Quando la teorica della cultura Mieke Bal (Heemstede, 1946) interroga le possibilità di lettura delle immagini, analizza i rapporti fra registro linguistico-verbale e registro figurale. Quando uno di questi registri prevale sull’altro può determinare riduzioni, approssimazioni o cesure. Ogni interpretazione di un’immagine avviene in relazione ad un contesto, una cornice storico-sociale che, a seconda di come viene a sua volta circoscritta, determina i possibili significati che possiamo dare a un’opera. Ho interpellato Mieke Bal perché quanto sto per introdurre potrebbe rientrare tra gli esempi di semplificazione di una storia dell’arte.

Per quanto riguarda l’opera di Giorgio Morandi (1890-1964) c’è un racconto predominante associato alla sua ricerca, che mette in luce prima di tutto la relazione tra l’autore e i suoi riferimenti visivi[1] e il suo atelier fuori dal tempo[2]. Il rapporto tra Morandi e la tradizione italica e la costruzione della sua immagine quale ‘digno discipulo’ di Piero della Francesca[3], nonché come solitario dedito al lavoro nello studio silenzioso di via Fondazza, possono aver contribuito a dare un taglio morale alla lettura del pittore, a cercare di dipingerlo come un artista asceta operante fuori dal tempo, e a lasciare quindi in ombra altre interpretazioni, forse minori, forse scomode.

Non è senza stupore che, indagando la relazione tra fascismo e modernità nel contesto italico, ho letto l’interpretazione che delle still life di Morandi fa Emily Braun: la storica dell’arte afferma infatti che i colori tenui delle opere dell’autore, che ricordano le tinte polverose della campagna, furono celebrate come espressione autentica del primitivismo fascista dello Strapaese[4].

E come ricorda Mark Antliff, autore che ha profondamente indagato la dimensione estetica della creazione del mito fascista, forse nell’immaginario popolare è stato dimenticato che Giorgio Morandi, Carlo Carrà e l’artista-critico Ardengo Soffici supportarono il fascismo attraverso il movimento culturale Strapaese, proprio nella fase “rivoluzionaria” del regime, ossia quella delle spedizioni punitive nelle campagne rurali italiane. La radice delle politiche culturali del primitivismo avanguardistico è uno spirito di rinnovamento ispirato a Georges Sorel; lo si ritrova negli scritti e negli atteggiamenti ‘strapaesani’ di Soffici, ed era già presente nel manifesto nazionalista di Giovanni Papini (1904). Lo Strapaese è centrato nelle regioni Toscana ed Emilia-Romagna ed è proprio nell’idea di toscanità elaborata da Soffici (1907) che sta l’essenza paesana, ovvero la vera essenza del fascismo, e la rigenerazione spirituale modernista secondo i suoi affiliati. Ritornando da Parigi al Monte Ceceri a Fiesole, Soffici rivede in sé il medesimo spirito che ha spinto Cézanne a ritirarsi a Mont Ste. Victoire. Dal Trecento a Cezanne, l’Italia sarebbe stata rinnovata dalle radici vitalistiche dell’Italia barbara[5], da quel fascismo che per Soffici unisce “l’esperienza del passato e la promessa del futuro”[6]. Il ritorno di Giorgio Morandi alla pittura di paesaggio è un abbandono definitivo della scuola metafisica e di Valori Plastici. Le acqueforti e i quadri che dipinge tra gli anni Venti e Trenta del Novecento articolano quell’estetica regionale che sarebbe tanto stata apprezzata da Mino Maccari e Leo Longanesi.

Le riviste a cui Strapaese fa riferimento, e per cui Soffici scrive, sono Il Selvaggio (1924-1943) e L’Italiano (1926-1942). Il Selvaggio, fondata a Colle Val d’Elsa nel 1924, è agli inizi portavoce dell’ala più intransigente del fascismo campagnolo, che sostiene l’uso della violenza per l’adesione delle masse al fascismo. Condivide con Strapaese l’orgoglio della tradizione agreste e la fierezza toscana del contado. Nel 1926 il direttore della rivista, lo squadrista Mino Maccari, nell’articolo Addio al passato pubblica le nuove guide de Il Selvaggio, che di lì in avanti si sarebbe occupata di arte quale “espressione suprema dell’intelligenza di una stirpe”, un passaggio ispirato dal “discorso del Duce alla Mostra del Novecento”, ossia la chiamata del regime per la creazione di un’estetica che supporti la politica rurale del fascismo. Dal 1926 Il Selvaggio pubblica con regolarità acqueforti e incisioni di Morandi sia perché emblematiche del genere paesistico sia perché incarnano il desiderio della rivista di descrivere il territorio e la sua riconoscibile geografia agricola[7]. Morandi è per la rivista uno dei maestri del tempo insieme a Carrà, Rosai e De Pisis. Il pittore bolognese partecipa alla mostra La Stanza del Selvaggio a Firenze nel 1927, che viene inaugurata dal Ministro delle Corporazioni Giuseppe Bottai con un discorso in cui sottolinea l’impegno degli autori in mostra per “stabilire in Italia una condivisa e fondamentale coscienza di italianità”[8].

Ma non è forse l’adesione ai dettami estetico-politici di regime un allineamento con quest’ultimo senza la necessità di un atto apertamente politico? Non è anche questa una forma di partecipazione al progetto fascista? Potremmo accettare la tesi di Mariana Aguirre di considerare la scelta attiva di Morandi di essere promosso sulle riviste per cui scrive Soffici e di sfruttare le buone relazioni di questi con il regime per promuovere il proprio lavoro?[9] Questa lettura certamente stride con l’immagine di un Morandi dipinto come un individuo isolato, e di certo cerca di correggere i tentativi di Arcangeli e Del Puppo di relazionarsi al decennio paesano di Morandi, spostandolo cautamente dall’ideologia dello Strapaese[10]. Eppure Morandi nel suo unico intervento autobiografico sulla rivista L’Assalto[11] rende pubblica e inequivocabile la sua adesione a un fascismo[12] rinnovatore dell’atmosfera artistica italiana dichiarando “Ebbi molta fede nel Fascismo fin dai primi accenni, fede che non mi venne mai meno, neppure nei giorni più grigi e tempestosi”[13].

Nonostante in più occasioni Morandi abbia beneficiato della sua prossimità al fascismo, una lettura non solo formalista del suo lavoro è molto difficile da rimuovere, e tra gli autori che hanno aperto a questa analisi del suo lavoro non si trovano storici dell’arte italiani. Per esempio nel 1930 a Morandi fu concessa la cattedra di incisione all’Accademia di Belle Arti di Bologna dal ministro fascista Giuseppe Bottai dopo intercessione a favore del pittore da parte di Oppo e Longanesi, che contattarono direttamente il Ministro dell’Educazione Giuliano Balbino per persuaderlo. Questa azione fu suggerita da Morandi in una lettera scritta ad Ardengo Soffici il 3 ottobre 1929[14]. Morandi scrive a Soffici nel 1928 a proposito delle difficoltà nell’ottenere una cattedra di incisione all’Accademia di Belle Arti di Bologna. Questa gli viene concessa nel 1930 dal ministro Giuseppe Bottai per “chiara fama”. Nonostante il ruralismo dello Strapaese non sia lo stile ufficiale del regime, i suoi affiliati occupano posizioni importanti e si aiutano tra loro. Su questo nel dopoguerra Morandi preferisce tacere, preoccupato per le epurazioni di Mario Sironi e Arturo Martini dall’insegnamento in Accademia.

Molto spesso il fascismo è considerato come un’interruzione alla continuità storica, una rottura rispetto alla cultura che lo ha preceduto e che lo ha seguito, una sorta di derivazione patologica dalla Prima guerra mondiale. Ma rileggendo la storia particolare di Morandi durante gli anni in cui il regime fascista assedia l’Italia risulta difficile, se non impossibile, separare il fascismo dalla “gloriosa tradizione italiana” (di Roma antica e del Rinascimento) e dagli sviluppi di forme visive che proprio nel fascismo hanno visto una rinascita italica verso il contemporaneo.

Quali passaggi e cancellazioni storiche sono avvenute dopo la caduta del regime fascista e quali implicazioni hanno queste “interruzioni storiche” per quanto riguarda l’opera di Morandi? Che cosa dice la lettura e che cosa lo sguardo delle opere che il pittore bolognese ha eseguito durante il ventennio? Perché queste due posizioni, alla luce della storiografia più nota di Morandi, risultano discordanti in Italia ma non altrove? Come mai, nonostante avesse una tessera fascista, Morandi è uno dei pochi pittori modernisti italiani ad uscire indenne dal fascismo? È davvero imparziale continuare a interpretare Morandi solo con lenti formaliste senza analizzare l’esatta natura del suo temperamento solitario?

Giorgio Morandi, Natura morta, 1953.

Immagine di copertina: Giorgio Morandi, Paesaggio, 1927.


[1] “Fra i pittori antichi, i toscani sono quelli che più mi interessano: Giotto e Masaccio sopra tutti. Dei moderni ritengo Corot, Courbet, Fattori e Cèzanne gli eredi più legittimi della gloriosa tradizione italiana”. Questa frase è estrapolata dall’unico scritto mai pubblicato da Giorgio Morandi. Si tratta di una breve autobiografia uscita nella rivista fascista bolognese “L’Assalto” il 18 febbraio 1928.

[2] Numerose furono le fotografie scattate dai visitatori allo studio di Morandi: da Lamberto Vitali a Paolo Monti, da Luciano Calzolari a Luigi Ghirri, le fotografie dello studio del pittore furono realizzate secondo uno schema preciso in cui gli oggetti dipinti dal pittore hanno portato a scatti che gareggiano con la pittura dell’autore, in una sorta di postumo ritratto in sua assenza.

[3] Nel 1919 Giorgio Morandi scrive in una lettera a Carrà di aver trovato un pigmento rosa “molto bello, come di vede negli affreschi antichi,” Morandi, Lettere, p. 22.

[4] Cfr. Emily Braun, Speaking Volumes: Giorgio Morandi’s Still Lifes and the Cultural Politics of Strapaese, John Hopkins University Press. Volume 2, Number 3, September 1995, pp. 89-116.

[5] E. Braun, Op. cit., 1995.

[6] Questo afferma Soffici nel giornale fascista Gerarchia, fondato dallo stesso Mussolini nel 1922.

[7] Mino Maccari: l’avventura cit., pp. 32-54.

[8] Poggi, “Lacerba: Interventionist Art and Politics.” Cfr. anche Adamson, Avant-Garde Florence, pp. 191-203.  

[9] Mariana Aguirre, Sincronía XVII. Num. 63, Guadalajara, Jalisco, Enero-Junio 2013.

[10] Cfr. F. Arcangeli, Giorgio Morandi, Torino 1981, pp. 110, 167 e A. Del Puppo, Modernità e nazione. Temi di ideologia visiva nell’arte italiana del primo Novecento, Macerata 2012, pp. 195-218.

[11] L’Assalto era il periodico ufficiale della sezione bolognese della Gioventù Universitaria Fascista. Fondato nel 1920 cessò le pubblicazioni nel 1944. Tra i suoi direttori vi fu Leo Longanesi, che fondò anche L’italiano e fu pittore, titolo con cui partecipò alla I e II Quadriennale di Roma (1931 e 1935) e alla Biennale di Venezia del 1934.

[12] Cfr. Mariana Aguirre, “Giorgio Morandi and the “Return to Order”: From Pittura Metafisica to Regionalism, 1917-1928”, Anales de Instituto de Investigaciones Estéticas, maggio 2013, p. 121.

[13] Giorgio Morandi, “Autobiografia,” L’Assalto, Bologna, 31 dicembre 1928.

[14] Morandi, Lettere, 34.