Un pensiero comune a molti lettori è che la stragrande maggioranza dei capolavori letterari appartengano al passato e che il tempo della letteratura, come forse il tempo in generale, si trovi nella metà discendente della propria parabola. Complici di questo sono, forse, la millantata decadenza da supposte età dell’oro (infiltratasi un po’ ovunque nella cultura letteraria occidentale) e il suo recente affiancarsi a un momento storico non propriamente roseo. I lettori che prendano in mano Seiobo è discesa quaggiù di László Krasznahorkai, in uscita per Bompiani il 27 ottobre nella traduzione di Dóra Várnai, dovranno allora prepararsi a una doppia sorpresa: la smentita della tesi che la letteratura si trovi in cattiva salute, evidente nella qualità dell’opera in questione, e il fatto che questa smentita venga da uno scrittore che Susan Sontag ha definito «the Hungarian master of apocalypse».

Fin qui, Krasznahorkai si è decisamente guadagnato il titolo coi quattro romanzi che compongono la sua tetralogia “Sconfitta”, ovvero Satantango, Melancolia della Resistenza, Guerra e Guerra e Il Ritorno del Barone Wenckheim (i primi due adattati per il cinema dal regista Béla Tarr). Un’opera monumentale, questa, composta di quattro volumi che ricordano, per profondità tematica e padronanza del mezzo letterario, i grandi maestri del modernismo: romanzi, cioè, dove l’accortezza antropologica e storica va di pari passo con la profondità filosofica dei contenuti e, soprattutto, con l’eleganza tecnica e la sensibilità artistica necessarie a dare al libro la forma del proprio contenuto. I quattro romanzi che compongono la tetralogia, anche se non legati fra loro da un filo narrativo (se non per l’ambientazione ricorrente ma mai direttamente nominata di Gyula, città natale di Krasznahorkai) presentano almeno due ricorrenze: l’incombere di varie apocalissi e l’attraversarle, in cerca di possibili vie di fuga, da parte di uno specifico archetipo di personaggio che pare tratto direttamente da una costola del principe Myškin, protagonista de L’idiota di Dostoevskij: un personaggio, dunque, folle, ma ingenuo e perfettamente buono.

“Sconfitta”, in questo senso, sembra voler mappare, da parte di varie incarnazioni di questo personaggio ricorrente, un tentativo di fuga dal male esasperato, nel corso della tetralogia, fino al riconoscimento che non ci sono fughe possibili e che ogni speranza è vana. La fuga comincia con lo sforzo di emancipazione economica dalla miseria della campagna da parte degli sgangherati e ebbri protagonisti di Satantango, e continua con la partenza del visionario Valuska dalla decadenza della cittadina di Melancolia della Resistenza, in mano a un sinistro circo itinerante, protraendosi poi, idealmente, nella  fuga dalla realtà  (o verso la realtà) da parte dall’archivista Korin in Guerra e Guerra, in cerca di salvezza per i personaggi di un manoscritto ritrovato, per concludersi infine col ritorno da tutte le fughe e abbandono di tutte le speranze del barone Wenckheim nel libro che porta il suo nome.

Ecco però che, quasi a volerci guidare oltre l’apparente desolazione di questa “Sconfitta”, Seiobo è discesa laggiù sembra riafferrare il filo d’oro di un tema accennato solo per brevi epifanie in alcuni passaggi della tetralogia, come, ad esempio, nelle riflessioni sulla scrittura del dottore di Satantango, o nella meraviglia di Valuska per la disposizione ordinata dei pianeti e nella concentrazione (ri-)scoperta dal musicista Eszter piantando un chiodo in Melancolia della Resistenza, oppure, ancora, in Guerra e Guerra, nella fascinazione di Korin per la bellezza di un manoscritto rinvenuto per caso negli archivi della biblioteca, che dà inizio alla sua avventura per consegnarlo all’eternità e salvarne i personaggi. Il tema, ricorrente come una frase musicale, porta il lettore a riflettere su un certo tipo di intensità dell’attenzione che si manifesta principalmente durante alcune esperienze estetiche: una forma di contemplazione che spinge a riconsiderare il ruolo della letteratura, dell’arte e della bellezza in generale.

Proprio la bellezza, la sensibilità estetica e la specifica intensità dell’attenzione che le accompagna sono, infatti, il centro tematico di Seiobo è discesa quaggiù – in una chiave diversa, però, da quella dell’estetismo idealizzante di un principe Myškin, secondo cui la bellezza sarebbe capace di salvare il mondo. Pubblicato per la prima volta in Ungheria nel 2008, prima dell’ultimo volume di “Sconfitta” e al termine di una lunga serie di viaggi in oriente, Seiobo è discesa quaggiù è composto di diciassette episodi numerati secondo la sequenza di Fibonacci. Ciascun episodio si presenta come un racconto autonomo: in Seiobo è discesa quaggiù si esplorano, fra varie ambientazioni diverse per luogo e epoca, i tempi del mito, quelli della pittura rinascimentale italiana, il Giappone contemporaneo, una Venezia impenetrabile, un’Atene chiassosa, il Louvre, il palazzo dell’Alhambra a Granada. L’episodio iniziale descrive, ad esempio, la concentrazione di un airone giapponese in attesa della propria preda nel fiume Kamo, a Kyoto – una concentrazione di cui nessun osservatore è testimone, e in cui l’airone diviene

l’artista indiscutibile di questo paesaggio, l’artista che con un’estetica senza pari di perfetta immobilità, compimento artistico dell’attenzione assoluta, trascende al contempo tutto ciò a cui altrimenti dà senso, trascende e si eleva al di sopra della folle cavalcata delle cose che lo circondano, introducendo – poiché è persino bello – una sorta di inutilità che sovrasta la ragione locale e onnipervasiva, anche la ragione locale della propria attuale attività, poiché che motivo ha di essere persino bello, oltre a essere un uccello bianco fermo e in attesa, teso in direzione della corrente del fiume Kamo di Kyoto, in piedi, immobile e in attesa di vedere finalmente apparire sotto la superficie dell’acqua ciò che lui con il suo becco e la sua volontà spietata e precisa tra non molto catturerà. (p. 12)

Lo sguardo attento dell’animale a caccia getta le basi per la lettura degli episodi successivi: è infatti proprio questo stesso sguardo che vediamo riaffiorare, in quasi ogni capitolo del libro, come il paradigma di un certo modo di sentire il mondo. Se si dovesse tentare, infatti, di individuare la presenza di Seiobo, dea che nella mitologia giapponese scende dal cielo per offrire i frutti dell’immortalità ai sovrani (meritevoli) della terra – se si dovesse tentare di capire dove sia questa dea che “è discesa quaggiù”, si potrebbe dire che Seiobo si trovi precisamente nello stato mentale accennato in questo primo episodio: la speciale concentrazione di chi osserva prestando tutta la propria attenzione all’oggetto osservato, esperita particolarmente in relazione alla bellezza.

Nei vari episodi che compongono il libro, infatti, questo speciale stato interiore viene spesso associato alla creazione e fruizione di varie opere d’arte, con una flessibilità narrativa e tematica che permette a Krasznahorkai di mostrare non solo quale enorme lavoro di ricerca sia alla base di Seiobo è discesa quaggiù, ma anche come l’esperienza estetica del «percepire Seiobo» si possa rintracciare nei più disparati aspetti e momenti della vita. In Seiobo è discesa quaggiù trovano quindi spazio sia capitoli di grande erudizione, in cui si descrivono, ad esempio, i complessi rituali e metodi di ristrutturazione della statua di Buddha del tempio di Zengen-ji a Inazawa (“Conservazione di un Buddha”) o i delicatissimi processi di pittura di affreschi impiegati nella bottega del Perugino (“Il ritorno a Perugia”), e capitoli di apparente leggerezza, dove affiora l’umorismo tipico di Krasznahorkai, come quello riguardante la visita tragicomica di un turista al Partenone nell’ora più calda di una giornata estiva (“In cima all’Acropoli”), o quello in cui si racconta di un senzatetto che, sconvolto dalla visione di una copia della Trinità di Andrej Rublëv, prende una decisione discutibile (“Nascita di un assassino”).

Gli episodi di Seiobo è discesa quaggiù non si limitano, tuttavia, a offrire al lettore una fenomenologia della contemplazione estetica nella materia trattata, ma tentano, nella forma stessa della narrazione, di proiettare nel lettore questa esperienza, tramite una prosa fluida, articolata e ritmica. La dichiarazione di Krasznahorkai secondo cui il punto al termine di una frase «does not belong to human beings, it belongs to God», applicabile ai suoi romanzi precedenti, lo è certamente ancora di più in Seiobo è discesa quaggiù, dove le frasi procedono talvolta per diverse pagine, spezzate unicamente da virgole, senza mai però incagliarsi in impalcature sintattiche punitive per il lettore. Krasznahorkai è, infatti, un maestro del ritmo, e di un ritmo riconoscibile anche in traduzione, mantenuto grazie a un espediente stilistico su cui l’autore si è soffermato a discutere spesso, ovvero quello della ripetizione. Scrittori come Thomas Bernhard, a cui Krasnzahorkai è stato talvolta affiancato, hanno mostrato come la ripetizione possa essere usata per sostituire la spiegazione, distruggendo la sequenzialità dei ragionamenti – funzione in cui Bernhard eccelle e di cui certamente fa uso anche Krasznahorkai, a volte, nel tentare di spostare l’attenzione dal referente del linguaggio verso l’impressione estetica da esso generata.

Dall’altra parte, però, diversamente da Bernhard, Krasznahorkai utilizza la ripetizione anche con un intento costruttivo, ovvero per richiamare l’attenzione del lettore su un elemento che non si vuole che venga dimenticato o perso nel flusso della lettura. La ripetizione richiama l’attenzione del lettore sulla frase o sul frammento di frase ripetuto: non dovrebbe quindi sorprenderci che Krasznahorkai la utilizzi in Seiobo è discesa quaggiù con ancor più insistenza che negli altri suoi romanzi, visto che l’attenzione stessa è il centro tematico di Seiobo. La contemplazione estetica comincia, quindi, nel cogliere attraverso la ripetizione la molteplicità di livelli in cui si presenta una certa opera, come avviene per esempio nell’episodio “Autorizzazione remota” a un ipotetico visitatore del palazzo dell’Alhambra, capolavoro dell’architettura islamica. In questo episodio troviamo descritta magistralmente, e mostrata allo stesso tempo tanto nella forma quanto nel contenuto della descrizione, la funzione della prosa all’interno del libro:

non c’è un percorso giusto dentro l’Alhambra, e anzi, dopo un po’ ci si rende conto altresì che non c’è proprio alcun percorso nell’Alhambra, le sale e i cortili non sono stati realizzati in modo da essere collegati, da attaccarsi gli uni agli altri, da confluire gli uni negli altri, da toccarsi anche solo un pochino gli uni con gli altri, ossia dopo un po’ di tempo e con un po’ di fortuna, nonché molta forza d’animo, ci si rende conto che qui ogni singola sala e ogni singolo cortile esiste in se stesso e per se stesso, che le sale e i cortili non hanno niente a che vedere gli uni con gli altri, il che non vuol dire che si allontanino o si chiudano o si diano le spalle tra loro, non è affatto così, solo che ogni corte e ogni sala rappresenta se stessa, e allo stesso tempo rappresenta il tutto completo, l’Alhambra integrale, e questa Alhambra è contemporaneamente intera e a pezzi, e ognuno dei suoi pezzi è identico a questo tutto, così come è vero il contrario, cioè l’intera Alhambra rappresenta anche in ogni momento l’universo insostituibile dei suoi singoli elementi. (p. 346-47)

Le ripetizioni all’interno del passaggio richiamano l’attenzione sulla relazione parte–intero («gli uni negli altri», «se stesso») tanto nell’Alhambra, quanto nelle grandi opere d’arte in generale e nel libro stesso di cui il lettore sta navigando le pagine. Gli episodi di Seiobo è discesa quaggiù, come anche le frasi perlopiù ininterrotte che li compongono, non sono diversi dalle labirintiche stanze dell’Alhambra: le frasi di Krasznahorkai non sembrano fatte per connettersi le une con le altre, per fluire le une nelle altre, per essere contigue le une alle altre, eppure, allo stesso tempo, nonostante ogni frase rappresenti unicamente se stessa, essa finisce per dar corpo a un episodio, così come i singoli episodi, pur sembrando inadatti a connettersi gli uni con gli altri, a fluire gli uni negli altri, a essere contigui gli uni agli altri, e pur rappresentando, ciascuno, prima di tutto se stesso, finiscono nonostante tutto per rimandare nella loro singolarità di parti all’unità di un intero: cioè all’unità dell’Alhambra, all’unità narrativa degli eventi e delle frasi che compongono i singoli episodi, e infine all’unità strutturale del libro Seiobo è discesa quaggiù, che il lettore tiene in mano.

L’unica debolezza che si potrebbe ascrivere a questo libro rispetto ai quattro volumi di “Sconfitta” è forse proprio l’apparente fragilità strutturale che deriva dal suo essere composto di episodi connessi solo dal punto di vista tematico e stilistico, e che, come le sale dell’Alhambra, sembrano talvolta non fluire gli uni negli altri, né avere la stessa forza narrativa. Capitoli come “Autorizzazione remota” e “La vita e l’arte del maestro Inoue Kazuyuki” si presentano come quelli di maggior impatto, mentre altri, come “Qualcosa brucia all’esterno”, possono sembrare di minore intensità. Tuttavia, in questa apparente fragilità, Krasznahorkai ha forse cercato di suggerire che l’esperienza estetica non conferisce alcuna comprensione finale, alcuna liberazione, alcuna salvezza: le epifanie dei vari episodi si aprono e si richiudono su loro stesse, come lo sguardo del visitatore ipotetico dell’Alhambra, che si posa appena su quel “di più” che illumina il mondo attraverso la magnificenza architettonica del Palazzo Rosso, ma che non produce niente di conclusivo né di salvifico. Nonostante questo, però, non ci si può impedire di pensare che Seiobo è discesa quaggiù rappresenti piuttosto l’inizio di un’esperienza che una sua fine: l’apertura, piuttosto che la chiusura, su un certo modo di vedere la bellezza nel suo manifestarsi e nella sua inevitabile impermanenza. Seiobo è discesa quaggiù sembra infatti volersi collocare, a passi silenziosi e pacati, sulla linea di quelle opere occidentali dallo sguardo rivolto a oriente (e che rendono di per sé obsoleta la distinzione oriente-occidente), concentrate nel mostrare che una mistica quotidiana è possibile assumendo una prospettiva di pensiero, sì, diversa, ma accessibile a tutti nella contemplazione della bellezza e nell’esperienza della ripetizione rituale.

Krasznahorkai ha scritto di apocalissi, di città e di mondi in cui la speranza è poco più che una tentazione e in cui non esiste alcuna salvezza, forse proprio perché il mondo non ha bisogno di alcuna salvezza. La realtà, come l’autore ha sostenuto in diverse interviste, è perfetta, è una, anche quando non pare così: la mistica della bellezza presentata in Seiobo è discesa quaggiù tenta di far avvicinare il lettore a una prospettiva che dischiuda l’esperienza di questa unità e di questa perfezione, e tenta, nel farlo, di costruire con la grande arte della sua prosa una descrizione della contemplazione estetica che produca da sé l’effetto in essa descritto. La bellezza di Seiobo è discesa quaggiù certamente non sovverte lo stato attuale delle cose e non produce epifanie capaci di salvare il mondo, come sperava il principe Myškin, ma può forse gettare le basi per cominciare ad esplorare, pensando da sè, una diversa prospettiva su di esso – una prospettiva che, nelle parole di un personaggio del libro, il maestro Inoue Kazuyuki, attore di teatro Nō, se ottenuta, permette a ciascuno di comprendere che

sopra di noi e sotto di noi e fuori di noi e dentro di noi e nel profondo di noi c’è un universo, ed è l’unico, e non corrisponde al cielo che ci sovrasta, perché l’universo non è le stelle e i pianeti e i soli e le galassie, perché l’universo non è un’immagine, non è visibile, non ha nemmeno un nome, perché è troppo prezioso per avere un nome, ecco perché è una tale gioia per me poter provare Seiobo, perché Seiobo è la messaggera che viene e dice: non abbiate paura, l’universo della pace non è l’arcobaleno del desiderio, l’universo, il vero universo, esiste già. (p. 274)


László Krasznahorkai, Seiobo è discesa quaggiù (2008), trad. it. di Dóra Várnai, Bompiani, Milano, 2021, pp. 516, € 25.