Quando mi sono trasferita nella mia prima casa a Parigi, mio padre mi ha regalato un libretto di Georges Perec intitolato Sui diversi modi di usare il verbo abitare (Edizioni Henry Beyle, 2018). Molto si giocava, in quel testo, sulla sottile eppure incisiva differenza tra l’idea di abitare in un luogo e quella di abitare un luogo, pensiero su cui mi sono arrovellata a lungo. Questa lettura, tra le altre cose, mostrava come il nostro modo di rapportarci a un luogo cambi a seconda dei nostri punti di riferimento o della prospettiva che decidiamo di adottare: «Potrei dire (…) abito in rue Linné, a fianco della clinica Sain-Hilaire» (molto conosciuta dai tassisti) o abito in rue Linné, di fianco alla facoltà di Scienze». Anche in Specie di spazi Perec rifletteva sull’idea di «installarsi, abitare, vivere» e proponeva una serie di esercizi abitativi che appaiono quanto mai attuali oggi che l’abitare è tornato a essere una categoria su cui confrontarsi e dibattere pubblicamente, come dimostrano le diverse pubblicazioni che negli ultimi anni hanno riportato l’attenzione sull’argomento.

Nel suo La casa vivente. Riparare gli spazi, imparare a costruire (Add editore, 2021), l’antropologo Andrea Staid sottolinea come l’abitare sia in fondo uno dei principali comportamenti degli esseri umani, e come questo significhi avere «consuetudine con un luogo». Prima di diventare stanziale, però, l’abitare ha conosciuto una lunga fase di nomadismo e di mobilità, per cui la dimora rappresentava più che altro una tappa intermedia nello spostamento tra un territorio e quello successivo. In epoca preindustriale, quindi, costruire una casa richiedeva non soltanto una rapida presa di consapevolezza dello spazio in cui si edificava, ma anche una conoscenza dei materiali da impiegare, e soprattutto un dispiego di energie collettive oggi impensabile. In questo senso la casa era da intendersi allora, e secondo Staid andrebbe così ripensata ancora oggi, come un corpo vivente:  essa ci appare  oggi come un oggetto finito, statico, cementificato e pronto per essere utilizzato, ma in passato chi si impegnava nella sua costruzione si riconosceva in una comunità «in cui i saperi pratici erano diffusi e si tramandavano» per generazioni, le materie utilizzate erano organiche, e in quel contesto anche il paesaggio, lo spazio in cui la casa veniva eretta, assumeva un carattere relazionale. Ma oltre a questo, proprio come un organismo vivente, la casa era qualcosa che prendeva forma e cresceva nel tempo, era cioè un modo graduale di plasmare la nostra umanità.

Attraverso la costruzione di case siamo riusciti a cambiare il nostro legame con il territorio abitato, a intrecciare un rapporto privilegiato con le città, e allo spazio domestico abbiamo relegato la nostra sfera più intima, vulnerabile, quella che preferiamo tenere in riserbo. «Ogni casa è una realtà puramente morale», premette Emanuele Coccia — filosofo e professore all’EHESS di Parigi — nel suo ultimo, illuminante, saggio Filosofia della casa (Einaudi, 2021), l’abitazione è l’unità spaziale minima in cui per lungo tempo abbiamo accolto i nostri tentativi di felicità. Essere una realtà morale significa però anche venire a patti con le continue trasformazioni, gli adattamenti cui il nostro tempo ci obbliga. Ogni casa infatti, scrive Coccia, «nasce attraverso un atto di elezione»: si tratta di scegliere e riunire un «insieme disparato e relativamente incompatibile» di persone e di oggetti all’interno di uno spazio e farne un luogo eletto, il luogo del ritorno. Nulla ci accomuna davvero, per natura, a quelle mura, e in questo senso il fare casa è frutto di un processo di «addomesticamento reciproco di cose e persone», è il nostro modo di costruire intimità con quello che abbiamo attorno. Si parte da uno spazio vuoto — pensiamo agli appartamenti non ammobiliati, con le loro stanze sgombre e inabitabili, in cui qualsiasi attività del quotidiano risulta impossibile in mancanza di arredi e di utensili — e da una serie di oggetti pensati per riempirlo che, spiega Coccia, non sono un’estensione dello spazio nella sua purezza, «piuttosto lo aprono, lo rendono possibile».

Esattamente come noi, anche gli oggetti inanimati abitano le nostre case, affollano le nostre stanze esercitando un’energia nell’ambiente in cui sono collocati, cambiano lo spazio domestico e il modo che il nostro corpo ha di muoversi al suo interno e tra di essi. Stare in casa, rimanervi per un tempo prolungato, significa quindi «resistere a tutte le forze che le cose esercitano l’una sull’altra e su di noi». La pandemia ne è stata forse la prova più inaspettata e schiacciante: il tempo esteso e dilatato speso tra le mura domestiche ci ha portati ad avvertire la casa come una costrizione; persino il lessico è cambiato e improvvisamente le persone hanno cominciato a percepire la casa non più come un rifugio, come un nido, ma come la prigione da cui evadere, come un posto stretto e confinato, e l’abitare ha cominciato a somigliare a una nuova forma di resistenza. È proprio a questo punto che il filosofo capovolge il punto di vista, domandandosi invece cosa sarebbe potuto accadere se la pandemia avesse reso inaccessibili le nostre case, anziché gli spazi condivisi delle nostre città. Come avremmo ridisegnato la nostra idea di convivenza se ci fossimo trovati obbligati a vivere lungo le strade, senza più un tetto sopra le nostre teste?

Nel 2016 l’architetto e critico Luca Molinari ha scritto un libro, Le case che siamo, che invitava a ripensare noi stessi e il mondo in cui abitiamo a ripartire dalla casa. In un momento in cui gli spazi pubblici e collettivi stavano facendo da catalizzatore, Molinari scriveva che si rendeva sempre più necessario riconsiderare la casa «che noi siamo e che abitiamo distrattamente» attraverso una serie di gesti primari. Secondo Molinari è attraverso lo spazio domestico che ci è possibile decifrare «le nevrosi e le idiosincrasie contemporanee» e anche per questo la casa andrebbe considerata non più soltanto come la metratura, come l’ambiente privato in cui troviamo conforto o riparo, ma come un nuovo paesaggio, uno spazio pubblico capace di raccontare qualcosa del nostro futuro. Queste parole, scritte ormai cinque anni fa, suonano oggi come una specie di profezia.

La casa editrice Nottetempo ha da poco pubblicato un’edizione ampliata del libro, a cui è stato aggiunto un capitolo, intitolato Le case che saremo. Abitare dopo il lockdown., frutto di una riflessione cominciata nell’aprile del 2020, a neanche un mese dalle prime restrizioni. Se nel 2016 la questione domestica sembrava una faccenda poco indagata, ancora ai margini, oggi la prospettiva ci appare inevitabilmente rovesciata. Non soltanto la pandemia ci ha tenuti per lungo tempo nelle nostre case, costringendoci a instaurare un rapporto nuovo con uno spazio cui già eravamo avvezzi e a riprendere daccapo le misure, ma la casa è  soprattutto diventata il centro di qualsiasi narrazione: l’autoritratto domestico, l’elogio del balcone, le decine di librerie visibili a ogni collegamento video o televisivo – la cui disposizione non era mai davvero lasciata al caso – che facevano intravedere almeno un segno identificativo, un elemento distintivo, sono tutti parte di quel micromondo casalingo raccontato durante il lockdown, che spesso è finito per somigliare alla proiezione «di quei luoghi esterni che ci mancano sempre di più».

Negli ultimi decenni, racconta Molinari, si erano preannunciati enormi cambiamenti rispetto al modello di casa così come normalmente lo intendiamo e, nella prospettiva di un nomadismo contemporaneo e con l’idea di una comunità oramai fluida, era emersa la necessità di  rendere «sempre più sottili quelle linee di separazione tra la casa privata e lo spazio collettivo». Nel momento della separazione, dell’isolamento obbligato, questo tipo di progettualità era stata messa in pausa. Ed è qui che le riflessioni di Molinari e Coccia si incontrano: è infatti mentre scrive questo capitolo integrativo che il primo legge su Le Monde un’intervista di Nicolas Truong al filosofo da cui emerge un superamento della relazione tra la casa e la città pensate come poli opposti, come elementi agli antipodi, perché, dice Coccia «la casa non rappresenta per forza un rifugio, al contrario ci può uccidere. Si può morire di troppa casa. E la città, la distanza che ogni società implica, ci protegge normalmente dagli eccessi d’intimità e di vicinanza che ogni casa ci impone».

Casa e città non sono quindi entità da poter considerare in maniera separata, sebbene ci sarà sempre una piccola parte della nostra vita domestica che vorremo conservare al pudore e che sceglieremo di condividere soltanto con pochi altri. Quando immagina la casa che saremo Molinari sceglie di concentrarsi solo sulla soglia, perché «le soglie separano ambiguamente i confini, sempre più smagliati dalla metamorfosi che il nostro mondo sta vivendo» e ci sono soglie delle nostre case — quelle delle camere da letto, o quelle dei bagni a cui anche Coccia dedica un capitolo del suo libro — che sono pressoché invalicabili, perché è proprio dell’essere umano destinare alla casa «un nucleo caldo e segreto». Ma le soglie sono per definizione anche confini, frontiere e per questo, oltre a separare, sono luogo d’incontro e di possibile sperimentazione («Perché non lavorare sullo spessore delle nostre finestre affinché diventino spazi da abitare, confessionali aperti sul mondo prospiciente e osservatori da cui scrutare il cielo?» si domanda Molinari).

Oggi però, ricorda Coccia, «siamo a casa ovunque, tutto è abitato o è stato abitato dall’uomo, ogni porzione del globo si è trasformata in stanza, garage, cucina, sgabuzzino, bagno», e in un tempo che viene chiamato Antropocene è il pianeta a essere diventato casa. Questo vuol dire che non possiamo più pensare lo spazio domestico nella sua forma tradizionale, come la struttura in mattone o cemento che per anni ci ha accolti e ha lasciato fuori quasi tutte le altre specie viventi, ora più che mai abbiamo a che fare con una casa-pianeta in cui siamo ospiti al pari di tutti gli altri, animali o piante, e per questo dobbiamo tutelarla, trattarla con cura, dobbiamo cioè reimparare ad abitarla e dobbiamo farlo da nuovo, in modo diverso. E se, come è vero, «non possiamo avere una relazione con il mondo senza trasformarlo», occorre allora accettare il suggerimento di Coccia e immaginare la casa come una delle stanze della casa che oggi è simbolo di ritualità e sperimentazione: la cucina. Dobbiamo immaginare la casa del futuro come la cucina del mondo, dobbiamo cioè accettare che tutto sia in costante e reciproca manipolazione, e che le città siano laboratori in cui trasformare la materia, luoghi sempre nuovi in cui tutto si mescoli e oltrepassi la soglia, perché «non c’è legame immediato non trasformativo con uno spazio, una terra, un luogo o un insieme di viventi».


Andrea Staid, La casa vivente. Riparare gli spazi, imparare a costruire, ADD, 2021, pp. 168, euro 16.

Emanuele Coccia, Filosofia della casa. Lo spazio domestico e la felicità, Einaudi, 2021, pp. 144, euro 15.

Luca Molinari, Le case che siamo, Nottetempo, 2021 pp. 140, euro 13.