Finita l’università, poche settimane dopo aver discusso la tesi, ho preso un treno per Parigi. Poi a Parigi ne ho preso un altro per andare a Caen, in Normandia. Quando sono arrivata pioveva forte. C’erano tante macchine parcheggiate lungo le strade, ma nessun passante che occupasse i marciapiedi. Ho raggiunto quella che sarebbe stata la mia nuova casa, in boulevard Maréchal Lyautey, cercando di difendermi dalle gocce con l’ombrello. Ma il vento le trasformava in leggeri fili d’acqua che si infilavano dappertutto. Sono arrivata a destinazione bagnata fradicia. Nei mesi successivi, nonostante la pioggia costante, l’ombrello non l’avrei più utilizzato. Ricordo di aver disfatto la valigia, messo le mie cose a posto, fatto una telefonata al mio ragazzo di allora. Dopo cena, camminando per lo stradone deserto e sconosciuto, mi è venuta in testa una frase di Cani dell’inferno (2004, Quodlibet 2018), un libro di Daniele Benati. Una domanda che ossessiona tutti i suoi personaggi: «Cosa ci sono venuto a fare qui»? E ho provato un sentimento che sta al centro di tutto quello che Benati ha scritto e che io ho capito fino in fondo soltanto quella sera. Si chiama magone. Benati ne dà una definizione nel racconto Grigiopoli, contenuto nella raccolta Un altro che non ero io (Aliberti, 2007): un certo Boiardi, anche se forse questo non è il suo vero nome, si ritrova senza sapere perché sotto una tettoia a ripararsi dalla pioggia, con una tuta addosso e circondato da altre persone che lavorano con lui. Ma quale sia esattamente il suo lavoro Boiardi non lo sa. Immemore del proprio passato e incapace di interpretare il presente, sente un nodo stringerglisi alla gola. «Oppure chiamatelo nostalgia. La sensazione che ti prende quando sei strappato da un posto che ti era famigliare per finire in un altro dove tutto quello che puoi fare è adattarti, ma in cui mancano i legami dell’affetto» (Un altro che non ero io, p. 76) È un sentimento che Benati conosce bene, perché ha vissuto in tante città diverse per lavoro, avendo insegnato e fatto ricerca per università quali il MIT di Boston o la National University of Ireland di Galway. È un senso di perdita totale, figlio dei tempi, ma che è anche erede dello sguardo di scrittori come Franz Kafka, Samuel Beckett e Flann O’Brien, (di quest’ultimo Benati è anche traduttore).

I suoi personaggi sono sempre degli spaesati; abitano i luoghi senza riuscire a imprimervi i propri ricordi. E non è necessario andare lontano, perché a volte ci si sente fuori posto anche a casa propria: che sia una metropoli americana o un paese in provincia di Reggio Emilia, loro sempre vagano come fossero prigionieri di una cartina muta. Questo perché il primo movente del loro spaesamento è l’identità. Sono uomini che hanno smesso di credere nel destino che si sono costruiti; si guardano da fuori e non si riconoscono, come fossero estranei a loro stessi. Il personaggio benatiano è sempre un altro da sé.

Basti pensare che il racconto d’esordio di Benati, Sanremo, del 1989, pubblicato nell’antologia curata da Gianni Celati Narratori delle riserve, ha già come personaggio spalla del narratore Learco Pignagnoli, eteronimo con cui poi Benati firmerà la raccolta di micronarrazioni comiche e mordaci Opere complete di Learco Pignagnoli. (Aliberti, 2006).

Il suo primo romanzo, Silenzio in Emilia, di cui alcuni capitoli erano già apparsi come racconti singoli tra il ’95 e il ’97 sulla rivista Il Semplice, raccoglie invece undici storie di fantasmi: uomini che tornano nei luoghi in cui sono vissuti senza sapere che cosa gli è capitato, ma percependo che si è creata una rottura tra loro e il paesaggio: «le cose che essi vedono infatti sono sempre più o meno le stesse, ma più o meno non esattamente. Qualcosa è cambiato, infatti, o forse è la loro capacità percettiva ad esserlo. In un racconto, il personaggio principale sente le urla di dolore dei pesci che vengono presi all’amo dai pescatori. In un altro, il protagonista, così innamorato del proprio nome, si perde in un reticolo di piccole frazioni di campagna caratterizzate da nomi che sono ognuno la deformazione dell’altro. E questo disfacimento progressivo dei nomi rappresenta il correlativo oggettivo del disfacimento in atto nella vita del protagonista»[1]. Undici racconti per undici fantasmi, che nell’ultimo capitolo del libro, Tema finale, si riuniscono a formare una sfatta squadra di calcio che gioca la sua partita contro i vivi senza che nessuno dei giocatori riesca mai a superare la linea di mezzo del campo, che si muove sotto ai loro piedi. Perché è solo un segno immaginario, suggerisce una voce misteriosa che il piccolo Lino Socetti sente nella testa mentre prende nota di ciò che vede sul suo quaderno, per un compito di scuola.

Perdita di sé, angoscia, sguardo straniato sono elementi di primo piano in tutta la produzione dell’autore, che si contraddistingue per una sua unitarietà di fondo. E non è un caso che il numero undici torni: undici sono i capitoli di Cani dell’inferno; undici quelli di Un altro che non ero io. Ma la voce che racconta, così capace di farci piangere, è insieme comica, secondo un principio di poetica che Benati tiene stretto per ogni sua pagina:

 «Se non c’è niente da ridere vuol dire che non c’è niente di tragico, e se non c’è niente di tragico che valore vuoi che abbia»

Così sbotta Pignagnoli-Zarathustra nell’opera 161. È la voce di un narratore che Northrop Frye, per distinguerlo dall’eroe positivo classico, chiamerebbe basso-mimetico, poiché ritratto in una posizione umana e sociale di inferiorità rispetto a chi legge: «Col primo puoi incantare il lettore, col secondo puoi fartelo amico, perché lui si sentirà sempre superiore a te»[2]. Questo vale soprattutto per Cani dell’inferno, l’opera forse più importante di Benati, per complessità e profondità con cui affila la lama del suo immaginario.

L’idea del romanzo è nata da un episodio preciso: Celati era andato a trovarlo a Boston; era un mattino di febbraio e avevano deciso di fare una passeggiata costeggiando il Charles River.

Faceva un freddo micidiale e a un certo punto ci eravamo fermati davanti a un McDonalds in attesa che aprisse per entrare a riscaldarci un po’. Assieme a noi c’era anche una folta schiera di barboni che si trovavano lì per lo stesso motivo. E dopo un po’ siamo entrati tutti insieme. Con loro c’era anche una donna che sembrava un po’ il capo. Io e Gianni siamo rimasti lì un bel po’ a guardarli (c’eravamo tutti seduti ai tavoli) a bere un caffè caldo e a immaginare quali fossero i rapporti fra loro e cosa si stessero dicendo, visto che si parlavano in continuazione e ogni tanto a turno andavano al gabinetto. E così a un certo punto Gianni mi ha detto: Ma perché non scrivi un racconto con dei barboni in un McDonalds?

Cani dell’inferno è ambientato in un caseggiato architettonicamente impossibile, il casermone posto al numero 3847 di Mystic Avenue, in cui convivono un McDonalds, la sede di una prestigiosa università e un numero imprecisato di appartamenti abitati da personaggi che tutti hanno un nome che inizia con la lettera P (e se fosse la storia rifratta di un identico nome e di un identico destino?). Ogni capitolo è la narrazione in prima persona di uno di essi. In una vertiginosa e claustrofobica mise en abyme, ogni voce riporta il ripetersi di medesimi motivi: tutti i personaggi sono studiosi o scrittori di origine italiana che si dicono deportati in quel luogo senza sapere perché, tutti sono alle prese con la stesura di un’opera che non riescono nemmeno ad iniziare. Sono alcolizzati con l’aspetto da vagabondi che ben li mimetizza tra i clochard che popolano il McDonalds del piano terra. A volte non trovano la strada di casa perché, dicono, le scale e i corridoi si spostano. Tutti vedono cani infernali che infestano il palazzo e li perseguitano e sentono una voce di donna – la voce di una musa – che li chiama «Ehi Joe» e che sembra volerli aiutare ma che invece li fa perdere ancora di più.

A difesa dall’angoscia dei gorghi in cui i personaggi si stanno lasciando cadere, giunge in nostro soccorso il comico, espresso nella caratterizzazione dei personaggi. Nella loro «calata narrativa», quella di Reggio Emilia, che l’autore presta loro: come scriveva Celati nella presentazione dell’autore in Narratori delle riserve, leggere Benati «è come ascoltare uno che parla da solo per tutta la sera, in località Masone, sulla via Emilia, dove Benati è nato e vissuto». E nel loro modo di occupare lo spazio e di muoversi, che mostra l’influenza soprattutto di Beckett tanto da esser certi che indagando sull’albero genealogico di Picaglia si giungerebbe al ramo di Hunchy Hackett:

«Io ero ancora molto ubriaco e lo capivo perché quando si parla a uno che non ascolta lo si vede dai suoi occhi che vagano nel vuoto o stanno fermi impietriti. Io invece quando non ascoltavo perché ero ubriaco avevo la testa che mi cadeva all’indietro sulle spalle come se mi avessero tirato una fucilata. E quando ci siamo incamminati parlando fra di noi del più e del meno la testa mi volava all’indietro come se mi avessero sparato un colpo» (p. 131-132).

Leggendo Cani dell’inferno, così come gli altri libri di Benati, viene in mente una canzone di Bob Dylan, cantautore tra i suoi preferiti, Love Minus Zero, e due versi che potrebbero essere benissimo riferiti ai suoi personaggi: «She knows there’s no success like failure and that failure’s no success at all» (Lei sa che non esiste nessun successo come il fallimento e che il fallimento non è per niente un successo). Ci accompagnano – o meglio ci trascinano – nella loro caotica dissolutezza. E noi siamo felici di seguirli. Perché la loro è una disperazione dissidente, che nasce dal rifiuto di ogni ruolo sociale e culturale. E perché ridendo del loro dolore ci liberiamo un poco del nostro, ci sentiamo meno soli e accettiamo che esista quella strana sensazione di vuoto che ogni tanto ci viene guardandoci negli occhi allo specchio.


[1] Intervista del 13 maggio 2014, inedita.

[2] Marina Spunta, Conversazione con Daniele Benati, in «Rassegna Europea di Letteratura italiana» n. 23, a cura di Cristina Doronzo, Cesati, Firenze, gennaio 2004, p.130.

Giulia Sarli incontrerà Daniele Benati, insieme a Michele Farina, Gabriele Gimmelli e Michele Ronchi Stefanati sabato 20 novembre alle 15.30 presso la Libreria Popolare di via Tadino a Milano: cliccare qui per le informazioni relative all’evento.