Fra tutte le mie paure, solo di una so ricostruire l’origine. Avevo quattordici anni e stavo buttando via un pomeriggio d’estate fissando il soffitto del salotto dei miei. Mia madre aveva messo su un Greatest Hits di Bruce Springsteen, artista per cui non provo alcun tipo di attaccamento, nemmeno la più meccanica delle nostalgie. In quel momento suonava Dancing in the dark – solo oggi, ripensandoci, colgo l’associazione. You can’t start a fire, attaccava il ritornello e come se qualcosa mi stesse strattonando per un orecchio, girai la testa verso il divano blu notte. You can’t start a fire without a spark. Pensai, come se fosse la cosa più naturale del mondo: «E se diventassi improvvisamente cieco?». Il mio corpo si irrigidì di colpo, come se una tenaglia avesse stretto le mie giunture. This gun’s for hire. Iniziai a piangere, come se la notte stesse per scendermi sugli occhi. Even if we’re just dancin’ in the dark.

Il fatto che in quel periodo pensassi con tanta angoscia alla cecità aveva un fondo di razionalità. Pochi mesi prima avevo fatto le mie prime esperienze emicraniche. Partivano sempre con uno strappo luminoso sul bordo del campo visivo, che si allargava come una macchia iridescente a mezzaluna. La seconda o terza volta il dolore fu talmente atroce che mi ritrovai a vomitare nel giardino dei miei. Gli interni della casa erano troppo stretti e luminosi e mi sembrava di star per impazzire. È certamente un’emicrania con aura, mi rincuorava il mio neuropsichiatra, ma dobbiamo comunque fare degli accertamenti per essere certi che non sia qualcosa di peggio. Qualcosa di peggio che preme contro la materia grigia. Che oggi ti rende emicranico, domani cieco, dopodomani morto. Ricordo quei momenti come un’esperienza sostanzialmente formativa: mai ero stato così cosciente di quello che il mio corpo poteva infliggermi. Per la prima volta realizzavo quanto in là si potesse spingere il dolore. Addirittura la cecità, afflizione che, nella mia testa, colpiva sempre gli altri, poveri loro, poteva capitarmi in sorte. Su quel divano, in quei mesi, in quella casa nel varesotto, diventava reale il male più straziante.

Ho ripensato spesso a questo mio primo faccia a faccia col dolore leggendo Quando le belve arriveranno, secondo romanzo di Alfredo Palomba pubblicato a febbraio da Wojtek, casa editrice le cui uscite continuano a confermarsi fra le migliori che il panorama italiano contemporaneo ha da offrire. Con grande lungimiranza e gusto, Wojtek si è ritagliata una nicchia nell’editoria italiana pubblicando libri di narrativa sempre al confine fra l’ultra-contemporaneo e il disturbante.

La storia, come sempre, è semplice: un ragazzo senza nome, presumibilmente sui trent’anni, accetta una posizione di insegnante di sostegno in un paesino di provincia. Vuole fuggire dalla madre, una sorta di spettro con una spiccata passione per gli alcolici, e allontanarsi dalla «nonna-pianta», come la chiama lui stesso con affetto macilento e velenoso, ormai da anni ridotta in stato vegetativo. La vicenda è tutta narrata in prima persona, una prospettiva stretta e angosciosa. Il protagonista è divorato da un’apatia virulenta, stomachevole. Il paesino in cui termina la sua fuga si dimostra rapidamente un vero e proprio inferno sulla Terra. I personaggi che incrocia sono esseri storti, spezzati dai colpi incessanti del proprio male oscuro: Haochen, lo studente che gli viene affidato, costretto su una sedia a rotelle e capace giusto di dire «Ma»; Ahmed, adolescente già anziano che si trascina dietro una sacca colostomica maleodorante; il bidello Vanni, ridotto ad uno stato di violento infantilismo da un cancro al cervello e così via. Nel frattempo, le mura della stanza del protagonista si restringono, senza apparente motivo, ogni giorno qualche centimetro di più, e qualcosa inizia a far sentire la sua presenza.

Sin dalle primissime pagine, il libro di Palomba è dominato da una sorta di orrore anatomico, da uno sguardo attonito e disgustato su ciò che il corpo umano può fare. Anzi, si potrebbe affermare senza timore di smentita che Quando le belve arriveranno è, almeno in prima battuta, un’opera ossessionata dalle potenzialità orrifiche del corpo umano. Il libro è scandito da un’incessante parata di organi innaturalmente protrusi e gonfi, infezioni che si propagano in maniera disgustosa, cervelli calcificati nelle loro scatole di ossa piatte. Le persone che popolano le pagine sembrano giusto delle appendici agite dal proprio dolore. La fisicità deforme e terribile dei vari personaggi che si susseguono nell’opera è spesso la loro caratteristica preponderante, il biglietto da visita con cui si presentano e il loro modo principale di esistere per tutta la durata del racconto. Quasi nessuno sfugge a questo destino carnale, e i pochi che sembrano fare eccezione sono destinati a restare figure evanescenti – ai bordi, nel bene e nel male, di un’umanità sofferente. Verrebbe quasi da definire il libro di Palomba body horror, la categoria spesso affibbiata ad artisti come David Cronenberg, se non risultasse così eccessivamente sensazionalistico e riduttivo.   

Dico che definire Quando le belve arriveranno un’opera body horror sarebbe sensazionalistico e riduttivo perché, a ben guardare, le terribili afflizioni non sono affatto il punto del racconto, ma una sorta di preambolo su cui intessere un horror dal respiro decisamente più ampio, incastrato in una geografia più complessa ed inquietante. La biologia dell’orrore di Palomba è a malapena l’inizio di qualcosa i cui contorni sono decisamente più aperti e nebulosi. È, in un certo senso, solo l’incipit di un meticoloso worldbuilding che inserisce questi stessi corpi in una disturbante ecologia. L’orrore anatomico serve a dar corpo (pun intended) a un paesaggio che poco o nulla ha da invidiare alle goticissime cittadine nel Maine di Stephen King o alla suburbia apocalittica di Charles Burns.

Il vero orrore che abita il libro di Palomba è, infatti, la provincia italiana, vero e proprio teatro delle più impensabili mostruosità. Se il terrore parte evidentemente dai corpi accartocciati su loro stessi, trova, però, la sua massima espressione nelle case anonime, nelle scuole fatiscenti, nei meccanismi barbarici della politica locale che stritolano queste anime rotte. La grandezza dell’opera di Palomba è di riuscire a creare un mondo vividissimo, allo stesso tempo estremamente familiare, specialmente per chi ha passato buona parte della propria vita in provincia, e assolutamente mostruoso, senza, per altro, cadere nello stereotipo ormai davvero consunto della provincia italiana “magica” o “spettrale” o comunque spesso filtrata attraverso le lenti distorte di un’estrema idealizzazione dei suoi spazi e delle sue atmosfere, che tanto ha infestato la letteratura contemporanea di questo paese. Dal momento in cui Palomba comincia a dipingere il paesaggio del suo romanzo si ha la netta sensazione di star leggendo una cartografia precisa e spietata del panorama esistenziale provinciale del nostro ventunesimo secolo. I dettagli soprannaturali, o presunti tali, spesso ai limiti dell’orrore cosmico lovecraftiano, che fanno capolino già nei primi capitoli del libro e che strisciano fra i corpi brutalmente menomati risultano spiazzanti non perché inseriti in qualche contesto numinoso, macchietta fantasy dei paesini che hanno dato i natali a molti di noi, ma perché si mischiano organicamente con luoghi realistici nella loro brutalità e assoluta, deprimente normalità. Alcune minuzie che caratterizzano gli spazi di Quando le belve arriveranno sono sinceramente terrificanti nella loro verosimiglianza, abitanti a pieno diritto di una uncanny valley in cui ogni cosa sembra incredibilmente vicina, conosciuta e proprio per questo ancora più rivoltante.  L’orrore è cosmico, sì, ma il paese è reale.

Non solo lo spazio descritto da Palomba appartiene di diritto a questa terrificante familiarità straniante ma anche i riferimenti temporali che spuntano qua e là nel racconto sono estremamente efficaci nella loro perfetta e straniante contemporaneità. Il romanzo si apre con la descrizione di un video su YouTube, un servizio sul krokodil, la droga cannibale che divora e distrugge il corpo dei consumatori. Questa droga era stata oggetto di scandalo pochi anni fa e rispunta, ogni tanto, nelle fantasia dell’inconscio digitale. Questo riferimento restituisce immediatamente al lettore il tempo in cui l’azione ha luogo, il nostro. Man mano che la trama si dipana ci ritroviamo a doverci confrontare con le nevrosi del nostro secolo, restituiteci in tutta la loro brutalità e con crudezza spietata: le sparatorie di massa, registi improvvisati che filmano e consegnano la propria vita ai social media, i messaggi avvelenati di uomini anonimi e involontariamente celibi sono i fedeli compagni di strada che stanno al fianco del lettore fino al tragico epilogo, dando al realismo degli spazi una profondità ancora più inquietante.

Scrivere una recensione ad un libro del genere è un lavoro davvero ingrato: si vorrebbe trovare almeno un punto debole, qualcosa a cui aggrapparsi per far sembrare il proprio giudizio più imparziale – dargli quell’apparenza di professionalità distaccata. Quando le belve arriveranno non concede questo lusso. Ogni aspetto del racconto è preciso, cade esattamente dove dovrebbe, e il mondo che evoca è tanto vivido da risultare intossicante. Se dovessi trovare un neo in questa operazione sarebbe certamente la sua relativa solitudine, l’essere uno dei pochissimi esempi nella letteratura italiana contemporanea a parlare quella lingua letteraria – estrema, iper-realista, crudele – esplorata, almeno all’estero, da scrittori come Dennis Cooper o Travis Jeppesen o, più banalmente, Bret Easton Ellis. Ma, in fin dei conti, la cosa più negativa che questo breve romanzo, così incredibilmente intenso dalla prima all’ultima pagina, può ispirare, almeno ad un lettore come me, è l’invidia di non averlo scritto.


A. Palomba, Quando le belve arriveranno, Napoli, Wojtek, 184 pp., € 16.