Una delle prime cose che mi sono venute da pensare mentre leggevo Contrada dello Zodiaco (Fallone editore 2021) è che le parole ‘disastro’ e ‘costellazione’ hanno entrambe a che fare con le stelle. Il libro di Restaino sembra muoversi proprio tra questi due poli: il disastro (o la catastrofe, che paretimologicamente contiene anch’essa la parola ‘astro’) e la costellazione.

Dopo l’incipitaria “Preghiera” (a una innominata Musa esiodea a cui il poeta chiede di fargli “risalire le illuminazioni | precedenti, la scala della grazia | […] dove la verità lampeggia in alfabeto morse”) la raccolta si apre infatti con la sezione “Labirinto”, la cui prima poesia evoca un terremoto e un collasso di case:

Un groviglio di case sopra case
accumulate insieme senza regola.
Stanze dentro stanze sotto stanze
a piani sfalsati, ognuna con la sua funzione
e alcune in cui nessuno entrava mai.
Quella casa di case è già crollata
al soffio del lupo gote gonfie
il ventitré novembre dell’ottanta
come tutte le case crolleranno.

Molte delle poesie della raccolta si presentano come una perlustrazione nella labirintica e tentacolare infilata di stanze che è il mondo. Ma non si pensi a qualcosa di chiuso e claustrofobico: gli spazi interni sono spesso grandiosi, come quelli che si incontrano in “Genealogia dei codici”:

Passare dal niente al qualcosa
è un’equazione a troppe incognite:
più facile ritornare alle vetrate,
ai risucchi di scale dei palazzi
meridiani che primi ti diedero
indizi di un’infinità felice.

Altrettando grandiosi sono gli esterni, dalla laguna veneziana (“La tensione superficiale del bene”) alle architetture romane (“Trecento chiese a Roma”), all’Appennino (“Cordone sanitario”), alle marine campane (“Il cimitero sul mare è un precipizio”, “Alba a Portici”) ai paesaggi chimerici (“Dai giardini pensili di Capodimondo”).

E se il poeta si lamenta spesso dell’insufficienza e della debolezza della sua vista (“Il nostro è stato un difetto della vista”, “Le palpebre ben incollate, | vedo sempre meno”) e invoca una “Dolce Signora degli ipovedenti”, al lettore pare invece che le cose non siano mai state così nette e a fuoco come nei versi di Restaino.

Le immagini che li popolano sono sorprendenti e sontuose. Se non fosse nato a Salerno l’anno dei Mondiali di Spagna, l’autore potrebbe essere un compatriota di Bohumil Hrabal e di Vladimír Holan. Restaino non possiede solo una vista acutissima, ma anche un orecchio assoluto. La musica dei suoi versi ha qualcosa di naturale, il suo canto non conosce stonature.

Disastro e costellazione, si diceva. Ogni poesia dell’ultima sezione del libro intitolata “Zodiaco” prende il titolo dal nome latino di una costellazione ed è preceduta da un esergo, sempre in latino, che ricorda le descrizioni dell’Almagesto. Quella di Restaino sembra un’operazione opposta ai catasterismi antichi, ossia le trasformazioni post mortem di animali ed esseri umani (o parti del loro corpo) in astri, che fornivano materia al canto dei poeti (si pensi all’elegia degli Aitia di Callimaco dedicata alla chioma di Berenice, tradotta in latino da Catullo).

Restaino non proietta la realtà terrena negli spazi celesti per sottrarla alla provvisorietà del mondo sublunare e assicurarle una qualche forma di eternità. È piuttosto la luce delle stelle che si specchia sulla terra (e sulla pagina) e suggerisce collegamenti, analogie, percorsi. Come leggiamo in “Cuniculus”, noi siamo donati alle stelle “perché possano | usarci come tanti vasti specchi, | e così sta un firmamento istoriato | di molti avvistamenti giudiziosi”.

D’altra parte cos’è una costellazione se non la figura formata dalle linee che uniscono idealmente tra loro le stelle formando una figura zoomorfa o antropomorfa? E il poeta non fa con la realtà terrena quello che gli astronomi antichi hanno fatto con gli astri? Non scopre cioè legami altrimenti invisibili tra elementi della realtà e non li collega tra loro lasciando apparire immagini, forme e configurazioni di senso, laddove prima c’erano solo cose irrelate e disparate?

Così l’affiorare dalla sabbia di una spiaggia lacustre dei denti di cinghiale (“un rompicapo | per archeologi in vacanza”) poi del cranio di un capriolo è come il sorgere di “una collana di pianeti in fila”. I versi di Restaino rivelano il misterioso legame tra le costellazioni da cui ci separano distanze siderali e i resti di animali che emergono da sottoterra, reperti e referti minimi del nostro microcosmo.

Nella splendida “Catti”, l’occhio del poeta osserva una giovane dirimpettaia che tiene la finestra aperta sulla notte e fissa nel buio la punta infuocata della sua sigaretta come un astronomo che nel deserto di Atacama punta il proprio telescopio sulla più remota delle stelle. I gatti della vicina sono allo stesso tempo quelli della costellazione omonima evocata dal titolo e dall’epigrafe: “L’astro più luminoso dei Gatti | splende sopra il tuo tetto”. E i mozziconi di sigarette spente nel posacenere hanno la stessa grandiosità cosmica di stelle morte. Se negli astri si sono sempre cercati i presagi per il futuro (“il gioco delle predizioni” di cui si parla in “Cuniculus”), il poeta pratica la propria personale astromanzia con i riflessi delle stelle raccolti e ricomposti sulla terra e nella propria esistenza:

Cercheremo come un puzzle altri pezzi
di altre bestie, a formare una chimera,
una sfinge solo nostra da temere nella sera.

Persino le rime, usate da Restaino con calcolata parsimonia e quasi sempre solo nella chiusa dei testi, sembrano linee che creano costellazioni di parole e perciò di senso. Nella penetrante prefazione al volume Michelangelo Zizzi definisce la poesia di Restaino “elegante crittografia della sensibilità, allegoresi costante che si permuta in simbolizzazione”.

Questo è certamente vero, a condizione di considerare le immagini, astrali e no, di Restaino come simboli “che riposano in sé stessi”, per usare la formula di Bachofen. Ossia simboli che non rinviano a nient’altro se non a sé stessi. In “Cervus” l’epifania notturna di un cervo su una strada statale con il suo grandioso palco di corna che sembrano additare il cielo e l’esperienza del divino, fa dire al poeta:

Potrebbe starci qui un insegnamento.
Ma non è un cervo solo un cervo o un
cantare all’irripetibilità?

Questo quesito ci riporta all’inizio della raccolta, alla già ricordata “Labirinto” in cui il poeta tasta le pareti della realtà, le picchietta con il ritmo dei suoi versi per scoprire “l’intercapedine nascosta”, il “doppio fondo” metafisico che gli permetterebbe di trovare il “passaggio segreto | che potrebbe infligger[gli] l’uscita”.

Ma il momento della scoperta, agognata e temuta (“È un successo che attendo con terrore”), è sempre rinviato, forse perché il segreto, con la sua forza terrificante e medusea, non può essere guardato in faccia, ma soltanto auscultato posando l’orecchio alla parete che da lui ci separa:

“Perché se la casa finisse, se la porta
– segreto catastale che so esistere,
sognato da carpentieri borbonici,
cresciuto nelle febbri di burocrati –
aperta al di fuori si schiudesse
dovrei uscire, cosa che non voglio.
Tu custodisci le chiavi dell’uscita
per gli artisti, che usi a piacimento,
da cui entri ed esci senza che io sappia.
È sufficiente udire la tua voce
filtrata dai solai, rifratta dalle scale
per saperti cantare a una ringhiera”.


Angelo Restaino, Contrada dello zodiaco, Taranto, Fallone, 2021, €16.