[assemblatz] (Zona, 2020) è un libro che non si pacifica nella lettura, che continua a dire qualcosa anche dopo parecchi giorni che è stato riposto sullo scaffale.

Effettivamente, nella sua semplicità e perfino esilità (56 pagine) la raccolta ha in sé qualcosa di perfettamente solido che si percepisce già dalla sua struttura. Non si tratta di un gruppo di suites messe insieme tramite il paziente montaggio di disiecta membra collezionati in anni di distillazione interiore, [assemblatz] è piuttosto una serie/variazione/diario (i tre termini rimandano ad Amelia Rosselli) in cui ogni testo compare “marchiato” dal titolo dell’opera, senza ulteriori divisioni interne.

Un altro motivo di solidità strutturale della raccolta sta nel modo trovato dall’autrice per esplorare un tema (la maternità) attraverso un “sentimento della parola” che non è astratta speculazione, ma essenziale campo di ricerca e comprensione. Fra le maglie dell’assemblaggio, il lettore ascolta infatti la voce di una madre alle prese con la dislalia della figlia. L’assenza/essenza della parola è contemplata con attonita e stupefatta amarezza, un filo di parole (sillabate, scomposte) lega le protagoniste della raccolta in una nitida simmetria. Il linguaggio («che è la più complessa delle attività dell’uomo», p. 9) è un oggetto misterioso e indecifrabile, aggredito su due versanti. Da una parte c’è la madre che forgia frasi perfette e taglienti, dall’altra la figlia che stenta a pronunciarle.

Ed è qui che la forza della raccolta sembra più pura: nella non gratuità di ogni suo movimento o motivo, nel legame che si viene a creare fra la caratterizzazione stilistica e le ragioni di un’esperienza biografica, concepita nell’ambito di un disagio diffuso, ed ulteriormente espansa a una ragione comune (sociale, politica) come quella della lingua. Ciò che è dentro l’opera serve a sondare quanto sta fuori (e viceversa) in base a un istinto primario, empatico e universale.

È difficile rimanere indifferenti davanti a questa raccolta, perché in essa non viene affrontata soltanto la storia di un individuo o di un gruppo di individui. La parola che non c’è (la p. 47 è completamente vuota, se si esclude la marca che accompagna ogni lassa) anticipa, attraverso la poesia che la interroga con apprensione, una condizione di disturbo generalizzato. Muovendosi fra un livello inferiore e uno superiore, la poesia-madre prova a riassemblare i frammenti, a ricomporre la distorsione. Senza forzature o esibizioni, la raccolta dà la misura di un cortocircuito, dal disturbo del linguaggio di una bambina alla disfunzione generale. 

Il mondo di [assemblatz] è piccolo: la casa, il parco, la metro, la scuola, l’istituto. Si intravede sullo sfondo una Roma sbiadita e slabbrata. Il rovello di entrare nel linguaggio domina ogni cosa, monopolizza tutto. Ma in questa narrazione della malattia (la raccolta è anche questo) la parola non rimane fuori, e non è nemmeno uno strumento consolatorio o di sollievo. In questo caso, la parola è il nemico. Nella normalità dei giorni, essa diventa un oggetto ingombrante da tenere a bada con frasi dalla sintassi slogata, in cui (come lampi) si accavallano impressioni e deviazioni momentanee.

È stato messo in luce, in un intervento su Rossocorpolingua firmato da Valentina Bianchi e Marianna Marrucci, il complesso delle citazioni che sostengono come un’impalcatura invisibile [assemblatz] (formula mutuata dalla poesia provenzale). La tradizione letteraria, la facoltà poetica, è interrogata come l’unica occasione per restituire senso allo sfacelo cognitivo che, oltre ad essere un’emergenza culturale, è anche un’emergenza civile. A ben vedere, questo tacito investimento nei confronti della poesia è l’elemento di maggiore solidità, nella comune svalutazione del genere “senza mercato” per eccellenza. Davanti alla perdita del senso, la ricerca torna ad essere vitale: «ades, trobar» (p. 56).


Fiammetta Cirilli, [assemblatz], Ferrara, Zona, 2020, pp. 60, € 11.