, “Lugangeles” e “Angelicanze”). Viene in mente Sotto il Monte Maggiore, con Giovanni, dove i personaggi incedono «con pochi vivi e molti morti» in uno scenario anti-idillico (alle pendici di un vulcano), ma in cui andrà notato che la pacatezza dei toni ricorda anche certe salite purgatoriali.

Nel ricchissimo saggio di Massimo Natale che apriva la recente antologia Da qualche parte nello spazio, quest’ultima con testi selezionati proprio dalla triade sopra nominata, un commento mi aveva in effetti straordinariamente colpito: dalle liriche di Tremalume anticipate in chiusura dell’antologia, nonché da quanto dichiarato da Pusterla nell’autocommento, lo studioso traeva l’impressione che una catastrofe annunciata lungamente nelle raccolte precedenti, e in modo particolarmente esplicito in Cenere, o terra, avesse in qualche modo avuto luogo: «verrebbe voglia di dire che, in effetti, quella catastrofe è avvenuta e ha lasciato il suo indelebile segno»[1]. Ciò non significa, diciamolo fin d’ora, che in Tremalume manchi il contraltare fiducioso della luce, come sottintende il titolo stesso; o ancora, parafrasando Polo Nord, che non si incontrino in questo inferno ‘forme dubitose di speranza’ e resistenza. Di questa apertura di orizzonte il lettore non dovrà dubitare, perché Pusterla è un poeta per il quale non cedere ai moti avversi e nefasti è da tempo (o forse da sempre) imperativo etico, convinto, come dev’essere stata Maria Corti a insegnargli, che «la disperazione [sia] un lusso troppo facile»[2].

Dire dove si trovi o in cosa consista questa catastrofe non è facile. Alcune spie però sostengono la percezione di Natale: «In queste boscaglie forse è capitato qualcosa» (p. 26); lo spirito del male «annusa il suo trionfo» (p. 44); «ciò che è invisibile | ha imposto di guardare || fragili fondamenta assi divelte | su cui camminavamo. || L’intima connessione delle cose | splende ora nella rovina e nel dolore» (p. 169). E nella Canzone delle acque ripide si legge (p. 96):

Eccomi sono tornata
più cattiva e più arrabbiata.
[…]
Sono tornata a gridare
che questo non si può fare
che voi l’avete fatto
e siete maledetti.

dialogando forse con Ultimi cenni del custode delle acque (da Cenere, o terra) in cui l’acqua avvertiva: «La piena | non potrà essere rinviata per molto | ancora».

Sicuramente la catastrofe è anche quella dei molti lutti, pubblici e privati, che disseminano la raccolta e del tragico solco lasciato dalla pandemia, ma io credo che stia anche e soprattutto nell’assenza di «un’idea | comune, condivisibile» e quindi di una forma di comunità, come l’autore suggerisce in Una lettura in carcere. Quest’ultima è una delle liriche più intense di tutta la raccolta, in cui, non a caso, i detenuti stanno «non dentro un limbo o purgatorio, ma | nel girone del rovescio» (p. 34). La necessità di un sentimento comunitario, tema da sempre caro a Pusterla, risulta allora centrale proprio perché rappresenta la via d’uscita più coerente e feconda dal nostro ‘inferno’ quotidiano e contemporaneo; in Requiem per una casa di riposo lombarda uno degli anziani canta, nel suo delirio lucido, un verso dell’Internazionale: «chi ha compagni non morirà».

È la mancanza di un orizzonte comune a chiuderci nelle sbarre, figura e tema che attraversa tutta la raccolta e non solo la relativa sezione («Poi le sbarre si richiudono | ognuno continua il suo andare» si legge in “Angelicanze”, p. 145); è la mancanza di pietà ed empatia verso l’altro, unita all’erosione della memoria. Quest’ultima si riconferma nutrimento e bene fondamentale da custodire, se proprio negli scomparsi e nelle cose che tendiamo a dimenticare o ignorare può capitare di scorgere i bagliori di letizia che caratterizzano “Angelicanze”.

All’ultima sezione si arriva però tramite la mediazione di “Lugangeles” (neologismo, come «tremalume» o «acqualuce», che è uno degli aspetti in cui affiora la volontà di sperimentare, di giocare quasi con la lingua). La sezione, che esemplifica ulteriormente la tendenza dell’autore a darsi una regola compositiva (tutti i testi che la compongono constano infatti di due coppie di cinque versi), è dominata da un senso di sospensione e di silenzio. O meglio: dalla loro ricerca, perché la città irrompe con le sue risate forse non innocenti, rumori di motori, «sirene spiegate» (p. 121). E se la città tace l’autore sa che «Non durerà molto questa breve | sospensione» (p. 129).

In «Angelicanze» ritroviamo invece alcuni scenari e nuclei tematici tipici dell’universo poetico dell’autore, riassumibili in «tutte le cose basse sulla terra» che a loro modo «provano ad alzarsi verso il cielo» (Nostoc). Sono bellezze naturali che sopravvivono alla devastazione umana; lo sguardo dei bambini che non ha perso lo stupore e sa farsi uguale a quello degli altri esseri viventi; la comparsa epifanica, benché forse più sporadica rispetto al passato, dell’alterità animale; oggetti scartati (come la bustina di tè in Lipton sulla spiaggia), talvolta segni che non capiamo e che però ci avvertono o ricordano qualcosa.

In questa sezione troviamo Aareschlucht: anticipato nell’antologia, è uno dei testi più impegnativi che esplica meravigliosamente un altro tema centrale in questa raccolta, quello del tempo. Nel primo movimento della lirica torna anzitutto l’idea della gabbia: «Chiusi nel cono d’ombra della cronaca | non vediamo la grandezza della storia; | prigionieri della storia ci sorprende | la leggenda di un sasso dilavato». Questo «sasso», come si precisa in una delle strofe precedenti, è stato portato dentro ai boschi da un ghiacciaio migliaia di anni prima. È questo allora che sorprende chi è chiuso nelle sbarre: l’avvertire l’«incrocio dei tempi» (p. 171), il loro prolungarsi e ripresentarsi. L’autore stesso, nell’intervista alla RSI del 3 settembre [3], ha commentato proprio questo aspetto, sottolineando come la nozione di tempo abbia subito una trasformazione radicale nell’ultimo quarto di secolo e non possa più essere concepito come un continuo progredire in linea retta.

Dove s’addensa il mistero, dove si percepisce lo «spessore» del tempo gli opposti coincidono o si compenetrano: «Tutto è precario tutto è duraturo», si legge ancora in Aareschlucht. È un discorso che si trovava esplicitato già nella lirica Hohokam:

Dice che c’è qualcosa di più grande,
un modo di sentire.
Che il tempo ha uno spessore
e non procede come freccia impavida
che ignora il suo finire.

ma che, a ben guardare, dissemina tutta la raccolta: Truganini «passa il suo tempo | fuori dal tempo» (p. 74), il vecchio che canta l’Internazionale spera «che il tempo | esca dal ritmo» (p. 56) e conduce i suoi compagni «Verso il tempo che si perde | Fuori dal ritmo fuori dalla storia» (p. 62). Uscire dal tempo significherà allora una speranza non metafisica di continuazione, una possibilità di durare come traccia o monito, a ricordare che «un altro ritmo» è possibile (p. 171). Questo ritmo è poi lo stesso con cui si muove la parola poetica, la quale pazientemente può aprire un varco nel presente e nella storia, spingere ad agire; lo stesso anche delle gocce d’acqua che erodono la roccia aprendosi una via in Luce migrante, o della «Parola navicella» della lirica-prologo, immaginata dall’autore come una nave che rompe il ghiaccio e continua ad avanzare.

Nella stessa intervista radiofonica, l’autore tracciava poi un collegamento tra la dimensione del tempo e l’atto del camminare, situazione comune anche nelle raccolte precedenti ma che si fa ora forse più assidua (si veda di nuovo Sotto il Monte Maggiore, con Giovanni oppure Porte chiuse, incontri, cancelli). Il camminare è inteso come sopravvivenza; come attraversamento faticoso ma necessario del tempo e delle difficoltà. Quest’idea mi ha allora riportato alla mente le parole di Michel de Certeau, che ne L’invenzione del quotidiano dedica proprio al camminare uno dei capitoli più belli: «La storia comincia raso terra, con dei passi»[4]. Anche per De Certeau camminare era un modo di resistere, una delle pratiche minute messe in atto a livello del suolo per sfuggire e contrastare le strategie del potere, identificate per contrapposizione con un vedere dall’alto la totalità («Quello che spia, quello che ghermisce» scrive Pusterla, p. 44). Si pensa allora all’aquila di Botta e risposta sulle ombre, che si posa «sullo sperone più alto della cresta, | di lì guardando a capofitto il mondo | con occhio micidiale». E, volendo tornare di nuovo ad Aareschlucht, ecco comparire nel secondo movimento un nibbio reale che «vede o non vede dall’alto e sorvola noncurante» (omologo del montaliano «falco alto levato» e della sua «divina Indifferenza»?).

In Aareschlucht, l’immagine finale è di catastrofe. Ma la poesia successiva, l’ultima (Altopiano dei fuggiaschi), sembra quasi una risposta a questa noncuranza altezzosa delle sfere superiori e propone un esempio positivo di resistenza e solidarietà; una forma di ‘social catena’ che si allarga anche oltre i confini dell’umano («Ma qui la terra è umida, sicura, | nera la storia ha insegnato certe cose», p. 178). «Non è poco» direbbe l’autore (p. 46); piccoli gesti che possono però produrne altri ed assicurare una sopravvivenza a quel lume vacillante. Non a caso proprio la luce, come i rifugiati dell’ultimo testo, è detta «fuggiasca» in Luce migrante (p. 166); a significare che, benché esiliata e messa alle strette, saprà non cedere e tornare.


[1] M. Natale, “La casa e il ghiacciaio. Per Fabio Pusterla”, in F. Pusterla, Da qualche parte nello spazio, Firenze, Le Lettere, 2022, p. 22.

[2] F. Pusterla, “Sismogrammi”, Ivi, p. 286.

[3] Intervista rilasciata a Massimo Zenari: “Tremalume” di Fabio Pusterla, 03.09.2022, https://www.rsi.ch/rete-due/programmi/cultura/alice/Tremalume-di-Fabio-Pusterla-15597796.html?f=podcast-shows.

[4] M. De Certeau, L’invenzione del quotidiano, trad. Mario Baccianini, Roma, Edizioni Lavoro, 2012, p. 150.


Fabio Pusterla, Tremalume, Marcos y Marcos, Milano 2022, pp. 192, € 20.