Gli spatriati sono irregolari per definizione, smarriti, senza centro. Sono quelli a cui manca una stabilità, la cui vita è scandita da ritmi incerti e sincopati, sono i precari, coloro che lottano con la definizione di radici, quelli che scardinano la tradizione. Francesco Veleno e Claudia Fanelli, che dell’ultimo romanzo di Mario Desiati, Spatriati (Einaudi 2021), sono i protagonisti, rappresentano bene la categoria: entrambi pugliesi di Martina Franca, i due si dimostrano da subito avvezzi a fughe e ritorni, secondo un moto ora centrifugo, ora centripeto di attrazione e repulsione verso e dalla provincia. Cresciuti in famiglie borghesi in cui si coltivava il mito del primo incontro – leggenda vuole che i genitori di Veleno si fossero conosciuti e innamorati durante una puntata di Giochi senza frontiere ospitata in città, quelli di Claudia invece su un treno regionale che li portava all’università, complice un fazzoletto di seta bianca smarrito da sua madre nella carrozza – i due si accorgono presto di quanto dolore e di quanti non detti si celino dietro la patina del quieto vivere costruita a protezione delle apparenze familiari. Francesco Veleno è un solitario e da ragazzo trova talvolta rifugio in un cristianesimo da oratorio e negli abiti talari, nelle folle di corpi che portano a spalla le statue dei santi nelle processioni di paese, nel rossetto vermiglio della madre steso sulle labbra e lavato via con l’acqua e col sapone, tanto distrattamente da lasciare un’ombra sul perimetro della bocca. Francesco trova conforto in qualunque cosa possa aiutarlo a costruire, o almeno intuire, la propria identità. Claudia Fanelli invece è «cresciuta nel candore» ma lo ha demistificato in fretta, mettendo su una scorza dura che non le impedisce di essere critica verso chi l’ha cresciuta, non conosce mezze misure e già ai tempi della scuola, durante le occupazioni, aveva dimostrato di sapere adottare soltanto «posizioni minoritarie o estremiste». Se Francesco riesce a rimanere a lungo a Martina Franca, affinando le proprie capacità di resistenza, adattandosi allo spazio, all’offerta — gli studi saranno nient’altro che una breve parentesi e accetterà poi un lavoro come agente immobiliare nella Valle d’Itria, con le sue lunghe trasferte in macchina, i completi e i pasti frugali con due uova bollite nascoste in tasca — Claudia invece da subito tenta una via di fuga, cerca l’allontanamento, e non è mai stanziale in nessun luogo. Sono i punti di rottura a tenere insieme il loro rapporto, a fare da collante, a rendere il loro legame «intimo e disperato» e a mantenerlo saldo anche quando i due si trovano coi chilometri contro.

Per lungo tempo Veleno si era detto convinto di non sopportare quei coetanei all’estero che «una volta espatriati scoprono di aver vissuto per venti o trent’anni in mezzo ai barbari», certo che solo restare potesse contribuire a cambiare le cose o innescare un miglioramento. Claudia al contrario crede che partire significhi azzerare ogni volta i conti, e s’illude di poter affrontare il presente adottando come arma di difesa un improvvisato meccanismo di rimozione del passato, dei traumi, di chi era con lei in quei momenti. La percezione delle radici diventa il terreno di scontro tra i due: robuste e contorte, quelle radici che «crescevano tra le pietre grigie delle specchie», nella pietra e nei terreni più aridi, e che Francesco sente ben salde, Claudia sostiene di averle tagliate per far spazio ai germogli, per ricostruirsi altrove. Sono gli anni della Primavera pugliese, la lunga stagione fortunata che aveva preso avvio nel 2005 con la prima giunta Nichi Vendola e l’esperienza di governo di SEL (Sinistra Ecologia Libertà). Si evocava allora una Puglia migliore, competitiva sul mercato, qualcuno azzardava persino «come la California». In un’ondata di ottimismo, chi anni prima se ne era andato da quella terra, ora pensava fosse il momento giusto per rientrare e tentare una nuova fortuna. Nacquero aziende e piccole imprese, il territorio subiva continuamente una silenziosa trasformazione — tutto era pensato a favore di un turismo inedito: l’alta velocità, il recupero delle vecchie masserie e dei trulli, i collegamenti coi grandi aeroporti — la Puglia era insomma al centro di quella che agli occhi di molti sembrava una rinascita o, per prendere a prestito le parole di Nicola Lagioia (Cosa resta della primavera pugliese), «una piccola rivoluzione culturale».

Persino Claudia, con la sua mentalità cosmopolita e indipendente, aveva creduto per qualche attimo a quel progetto politico e ambizioso ed era rientrata in Puglia per dare il suo voto, salvo poi diffidare e vederne la natura illusoria. Qualsiasi tentativo di persuaderla a un ritorno arrivasse da parte di Francesco, riduceva e sfibrava l’eppur irriducibile filo che li teneva uniti; Claudia era contraria alla retorica ricattatoria della necessità del rientro a tutti i costi scandita dal motto «qui abbiamo bisogno di gente come te». Martina Franca diventa, per Francesco, un luogo in cui trovare conforto e non provare stati d’ansia, eppure la quotidianità gli appare appena «sopportabile», non c’è altra scintilla a eccezione delle poche chiacchiere di circostanza con chi gli capita a tiro. Qualcosa inizia a cambiare quando Claudia si trasferisce a Berlino, una città nuova che nei suoi pensieri somiglia «a un lenzuolo caldo», uno spazio in cui si sente in libertà e a suo agio. È qui che conduce un’esistenza parallela tra il lavoro in ufficio di giorno e di notte la musica techno dei club, e sempre qui scopre di essere in grado di amare senza distinzione e di poter resistere a smottamenti e variazioni brusche (un lavoro perso all’improvviso, una convivenza istintiva a cui fa seguito una rottura ugualmente non programmata).

 Francesco subisce il fascino dei racconti e delle confessioni di Claudia, che avvengono per telefono o negli sparuti collegamenti video tra i due, e inizia a covare un desiderio di partenza dettato non tanto dalla necessità di cambiare la propria vita, ma per aggiungersi «alle cose che stavano succedendo». L’arrivo di “Frank” – così lo chiama Claudia – a Berlino non rappresenterà soltanto il ricongiungimento, ma anche l’inizio di un rapporto nuovo tra i due, trasformato e gradualmente più maturo. Qui entrerà in gioco la figura di Andria, un giovane georgiano che permetterà a entrambi di conoscere e sperimentare la libertà sessuale e che prima di abbandonare la Germania lascerà in eredità ai due un grande insegnamento: anziché pensarsi pietre, «bisogna fare come il metallo, prendere la forma dei colpi che ci dà la vita». Proprio questa fluidità, che Francesco aveva a lungo represso quando si trovava a casa – Martina Franca viene descritta come uno di quei luoghi «abbastanza grandi per tenerti al riparo da situazioni incresciose, salvo plateali sbadataggini» – trova accoglienza nella nuova vita berlinese. Non è un caso che la parola spatriato possa essere utilizzata anche per definire chi ha un’identità fluida; nelle prime pagine del romanzo Desiati la sostituisce con il termine «i liberati».

C’è un passaggio, nel libro, in cui Claudia chiede alla sua compagna Erika di insegnarle qualche parola di tedesco e la ragazza sceglie di partire dalla sua preferita, Kopfkino, che potremmo provare a tradurre con viaggio mentale o, riprendendo la scelta di Desiati, con “film in testa”. Il cinema nella testa di Claudia è un continuo proiettare di sé mentre «parlava con le nuvole, mangiava gelsi bianchi e nuotava nelle onde dell’Adriatico», il corpo sradicato dalla Puglia ma i pensieri che insistono e fanno ritorno sempre lì, nel posto da cui è partita.

Quello di Spatriati è il racconto di una generazione e dei suoi conflitti: è la storia di chi ha voluto o dovuto lasciare la provincia consapevole che «non si può andar via senza graffi» ed è tutt’al più rimasto ancorato al suo immaginario attraverso le voci dei suoi poeti (nelle Note dallo scrittoio o stanza degli spiriti che chiudono il libro c’è una breve e imprescindibile ricostruzione della biblioteca di Claudia), di chi prova a tornare ma sente che il corpo si è disabituato alla terra, ai rumori, persino all’aria, di chi non riconosce niente e vede improvvisamente i propri luoghi d’origine sotto un’altra lente, deformante e scura, ritrovando «strade rotte, auto impazzite, gente piegata sui telefoni, ulivi bruciati, spazzatura, aggressività dappertutto, il mare che puzza». Spatriati mette di fronte allo specchio una generazione disillusa – quella dei quarantenni di oggi – che vive in un limbo «che ha i tratti dell’infanzia e della vecchiaia», compressa dalla storia politica e dalle sue fratture e che può dirsi soltanto ancorata al presente, senza mai lasciare spazio a tristezze o a pentimenti, una generazione a cui la sola forma di nostalgia concessa è quella che dà il titolo al quinto capitolo, la Sehnsucht, il desiderio del desiderio, «la malinconia di ogni essere vivente che anela all’impossibile».

A cinque anni dalla pubblicazione di Candore (Einaudi, 2016), Mario Desiati torna con un romanzo che sembra mosso dall’esigenza di raccontare la contemporaneità e di ricostruire le esistenze frammentarie dei protagonisti, e lo fa adoperando una lingua che si muove, esattamente come gli animi che popolano la storia, su più latitudini (ne sono un esempio i titoli delle diverse parti del libro, dove la polisemia di certe voci del dialetto pugliese si alterna all’esattezza dei lemmi tedeschi) e  dando forma a una prosa nitida, schietta. Ma più di questo, Desiati non ha paura di svelare i modelli, gli spiriti guida che hanno segnato la sua formazione di lettore e, al contrario, li mette in fila e rende loro omaggio nel capitolo conclusivo del libro: è qui che troviamo Franco Cassano e il suo Pensiero meridiano, Analisi in famiglia di Maria Marcone, L’ora di tutti di Maria Corti e con loro l’idea che certi testi possano avvicinare, suggerire una strada, essere terreno d’esplorazione o, più spesso, il riflesso di un’esperienza propria o universale perché, come pensa a un certo punto Veleno, «a volte si leggono libri solo per sapere che qualcuno ci è già passato».


M. Desiati, Spatriati, Torino, Einaudi, 2021, 288 pp., € 20,00.