«Non crediate che la letteratura sia fatta solo per essere letta. È fatta per essere vissuta. Se non insegnasse a vivere, se fosse soltanto un gioco, non me ne sarei mai interessato».

Nel Mestiere di vivere Pavese indica alla base della pratica della lettura il desiderio di rintracciare nei i testi altrui qualche traccia di sé, la necessità di una conferma esterna: «Ci colpiscono degli altri le parole che risuonano in una zona già nostra». È facile immaginare uno scambio simile sia avvenuto tra Philippe Jaccottet (1925-2021) e le parole di Andrée Bonnard, suo docente di letteratura greca a Losanna.

La letteratura, dunque, come strumento per rifiutare l’autoreferenzialità della retorica, come spazio di espressione del rapporto col reale e della prospettiva da assumere rispetto a questo.

Ma qual è il punto di vista, la postura, di Jaccottet? Uno sguardo ampio sui significati della sua sfida alla parola poetica è contenuto in Pensieri sotto le nuvole, antologia recentemente edita da Marcos y Marcos a cura di Fabio Pusterla, traduttore nonché amico di lunga data del poeta di Grignan. La raccolta tiene assieme i testi di À la lumière d’hiver (1977) e Pensées sous les nuages (1983) pubblicati unitariamente da Jaccottet per i tipi di Gallimard nel 1994.

L’ampiezza dello sguardo è contraddistinta dall’intreccio di due temporalità che attraversano le sezioni delle raccolte. Nella prima, sincronica, scorgiamo Jaccottet ripercorrere sentieri già battuti in precedenza, diretti a impegnare chi scrive e chi legge nella ricerca (a sfondo etico, come si osserverà a breve) di «qualche cosa tra le cose, come lo spazio | che corre tra il tiglio e l’alloro».  A complicare la marcia interviene tuttavia l’intensità della sofferenza fisica, dell’approssimarsi del lutto che rende inutile il dire poiché: «quando il dolore somiglia a qualcuno che viene | strappando il velo di fumo in cui ci si avvolge, […] parlare allora sembra menzogna, o peggio: vigliacco | insulto al dolore, e inutile spreco».

L’indagine della realtà stravolta, la cui essenza rimane inafferrabile dall’espressione: «lordura non da dire né da vedere | da divorare», affina i propri strumenti tramite un severo autodafè che ancora una volta predispone le basi per un ponte, sempre tentato e mai pienamente riuscito, con la morte e per una temporalità altra, postuma. Ma l’affondo è ripido e la disperazione di ogni salvezza trova ampio spazio: «Non si tratta ormai più di passare | come l’acqua tra l’erba dei prati: | stavolta non c’è scampo».

Nondimeno, la specificità tematica delle ultime raccolte si percepisce valutando lo scarto con le precedenti anche in termini di rimanenze: nonostante l’angoscia tracimi («adesso sta sopra di noi | come una montagna a strapiombo»), nessuna rassegnazione ha luogo: «che possa esser gettato così in basso | il maestro, la semente […] | senza soccorso alcuno | costretto, inchiodato, svuotato».

Gli spiragli provengono dalla medesima ostinata indagine che amplia lo standard della percezione spazio-temporale nella poesia di Jaccottet, la novità consiste nell’osservarli nel corpo a corpo con la ferocia del dolore: «E io adesso intero nella cascata celeste, avvolto nella capigliatura dell’aria |[…] | per un istante, se abbraccio intero il cerchio del cielo | che mi circonda, vi credo la morte compresa»; «parlare però è un’altra cosa, qualche volta | […] | come se bisognasse, non si potesse dissipare | un eccesso di forza».

Poiché questa seconda dimensione luttuosa è mirabilmente spiegata dal saggio introduttivo di Pusterla, nella convinzione che la poesia di Jaccottet offra ancora una chiave di sollecitazione preziosa, si propone qui, come umile prontuario-commento ma soprattutto come invito alla lettura, un rapido percorso sulle tematiche più frequentate dal poeta.

Innanzitutto la ricerca della luce, che significa decentramento dell’io, educazione all’ascolto, trasmissione. L’attenzione rivolta all’elemento naturale comprende sia un tenace esercizio di precisione che porta le parole a flettersi, ad aderire il più possibile alle cose (insegnandoci la direzione dell’adattamento: noi il più possibile allo spazio circostante, e non viceversa), sia il tentativo di nominare e condividere i punti di contatto tra l’umano e la realtà naturale circostante. Se la correlativa può trarre in inganno rispetto a una convivenza solo presuntivamente pacifica, la parole di Jaccottet rivela l’estenuante fatica che abitare tale contraddizione, del resto ineludibile, comporta.

Già a partire da L’Effraie (1953) ma in particolare con Airs (1967) — dopo i meno intonati tentativi giovanili di Trois poèmes aux Démons (1945) e Requiem (1947) —, Jaccottet, che apprezza Ponge e gli haiku rifiutando di contro i linguaggi intrisi di deteriore maledettismo e ispirazioni surrealiste, sfida il linguaggio a non ridursi a contatto con la retorica, a non ossidarsi, anzi a coltivare una percezione mai assuefatta dei propri limiti. È del 1990 la traduzione, offerta di nuovo dalla voce di Pusterla, nel primo fascicolo di Idra, degli otto componimenti che formano Parler, sezione di À la lumière de l’hiver: «Parlare è facile, e tracciare parole sulla pagina | vuol dire, per lo più, rischiare poca cosa […] | “fetore” e “fiore” per esempio sono quasi uguali, | e quando avrò ricoperto di “sangue” l’intera pagina, lei non ne sarà macchiata, | o io ferito. || Capita di provare orrore per questo gioco».

In altre parole, Jaccottet è convinto che la natura, il nostro contatto con la sua luce, conservi potenzialità altamente benefiche. La condizione che rende possibile, non certa, la connessione risiede nell’impegno a non cedere a scorciatoie linguistiche, dunque nel riconoscere a monte il valore e l’irriducibile alterità di ciò che è fuori da noi: «Quel che ho pensato quest’estate dopo aver letto l’Ode a un usignolo di Keats nella bella traduzione di Bonnefoy: che il canto dell’usignolo era del tutto un’altra cosa» (Quegli ultimi rumori).

Un passaggio in prosa di Passeggiata sotto gli alberi chiarifica il concetto su cui vale la pena soffermarsi. Si tratta del paragrafo dedicato alla condanna delle similitudini da arraffare al buon mercato dell’imprecisione sviluppata da Musil ne L’uomo senza qualità tramite la rapida biografia del «brav’uomo pratico e realista [che] non ama affatto la realtà e non la prende sul serio» di cui lo scrittore austriaco ripercorre le varie fasi di crescita in termini di frustrazione progressiva, maturata nel corso di una vita pienamente conformista da cui non rimane che alienarsi alterando la realtà con similitudini improprie: «siccome la neve qualche volta lo infastidisce, la paragona a candidi seni femminili […] sarebbe spaventatissimo se i capezzoli [di sua moglie] si trasformassero a un tratto in becchi di colombe o in coralli incastonati, ma la similitudine poetica lo inuzzolisce».

Jaccottet, che sfugge le sirene del bel canto, individua la causa del cinismo espressivo nel mancato riconoscimento dell’alterità, dell’esistenza e del valore dell’Altro. Citando le immagini riuscite di Musil e Rilke commenta, all’opposto: «Si tratta evidentemente di immagini, di accostamenti che non nascono dal desiderio di fuggire, di nascondere o d’alterare il primo termine della similitudine […] È probabile che le emozioni più intense ci facciano percepire il nostro legame con il mondo esteriore, ci suggeriscano un’unità nascosta […] Forse questa specie di rivelazioni ci è concessa perché riusciamo a staccarci da noi stessi aprendoci di più, conseguentemente, alle lezioni provenienti dall’esterno» (Passeggiata sotto gli alberi).

In termini filosofici, l’obiettivo alla base della messa in discussione del linguaggio e dell’Io, delle sue sovrastrutture, è riconoscibilmente vicino al pensiero di Simone Weil, all’effacement du soi. Se tra gli appunti de La semaison si legge «l’attachement à soi augmente l’opacité de la vie», la lingua poetica ne cristallizza il precipitato in riconoscibili tracce linguistico-stilistiche quali l’insistito uso dell’impersonale, on, in Pensées sous les nuages, e il frequente ricorso alla semantica dell’ascolto e dell’udito (dove risuona palese l’eredità di Rilke, che Jaccottet traduce), intesa quale facoltà percettiva meno immediata e in questo senso più disponibile alla profondità rispetto a quella visiva, che lascia spazio a una sezione dedicata al barocco inglese di Henry Purcell (1659-95).

Tuttavia, a scanso di eventuali equivoci circa ideali mistici in realtà mai assunti a modello  dal poeta (a proposito rimando alle riflessioni sul poeta irlandese George William Russell, sempre all’interno di Promenade), è del tutto evidente che la richiesta che Jaccottet rivolge al lettore non consiste nella castrazione dell’immaginario individuale ma in un esercizio etico incentrato sul dialogo costante tra ricerca espressiva e messa in dubbio che prevede come  passaggi obbligati l’accettazione dolorosa della sospensione e dell’errore. I versi iniziali, a cui il corsivo offre il suggello della dichiarazione poetica, della raccolta qui recensita pongono l’intera opera sotto il segno dell’incertezza come guida: «che rimanga nell’angolo della stanza. Che misuri, come finora il piombo, le linee che metto insieme interrogando».

Il ruolo dell’analogia associativa è difatti essenziale alla voce poetica, a fare sì che la luce, cioè la relazione tra l’individuo e la realtà, diventi visibile e condivisibile come si legge in Passeggiata sotto gli alberi: «In effetti ciò che mi resta di tutti quei momenti passati a osservare le montagne […] può resistere in quelle parole scritte precedentemente: “montagne leggere”, “rocce trasformate in vapori”. In quelle parole che, volta per volta, tentano di dire la verità, non sul mondo né su di me ma, forse, sui nostri rapporti» (Passeggiata sotto gli alberi).

L’intensità della meta espressiva («in me non ci fu mai gusto alcuno per la storia, letteraria o di altra natura. È la terra che amo, la forza delle ore che cambiano» scrive sempre in Passeggiata), rende inoltre flessibili i confini del genere: «non bisognava temere di lasciare agire il lievito della metamorfosi». È in ragione di ciò che anche tra i testi di Pensieri sotto le nuvole si alternano, ricalcando il ritmo del pensiero, punte liriche e andamenti ragionativi a cui, come per La parola gioia, è concessa anche la distensione della prosa.

Altrettanto essenziale nella poesia di Jaccottet è, ovviamente, il come. L’equilibrio tra le polarità appena discusse non trova risoluzione in un’accanita originalità: l’aderenza alla realtà, pur dissociandosi dall’opacità dell’abitudini sovrastrutturali, non può farsi grido che, come Jaccottet sostiene in Quegli ultimi rumori citando Zbigniew Herbert (1924-1998): «raggiunge il silenzio | ma per raucedine | e senza intenzione | di raccontare il silenzio».  Al contrario la messa a fuoco della parola si avalla del dialogo con gli interlocutori della tradizione: «È come se ci fosse una poesia nascosta nel mondo di cui fossimo i traduttori. Quello che dico non è veramente originale, ma non potrei, per essere originale, dire un’altra cosa». 

La centralità della traduzione nella poesia di Jaccottet è agilmente deducibile, oltre che dal ruolo di tramite con la Francia per poeti come Leopardi, Ungaretti, Montale, Sereni, Luzi, Bertolucci, Erba, o per la traduzione di autori europei (inizia dal ‘47, su commissione dell’editore losannese Mermod, la serie di traduzioni inaugurata da La Morte a Venezia di Mann), in virtù del legame amicale e letterario con Pusterla da cui traggo l’immagine del cedro siberiano, lo stlanik, con cui il poeta ticinese, all’interno della raccolta di saggi Il nervo di Arnold, concretizza la tenace resistenza di quella specifica forma di poesia che dichiara la propria linfa frutto dello scambio tra voci diverse:

Lo stlanik […] può rappresentare la forza e la fragilità, la pacifica caparbietà della parola poetica? Me lo auguro. Tanto più che, in mezzo ai boschi dove cresce lo stlanik, è passato davvero, molti anni fa, un grande poeta, Osip Mandel’stam, sulla via della deportazione che l’avrebbe condotto alla morte; e allora quando penso allo stlanik a me viene subito in mente la figura di un altro poeta, Philippe Jaccottet, che una volta a Francoforte, leggendo appunto le sue traduzioni francesi di alcune poesie di Mandel’stam, si è alzato in piedi (lui, di solito così timido e riservato), e con voce più alta del normale ha detto che i versi di Mandel’stam sembrano dirci, ancora oggi: “In piedi, alziamoci in piedi! Anche nei momenti peggiori, anche nelle peggiori condizioni: su, in piedi, camminiamo”.


Philippe Jaccottet, Pensieri sotto le nuvole, traduzione e cura di Fabio Pusterla, Marcos y Marcos, Milano 2022.