Dall’inferno (minimum fax, 2021) è un libro che puzza. Puzza di tutte le sfumature dell’acido, di gas tossici, di sudore, di scarti e macerie, di esclusione, di notte, di corpi, di margini e di corpi ai margini, di ricatti, di malattie, di porti e di materia e per questo è un libro interessante, come un formaggio o come una città. Le due storie che lo compongono, Umè di Cosimo Argentina e Bestïn di Orso Tosco, raccontano, rispettivamente, della Taranto asfissiata dai fumi dell’ILVA, straziata dalle sue piaghe e sepolta dalla sua pioggia che non lava, e di Genova schiacciata dalle macerie umane e fisiche del ponte Morandi

Umè è la storia del primo giorno – meglio: della prima notte – di lavoro all’ILVA del narratore protagonista senza nome, uno cui ancora gli occhi bruciano a varcare la soglia dello stabilimento: «Soffoco una tosse petardica e mi strofino gli occhi. Gli occhi bruciano sol’a me». Tutto è infernale in questo racconto, imparentato sin dalle epigrafi con altri racconti infernali.

Seguiamo la catabasi del narratore-protagonista fra i dannati della terra tarantina alla ricerca, disperata, del Virgilio che dovrebbe introdurlo alla nuova professione: il leggendario Mino Palata, nome già noto ai lettori di Argentina da Vicolo dell’acciaio. Accompagniamo il narratore nei suoi incontri bruschi, sanguigni, nell’incomunicabilità, riprodotta con un ricorso crescente al tarantino sporco dell’Ilva.

In questo desolato e inquinato contesto, in cui tutto taglia e ferisce, dal metallo, alla lingua, al sarcasmo, i personaggi non sono che ombre nelle quali riconosciamo almeno parte di un immaginario industriale pugliese già parzialmente noto grazie alle narrazioni poetiche e in prosa di Tommaso Di Ciaula (si veda almeno Tuta blu, Feltrinelli, 1978). Le commissioni interne sono ancora «una presa per il culo» e viene da chiedersi cosa sia cambiato dagli anni Settanta.

Le narrazioni della smaterializzazione si rivelano in Umè per ciò che sono: bla bla bla, falsità. Il lavoro è ancora un lavoro di corpi sulla materia, il sangue e il sudore sono ovunque e così anche il metallo e il bitume. La realtà qui esplode, anche la pioggia brucia (v. Karen Pinkus, Carburanti, Ombrecorte 2020).

Contrariamente a tutte le narrazioni da sole a tutte le ore e a tutte le retoriche della fabbrica felice, il lavoro non si è smaterializzato, ci ricorda Argentina, né qui né altrove, perché per ogni prodotto c’è almeno un corpo offeso, una nube che offusca il cielo, una violenza, un odore insopportabile. E – sembra dirci ancora Argentina – l’unico modo per dire il puzzo, il taglio, l’offesa e l’incomprensione è scrivere una letteratura che scelga di non profumare, che tagli, che offenda e che non si lasci sempre comprendere.

Anche quella di Tosco, Bestïn, è una storia notturna, di veglie inquiete e chimiche. Anche qui un protagonista solitario, Orazio Lobo, questa volta non dotato della prima persona e dunque almeno formalmente sganciato da ogni sospetto di autobiografismo. Anche qui adottiamo la prospettiva straniata e straniante di un outsider, di un cane sciolto, uscito da un lungo coma e mai pienamente reintegrato, che abita (ma abita poi?) il microcosmo formato dagli immediati dintorni del ponte Morandi e sa che «dare nell’occhio per le ragioni sbagliate è la condizione più vicina all’invisibilità».

Anche qui, molti Minosse e ipostasi varie, tutte vagamente respinte, di un Virgilio che aiuti a navigare le tenebre dell’esistenza e l’esistenza delle tenebre, «la lunga notte che divento niente», per dirla con le parole di uno dei pochi personaggi femminili. Il misterioso compito di Orazio, quello di sondare la tenuta fisica della città di Genova misurandola e – ove necessario – puntellandola con le parole, rende evidente come anche in questo inferno e nella sua narrazione le questioni linguistiche siano centrali. La domanda è qui, ancora una volta, che lingua si può parlare all’inferno e qui la lingua diventa quasi un’ossessione, un’accumulazione di suono e senso a metà fra porto e naufragio.

Entrambe le storie, dunque, procedono in parte per accumulazione, di merci, di discorsi. Entrambe le storie si collocano in quella notte in cui il capitale si riproduce a velocità doppia, una notte il cui archetipo letterario sta nell’incipit delle Mosche del capitale di Paolo Volponi. Entrambe le storie si concludono su un riveder le stelle, e ci si può chiedere se si tratti di consolazione o speranza, dal momento che la visione del futuro, prerogativa dei dannati, è qui negata da entrambi i narratori.

Torna in mente l’inferno di Primo Levi quando leggiamo le parole dei personaggi di Argentina: 

“Domani…”, fa alla pensierosa che forse sta riflettendo che non c’è domani per ‘sto stabilimento qua, né per la citta e forse nemmanco per st’umanità a cremolata.

E gli fa eco Tosco, sull’attimo che sconvolge la vita della città di Genova e dei suoi abitanti:

È il tempo della tragedia, un tempo radicalmente diverso da quello normale: i minuti perdono coerenza, le certezze si rivelano meno solide della pioggia che scorre lungo i bordi dei marciapiedi.

Come non c’è spazio per il futuro, in questi inferni sulla terra, non sembra esserci posto nemmeno per Dio, se non forse in forma di scoria e residuo in «quella linea sciancata [di cielo che] è capace che è Dio». Semmai, Dall’inferno racconta di martiri e santi – e certamente di testimoni –, delinea un mondo da cui il femminile scompare, non solo manca la presenza salvifica e strutturante di una Beatrice qualsiasi ma perfino gli errori di Francesca.

Viene da chiedersi che storie avremmo letto se i nostri inviati speciali – autori, narratori o protagonisti – avessero avuto altra specificazione di genere. E non può che tornare in mente l’autrice, narratrice e protagonista di un’altra catabasi industriale, un’altra testimone dello sradicamento operaio e del lato ‘A’ del lavoro, questa volta il lavoro non ancora deodorato e tutto novecentesco: Simone Weil

A puzzare, metaforicamente, di contaminazione e inganno, è infine anche la categoria ermeneutica con la quale siamo invitati sin dalla copertina a leggere le due storie di Dall’inferno: quella di ‘reportage letterario’. Il didascalismo con il quale siamo informati in copertina che quanto abbiamo davanti è una serie di ‘due reportage letterari’ sembra immediatamente smentito dall’indicazione di collana ‘Racconti’.

In realtà, il paradosso creato dalla doppia indicazione generica è solo apparente e sembra tradire ancora una volta l’imbarazzo di scrittori, lettori, editori e critici nel fare i conti con il discrimine tra fiction non-fiction. Che cos’è, infatti, un reportage letterario? Qual è lo statuto di realtà – e quindi di finzione – di quanto ci viene presentato sotto questa etichetta? Che bisogno abbiamo di questa indicazione?

Sembra che la narrativa contemporanea – e chi la pubblica e la legge – non possa fare a meno di certe dichiarazioni d’intenti, un po’ per onestà, un po’ per catturare nuove varianti e declinazioni del rapporto realtà-finzione; un po’, forse, anche per noia. Con i due racconti di Dall’inferno siamo di fronte a ibridi, a storie probabilmente di invenzione (‘letterarie’) la cui ascrizione al genere del ‘reportage’, tuttavia, ne introduce e legittima la postura testimoniale.

Tuttavia, è così necessario, per noi che leggiamo, che gli autori siano stati effettivamente nei luoghi di cui raccontano e che possano dunque ‘riportarne’ le storie? Crederemmo di meno ad Argentina se non sentissimo, nel suo racconto, la lingua impura, ‘sporca’, dell’ILVA di Taranto e se questa lingua non si mischiasse, qua e là, all’italiano di chi scrive?

Analogamente, il punto di vista straniato del protagonista di Bestïn non potrebbe essere espresso in prima persona a meno di farci perdere fiducia nell’attendibilità del narratore? In entrambi i racconti la contraddizione dell’artificio di regressione – per cui l’autore e il narratore si portano al livello sociolinguistico e idiolinguistico del personaggio – sembra sempre a un passo dall’esplosione. Inoltre, l’indicazione ‘reportage’ evoca, accanto alla testimonianza free lance, lo spettro di quella su commissione, invitata ad andare là dove la retorica di costruzione del paese Italia non tiene, cede. 

Nel complesso, questo libro violento ci ricorda che forse il modo più efficace per fare i conti con i conflitti, le inquietudini e il tanfo del presente è proporre una scrittura altrettanto conflittuale, inquieta e fetida, in una lingua sporca e contaminata, che non dimentichi mai «il lato operaio di una forchetta», la natura storica di tutte le cose, e che ci renda consapevoli «nel tempo della tragedia». Preferibilmente senza consolarci mai.


C. Argentina, O. Tosco, Dall’inferno. Due reportage letterari, Roma, minimum fax, 2021, €15.