I riti hanno un potere simbolico e da sempre unificante; è nella loro ripetizione e coincidenza che riesce a instaurarsi un legame, una relazione, tra gli esseri umani. Nel saggio La scomparsa dei riti. Una topologia del presente, recentemente pubblicato in Italia da Nottetempo (traduzione di Simone Aglan-Buttazzi), il filosofo Byung-Chul Han parla di una comunità della risonanza che viene a crearsi attorno alle pratiche rituali, capace di aprirsi all’ascolto dell’Altro e poi di individuare e assestarsi su un ritmo comune. Un esempio può essere quello delle cerimonie o dei riti funebri, che nel momento del lutto rafforzano un sentimento collettivo e oggettivo, e non una percezione individuale della sofferenza.

Oggi, gli assi di risonanza e la comunità sono analogamente messi in crisi e disgregati da un narcisismo crescente; si pensi per esempio alla comunicazione digitale, in cui l’eco di sé tende a prevalere sull’esperienza collettiva: sembrano esserci qui delle «camere di riverbero nelle quali si sente soprattutto la propria voce mentre si parla». L’assenza di rituali, sembra suggerire l’autore, è stata soppiantata da una necessità di produzione costante e accelerata tipica del neoliberismo: a essere prodotta è la cultura – che assume qui i tratti di un’ipercultura – sono lo spazio e il tempo, e così pure le informazioni. Prodotte, accumulate, sempre in circolo, proprio le informazioni sono il perfetto specchio della comunicazione senza comunità descritta da Han: caotica, autoriferita e impulsiva. Scritto nel 2019, Byung-Chul Han annunciava nel suo saggio una terza fase silenziosa che avrebbe fatto seguito a quella della comunicazione senza società e che chiama la svolta dataistica. L’essere umano rinuncia in questa fase al suo ruolo di produttore del sapere e «consegna la propria sovranità ai dati»: un atto di fede, o se vogliamo una completa resa, al dataismo, che lo obbliga a sostituire alle narrazioni i conteggi. Una previsione che suona tanto più indovinata se soltanto applicata alla puntualità dei bollettini quotidiani sull’andamento dell’epidemia, o ai grafici e alle mappe interattive, ai trend e agli indici con cui abbiamo imparato – o stiamo forse ancora solo imparando – a fare i conti e l’abitudine in questo anno abbondante ormai trascorso di pandemia.

Lo scorso febbraio è uscito per Einaudi un altro saggio di Byung-Chul Han, intitolato La società senza dolore (traduzione di S. Aglan-Buttazzi), scritto dal filosofo durante la pandemia. Leggendoli a distanza di poco tempo l’uno dall’altro, i punti di contatto e le risonanze mi sono sembrate molteplici. Il principio alla base del libro è apparentemente semplice e riprende le teorie già formulate in passato da Jünger: per riuscire a comprendere i meccanismi che regolano una società è necessario, tra le altre cose, operare un’accurata ermeneutica del dolore. Non è un caso che Han avvii allora la propria riflessione soffermandosi a lungo su una parola che lascia già intendere quale sia la disposizione della società contemporanea: algofobia, ovvero la paura generalizzata del dolore e delle sue manifestazioni fisiche o psichiche. Il mezzo di contrasto più efficace a questo timore ossessivo è il ricorso ad analgesici e palliativi, trattamenti capaci di mitigare e allontanare il dolore. «Si evita qualsiasi circostanza dolorosa», che viene vista con sospetto e diffidenza, e questo atteggiamento di rincorsa alla positività a tutti i costi finisce per interessare inevitabilmente, secondo Han, anche la politica, che ricorre a formule provvisorie e non incisive e anziché affrontare le questioni alla radice si limita a coprire le falle del sistema. L’attenzione è quindi spostata su una cultura della positività che fa persino dimenticare del possibile effetto catartico del dolore e di come esso sia stato privato nel tempo della sua funzione critica. Ma in che modo il virus ha agito e continua a influire sulla nostra capacità di gestione del dolore? Secondo Han il virus è riuscito a scalfire la «zona di benessere palliativa» che avevamo predisposto per resistere al dolore, siamo stati cioè improvvisamente sovraesposti a una quantità inaspettata di sofferenza e di morte e, impegnati a sopravvivere, non abbiamo saputo rispondere. Le osservazioni di Han sull’«isteria della sopravvivenza» sollevano tuttavia più di qualche riserva, perché il filosofo arriva persino a criticare aspramente e a tacciare d’immobilismo chi si è «adeguato allo stato d’eccezione che riduce la vita a nuda vita», ma di questo saggio è interessante osservare e trattenere — più delle posizioni sul virus in sé — la riflessione, più ampia, sulle possibili manifestazioni e modificazioni del dolore a cui eventi di questa portata ci costringono.

Il primo confronto col dolore a cui siamo obbligati è quello provocato dell’eccesso di immagini in cui, talvolta anche in modo involontario, incorriamo. La quantità è talmente elevata che non abbiamo il tempo di rielaborarle e metabolizzarle e si perde allora quella «tele-intimità con la morte e con la distruzione» di cui aveva parlato Susan Sontag (Davanti al dolore degli altri, Nottetempo, 2021) in riferimento alla guerra del Vietnam, la prima seguita in presa diretta dalle telecamere e la prima a diventare parte del flusso d’intrattenimento televisivo riservato agli spettatori nelle loro case, che attraverso l’impatto e l’esperienza della visione potevano quasi avvicinarsi alla percezione, o almeno alla comprensione, della violenza del conflitto e dei massacri. A quest’intimità Byung-Chul Han contrappone invece una forma, opposta e a tratti controversa, di nudismo e pornografia. È infatti pornografica, secondo il filosofo, la relazione che oggi s’instaura anche col piacere e con la violenza, una relazione narcisistica «in cui l’Altro è del tutto eliminato», come già scriveva ne La scomparsa dei riti. Siamo inerti di fronte alle immagini di violenza e «coi film e i videogiochi ci dedichiamo letteralmente al porno della violenza, che rende addirittura l’atto di uccidere una circostanza priva di dolore». Così, in tempi di pandemia, a protezione d’un dolore altrui che non sapremmo governare e di fronte al quale spesso ci mostriamo insensibili, ripariamo ancora una volta dietro alla certezza dei numeri.

Ma per quanto si possa cercare di metterlo a tacere, il dolore difficilmente scompare, piuttosto si reinventa, trova altre forme e manifestazioni. Han prende a prestito il postulato jüngeriano dell’astuzia del dolore secondo cui, se respinto, il dolore è capace di tornare dopo essersi sommato di nascosto e aver creato un «capitale invisibile che matura gli interessi e gli interessi sugli interessi». Laddove manca l’esperienza collettiva, l’ipotesi di guarigione sembra essere sempre più lontana e viene invece ad accentuarsi una necessità di risposta all’algofobia e di assecondare la sottrazione al dolore.

C’è stato un momento – durante i primi mesi della pandemia – in cui il dolore sembrava effettivamente ancora qualcosa di partecipato. C’era stato un tentativo, da parte di alcuni, di ristabilire una ritualità, gesti di raccoglimento o di chiamata: individualmente, nell’isolamento delle proprie case, si aveva la certezza di star reiterando un’azione compiuta, al medesimo tempo, da moltissimi altri in altri luoghi. Erano canzoni alle finestre, applausi a cadenza fissa, letture ad alta voce condivise sui social media, gesti che dovevano assumere un significato simbolico e sul cui valore mi sono interrogata a lungo senza trovare risposte certe. Queste iniziative sono sfociate, spesso, in una condivisione in rete dei contenuti che ha avuto per risultato di amplificare il baccano della comunicazione. Ci sono poi molti altri gesti silenziosi e quotidiani che hanno assunto in questo anno valore rituale e inderogabile, anch’essi se vogliamo ormai intrisi d’una sacralità profana – indossare correttamente le mascherine, mantenere la distanza di sicurezza in fila al supermercato e altri che conosciamo oramai a memoria – perché dalla precisione del gesto, e dalla sua ripetizione, dipende una stabilità che è inevitabilmente collettiva. Mi chiedo allora se anche pratiche di questo tipo, che sembrano appartenere a quella categoria di azioni che Han dice in grado di stabilizzare «la vita per mezzo della propria medesimezza (Selbigkeit), della loro ripetizione (Wiederholung)», e che rendono la vita resistente, non possano essere ricondotte, se riempite di un nuovo valore simbolico, a quella comunità senza comunicazione che il filosofo dice oggi frammentata e dispersa e che attraverso il rito può tornare a riconoscersi.


Byung-Chul Han, La scomparsa dei riti. Una topologia del presente, trad. S. Aglan-Buttazzi, Milano, Nottetempo, 2021, pp. 144, € 15.


Byung-Chul Han, La società senza dolore. Perché abbiamo bandito la sofferenza dalle nostre vite, trad. S. Aglan-Buttazzi, Torino, Einaudi, 2021, pp. 96, € 13.