If he had smiled why would he have smiled? To reflect that each one who enters imagines himself to be the first to enter whereas he is always the last term of a preceding series even if the first term of a succeeding one, each imagining himself to be first, last, only and alone whereas he is neither first nor last nor only nor alone in a series originating in and repeated to infinity. (p. 683)

Si racconta che a seguito dell’uscita della prima traduzione italiana dell’Ulisse, pubblicata per Mondadori nel 1960 a cura di Giulio De Angelis, si fosse presto radicata nelle famiglie italiane con interessi letterari l’idea che l’Ulisse fosse un libro “da avere”. Questo significava, generalmente, acquistarne una copia per leggerne sì e no qualche frammento, di solito dalla cosiddetta Telemachia, ovvero dai primi tre episodi dedicati a Stephen Dedalus, e dal celebre monologo finale di Molly Bloom, per poi lasciare il resto del librone perlopiù intonso sugli scaffali di casa.

L’Ulisse si è così presto guadagnato anche in Italia la fama scoraggiante di essere il più famoso fra i libri che nessuno ha mai letto fino in fondo. Considerato, però, che il romanzo fu riassunto da Joyce a Carlo Linati come la «storiella di una giornata (vita)» – quel 16 giugno 1904 in cui seguiamo i percorsi e pensieri del giovane poeta Stephen Dedalus e del pubblicista Leopold Bloom – a prima vista può apparire strano che l’Ulisse sia conosciuto principalmente per la sua difficoltà. Ciò che ne rende spesso ostica la lettura, infatti, non è tanto la sua “storiella”, quanto le acrobazie stilistiche e strutturali di Joyce, che, nei diciotto episodi che compongono il romanzo, in parte mappati sull’Odissea, sperimenta quasi ogni struttura narrativa e registro linguistico esistenti al suo tempo, talvolta inventandone di nuovi. Così, nell’Ulisse, ai flussi di coscienza dei primi capitoli sui vagabondaggi mattutini di Stephen Dedalus e Leopold Bloom, in cui temi e stili echeggiano gli uni negli altri con grande sottigliezza tecnica, seguono episodi ancor più avanguardistici, come Sirene, in cui una sessione di canto e bevute in un locale di Dublino viene resa in una prosa altamente musicale, e in cui le voci si inseguono come in una fuga (composizione musicale); o Buoi del Sole, in cui la visita di Bloom al reparto maternità di un ospedale è resa con una successione evolutiva di diversi stili letterari, volta a rappresentare lo sviluppo embriologico e infine la nascita di un essere vivente; o ancora l’allucinato copione teatrale di Circe, ambientato nel quartiere a luci rosse di Dublino, in cui si esplorano i territori dell’inconscio e in cui, secondo Nabokov, «il libro stesso sogna e ha visioni» (Lectures on Literature, p. 350).

L’Ulisse non è dunque un libro che rappresenta pensieri, ma un libro che pensa, non è un libro che racconta sogni, ma un libro che sogna, dove dettagli e temi sono sparpagliati e frammentati in voci e punti di vista in costante cambiamento, ma la cui ricostituzione in un’unica immagine finisce per evocare, nel lettore paziente, l’ologramma perfettamente integro di una città e delle menti che la abitano. Ed è forse proprio per questo, o nonostante questo, che l’Ulisse è diventato celebre come il più famoso fra i libri che nessuno ha mai letto fino in fondo. Eppure, non diversamente da quel Tim Finnegan protagonista di una ballata irlandese che dà il titolo al secondo romanzo impossibile di Joyce, Finnegans Wake, anche l’Ulisse si ritrova a resuscitare ciclicamente grazie all’elisir di qualche nuova edizione, domandandoci se davvero lo crediamo lettera morta, e costringendoci, ancora una volta, a interrogarci su cosa rende classico un classico.

Di che salute gode, quindi, a cent’anni dalla sua prima pubblicazione avvenuta il 2 febbraio 1922, in concomitanza col quarantesimo compleanno di Joyce, il più famoso libro che nessuno ha mai letto fino in fondo? Sorprendentemente per i detrattori, e prevedibilmente per gli appassionati, l’Ulisse è in forma smagliante: se c’è un romanzo che, dal giorno della sua pubblicazione, non è invecchiato di un giorno, e che invece chiede al mondo di invecchiare ancora un po’ per poter essere compreso, è certamente questo. A riprova della sua vitalità inesauribile, e con la complicità del centenario della sua pubblicazione, solo nell’ultimo anno in Italia sono state infatti pubblicate ben tre nuove traduzioni dell’Ulisse: una per Bompiani con testo a fronte, a cura di Enrico Terrinoni, una per Feltrinelli, a cura di Alessandro Ceni, e una per Mattioli 1885, a cura di Livio Crescenzi, Tonina Giuliani e Marta Viazzoli. Pregi e difetti delle rispettive edizioni sono stati ampiamente discussi sia online che su carta – a tale proposito, l’articolo di Ida Bozzi per il Corriere della Sera (28/11/2021) può aiutare gli indecisi grazie a un utile confronto fra gli incipit delle varie edizioni, includendo anche quella uscita per La Nave di Teseo, a cura di Mario Biondi, nel 2020.

Qui però vorrei concentrarmi in particolare sull’edizione Bompiani, che si può considerare a tutti gli effetti la prima vera edizione critica dell’Ulisse in Italia, e sul perché la sua comparsa nel nostro panorama editoriale ci esorti a riprendere in mano questo grande romanzo. Terrinoni, già traduttore assieme a Carlo Bigazzi dell’edizione Newton Compton dell’Ulisse uscita nel 2012 e vincitrice del premio Napoli per la traduzione, ha deciso di rivedere il suo precedente lavoro, qui presentato con correzioni e varianti nell’ordine delle migliaia, proponendo un apparato critico interamente nuovo e sensibilmente più approfondito. I diciotto episodi del libro sono ora accompagnati da cinque saggi introduttivi, introduzioni agli episodi, biografie dei personaggi, discussioni sulle corrispondenze omeriche, due mappe di Dublino, più di duecento pagine di note e un indice dei nomi menzionati nel libro, fornendo al lettore elementi esaustivi per confrontarsi con la complessità proteiforme del romanzo – il tutto, per di più, con la possibilità di consultare direttamente il testo originale a fronte.

Certo, sarebbe una reazione comprensibile quella di aprire l’Ulisse di Terrinoni e cominciare felicemente a zampettare con gli occhi lungo le prime parole, magari proprio in inglese, «Stately, plump Buck Mulligan came from the stairhead, bearing a bowl of lather on which a mirror and a razor lay crossed…» –per poi arenarsi sulle cinque colonne di testo della nota alla sola parola «Stately». Ma si deve davvero cogliere ogni singola reference fatta da Joyce, effettiva o potenziale, per poter leggere l’Ulisse? Molti si sono posti, non a torto, questa domanda, sulla cui risposta Joyce stesso sembra aver avuto opinioni contrastanti. Da una parte, infatti, sosteneva di aver scritto un libro tanto enigmatico con l’intento dichiarato di «tener occupati i professori per secoli a discutere su ciò che volevo dire» (Ellman, James Joyce, p. 535), descrivendo il suo lettore ideale come un insonne ideale. Dall’altra, però, Joyce fu anche lo scrittore che, come ci ricorda Terrinoni nel suo saggio introduttivo, regalò una delle prime copie dell’Ulisse non a qualche professore della Sorbona, ma a un amico cameriere che lavorava nel suo ristorante preferito di Parigi, François Quinton, e che per tutta la vita insistette sulla leggibilità e accessibilità dei suoi libri.

Ora che Joyce ha vinto la sua scommessa con i critici, avendoli effettivamente spinti a lottare o a giocare con il suo romanzo per almeno un secolo, è proprio Terrinoni, da critico, a ribadire la grande democraticità dell’Ulisse. Una democraticità che è non solo democraticità nella scelta dei personaggi, uomini comuni e donne comuni come Leopold e Marion Bloom, e del soggetto, ovvero il resoconto di una giornata qualsiasi, ma che è anche e prima di tutto democraticità dei temi e della forma del romanzo. Dei temi, perché ciò di cui l’Ulisse si occupa è la vita tutta intera, nella sua complessità, nella drammaticità delle sfide di ogni giorno e delle piccole vittorie che possiamo riportarvi scoprendo di far parte di una linea di successione in cui tutti gli esseri umani sono inclusi: i nostri genitori, i nostri figli, e persino gli eroi mitici di cui i personaggi del romanzo sono forse la reincarnazione. Della forma, perché la pluralità linguistica del testo mira a far partecipare tutto il mondo del miracolo della narratività: mira, cioè, a includere tutte le vicende, non solo quelle degli eroi, tutte le lingue, non solo quelle corrette, e tutte le parole, non solo quelle poetiche, nell’orizzonte di senso unico di una storia.

L’apparente difficoltà dell’Ulisse deriva precisamente da questa volontà di rappresentare la vita nella sua interezza esteriore e interiore, fosse anche solo quella svoltasi il 16 giugno 1904 a Dublino, senza censure, senza eufemismi, in una forma narrativa che si fletta continuamente per far spazio al manifestarsi reale del proprio contenuto. Così, i pensieri convoluti e filosofici di Stephen, studente e poeta, non sono quelli spesso pragmatici di Leopold Bloom (che pure possiede un “tocco d’artista”, come ci ricorda un dublinese, e il cui flusso di coscienza è a volte quello di un poeta inconsapevole), e i pensieri di Gerty McDowell, romantici e adolescenziali, non sono quelli di Molly Bloom, coi suoi amanti, con le sue remore, coi suoi ricordi di donna adulta. Per esibire queste differenze tra i personaggi e tra le tonalità degli eventi a cui vanno incontro nel corso di una giornata, la forma del libro muta tanto al livello microscopico della frase, quanto a quello macroscopico della struttura dell’episodio. 

Il vantaggio innegabile del poter consultare un’edizione che si confronta nel dettaglio sia con le minuzie stilistiche che con la visione d’insieme dell’Ulisse è dunque proprio quello di avere a disposizione la possibilità (non l’obbligo!) di esplorare la profondità di questo romanzo in ogni direzione, e di scoprirvi noi stessi direzioni nuove. Se anche dovessimo scegliere di non leggerle, infatti, ci sono davvero almeno cinque colonne e mezzo di testo (e forse un intero libro, come segnala lo stesso Terrinoni) da scrivere sulla sola prima parola dell’Ulisse.

Duecento pagine di note, cinque saggi e due mappe di Dublino non sono dunque, in questo caso, un monumento alla follia dei critici letterari, quanto una dimostrazione del fatto che si può continuare a parlare dei classici, e che classici sono proprio quei libri che continuano a rinnovarsi nel discorso che generano intorno a sé. Che l’Ulisse sia un’opera composita, dove si incontra l’eco di voci innumerevoli di vivi (i contemporanei di Joyce, tutti quanti, dai giovani intellettuali ai marinai italiani) e di morti (Shakespeare e Omero, fra i tanti) non significa che si debba necessariamente rintracciare l’origine di ogni singola voce, né che il rintracciare ogni singola voce sia ciò che costituisce il valore effettivo del testo o il miglior modo di fruirne. Questo è uno dei compiti che può proporsi un accademico, ma l’Ulisse non è un libro per soli accademici, né nell’intento né nella forma. L’Ulisse è un libro che, sì, si inserisce in una serie di tradizioni precedenti (quella omerica, quella del folklore irlandese, quella cristiana, per citarne alcune) ma ci ricorda costantemente che il suo fulcro non è la celebrazione servile di alcuna tradizione. La sua importanza e novità non derivano dal riferirsi ad altro. Nel suo essere composito, stilisticamente e strutturalmente, l’Ulisse non vuole dunque includere se stesso in gioco di oscuri riferimenti letterari ad altri testi, quanto piuttosto mostrare che tutto può entrare a far parte della letteratura, e che nessuna modalità narrativa e nessun registro linguistico devono essere a priori esclusi dalla vita: purché se ne risveglino le potenzialità estetiche, ogni cosa vive, ogni cosa parla. Dio, dice Stephen Dedalus, è un grido in strada – «a shout in the street» (p. 34).

Ma se ogni lingua è inclusa nell’Ulisse, allora nessuno di noi ne è escluso. Il pregio dell’edizione Bompiani è esattamente quello di facilitare questa inclusione, aprendo una via che renda possibile partecipare a un’esperienza di lettura complessa tanto nel dettaglio quanto nell’insieme. Qualora la lingua dovesse farsi ostica da decifrare, le note offrono un solido appoggio, così come il testo inglese permette ai più curiosi di verificare da sé le particolarità di certe espressioni e la fedeltà della traduzione. Là dove, invece, si rimanesse confusi dal mescolarsi di pensieri e azioni, e si perdessero di vista luoghi e personaggi, come può accadere avvicinandosi all’Ulisse per la prima volta, le introduzioni ai singoli episodi possono sempre aiutarci a ritrovare la strada, sia in senso figurato che letterale, potendo ora seguire il percorso dei personaggi direttamente su una delle due mappe di Dublino presenti nel testo. Grazie alle note, non sfuggiranno le ricorrenze di alcuni dettagli e temi – come i sogni sincronici di Stephen e Bloom, o una nuvola vista dal primo che molte pagine dopo compare anche al secondo, o l’inaspettata vittoria del cavallo Throwaway, o ancora le misteriosissime apparizioni dell’uomo con il mackintosh marrone – mascherati nell’apparente leggerezza delle coincidenze, e che costituiscono l’esempio perfetto della natura olografica del romanzo, il cui intero si ricostituisce proiettando fasci di impressioni da direzioni molteplici in un unico punto, ovvero nell’immaginazione del lettore.

In questa edizione, la vastità dell’Ulisse ci appare tanto nella vastità materiale del commento al testo, quanto nella vastità dei gesti possibili che ogni sua parola ispira proprio in virtù di questa ricostituzione di sé che il libro ci chiede di compiere interiormente, avendo come fine non l’evocazione vuota di altri testi o di altre tradizioni, ma il far esperire direttamente l’infinita complessità della letteratura e del suo unico vero oggetto: la vita. Dice Stephen Dedalus, citando formule bibliche nel delirio del quindicesimo episodio: «In the beginning was the word, in the end the world without end» (p. 479). L’Ulisse è testimonianza di una letteratura che non interpreta semplicemente la vita, ma la inventa, arrivando alla realtà attraverso la parola, strutturando, cioè, il caos vaporoso della lingua e del mondo in una narrativa per una volta comprensibile, per una volta sensata – sensata, sì, per una volta soltanto e per un momento soltanto. Perché, appunto, anche l’Ulisse è alla fine un libro tra gli altri, e nonostante l’indubitabile giovinezza dimostrata per il suo centesimo compleanno, anche l’Ulisse non è un libro eterno.

Anche l’Ulisse, perciò, è un libro che possiamo leggere, e che forse desidera essere letto, con la stessa disposizione corsara con cui Joyce lesse Shakespeare e Omero, e con cui ascoltò le conversazioni dei suoi contemporanei, ovvero non semplicemente per imitare una voce origliata per strada o i versi di Shakespeare, e, nel nostro caso, non solo per interpretare correttamente e comprendere perfettamente l’Ulisse stesso, ma mirando invece a qualche opera futura. Mirando, cioè, a partecipare a quel “mondo senza fine” che l’Ulisse dischiude e apre per noi, senza mai delimitarlo, aggiungendovi le colonne di testo che ciascuno può aggiungervi a suo modo.

L’Ulisse vive dunque non solo negli studi dei critici, ma anche nelle letture frettolose e abbandonate a metà, nelle prime letture non del tutto comprese e in tutte le letture loro successive, in cui pian piano il testo inizia a espandersi e ad acquisire la sua unità meravigliosa. L’invito di questa edizione, coi mezzi che offre, è quello di partecipare all’Ulisse come si partecipa alla vita: ritornandovi, con l’attenzione di cui ciascuno è capace, in una serie di letture ripetute, risvegliandovisi pian piano all’interno e diventandone man mano coscienti, scoprendovi, forse, la traccia reale di una storia in cui sono passati altri esseri umani, reali e non, ma pur sempre simili a noi – da James Joyce a Stephen Dedalus a Leopold Bloom a Ulisse fino ai lettori delle loro storie, fino ai critici e ai lettori dei critici – la traccia di una storia, dunque, in cui da parola segue parola, da gesto segue gesto, da vita segue vita, all’infinito.

È precisamente questo, ovvero la partecipazione entusiasta di alcuni lettori appassionati, e il fatto che, anche se pochi, questi lettori abbiano continuato e continuino tutt’ora, dopo cent’anni, a parlarne, nei più diversi modi e contesti, ad aver assicurato fino a oggi la sopravvivenza dell’Ulisse. Non il successo di massa, ma la persistenza di alcune voci, sparse, rare, talvolta deboli, di persone dai background e dalle formazioni più diverse, che non riescono a smettere di parlare di questo grande romanzo che abita dentro di loro, e a cui continuano a pensare tanto nelle biblioteche quanto nei pub, nei caffè, nelle chat online – voci a cui l’edizione di Terrinoni ci invita a unirci, a modo nostro. Ora più che mai, per festeggiarne i cent’anni, e grazie anche a questa edizione, l’Ulisse è senza dubbio un libro “da avere”. Perché, prima o poi, potrebbe comunque arrivare a chiedervene un amico incuriosito, una parente bibliomane, un figlio o una nipote, che addentrandovisi potrebbe forse illudersi di essere davvero l’unico lettore o l’unica lettrice del più famoso libro che nessuno ha mai letto fino in fondo – il primo, l’ultimo, e possibilmente il solo e solitario lettore di questo libro-universo – magari per scoprire, dopo averlo esplorato con pazienza, di star partecipando a un discorso che esisteva già, a un processo e a una vita che esistevano già, e di non essere che l’ultimo termine di una serie precedente e il primo di una serie successiva di lettori, di non essere, cioè, affatto il primo, né l’ultimo, né solo.


James Joyce, Ulisse, a cura di Enrico Terrinoni, Milano, Bompiani, 2021, pp. 2080, € 45.