Nell’anno della crisi esistenziale del cinema è tempo di riflettere su quanto e cosa potremmo perdere, una volta terminato questo periodo incerto. Con le più grandi catene di cinema in bancarotta e le principali case di produzione che si preparano a lanciare i loro nuovi film di punta in contemporanea nelle sale e sulle piattaforme streaming, ci attende un 2021 che sa di anno zero del cinema. Ma in attesa della rifondazione, è essenziale fermarsi e guardarsi indietro, ripercorrendo alcune tappe di un’arte che in un solo secolo di vita ha stravolto il nostro immaginario più di ogni altra forma espressiva. Pertanto, qualunque sarà il destino del grande schermo dal prossimo anno, la battuta d’arresto della lanterna magica ci offre l’occasione di metterci in pari coi capolavori del passato. E sono le stesse piattaforme di streaming, le stesse imputabili in parte del declino delle sale, che ci vengono in soccorso, offrendo una disponibilità di titoli mai avuta prima d’ora. Il tempo sospeso del cinema può quindi essere messo a frutto ricercando gemme nascoste, grandi classici e opere annegate nei cataloghi di Netflix, Amazon, RaiPlay e altri servizi, per rimettere insieme i pezzi della storia del cinema, proprio nella sua ora più buia.

François Truffaut, salvato dal cinema (letteralmente)

Per tracciare la mappa del cinema bisogna partire da un luogo, Parigi. Non quella dei Fratelli Lumière e della proiezione dell’arrivo del treno al Grand Cafè del Boulevard des Capucines, ma quella degli anni Sessanta, della Cinémathèque Française e di un gruppo di malati di cinema che sconvolgerà il modo di pensare le immagini in movimento, conferendo ai registi il ruolo di veri autori e la possibilità di usare la cinepresa come fosse una stilografica. Parliamo della Nouvelle Vague, la prima vera riflessione teorica sulla settima arte, realizzata da quelli che forse ora chiameremmo nerd: un gruppo di giovani cresciuti a pane e film, innamorati del cinema americano, tedesco, italiano e soprattutto della letteratura, uniti contro un modo di fare film convenzionale e inutilmente sofisticato. Tra di loro c’è chi dal cinema è stato letteralmente salvato: François Truffaut. Per lui la sala buia fu un rifugio, calda coperta buia a proteggerlo da una realtà ostile. Da ragazzino, durante la Seconda guerra mondiale, marinava la scuola per andare a vedere una delle poche pellicole presenti nelle sale – anche a quei tempi il cinema non se la passava benissimo – per poi nascondersi nuovamente nei teatri e più tardi, da adolescente, scappare di casa. In un’intervista afferma di aver sviluppato la sua cultura cinematografica tra i dieci e i diciott’anni, periodo in cui si lancia con un amico nell’impresa di organizzare un cineforum con proiezione del film Metropolis. Il progetto finisce miseramente con Truffaut spedito dallo stesso padre prima in commissariato di polizia e poi in riformatorio. A tirarlo fuori da qui sarà proprio il cinema, impersonificato da André Bazin, ai tempi direttore dei Cahiers du Cinéma e amico del giovane ribelle. Nasce così il mito di Truffaut, regista/critico, malato di cinema per sua stessa ammissione, che a un certo punto della sua carriera affermerà: “Se il cinema finisse, sarei spacciato. Non potrei fare niente, sarei come un infermo. La mia è una specializzazione pura, non ho mai la sensazione di stare nel cinema per caso. Invece nella vita mi sono sentito spesso a disagio, come giornalista, perché non avendo studiato ritenevo di non avere il diritto di scrivere o temevo di scrivere male. La gente può amare o non amare i miei film, ma non può contestare il fatto che io sia un cineasta.”

Se il cinema finisse, sarei spacciato. Non potrei fare niente, sarei come un infermo.

Da qualche settimana sulla piattaforma streaming RaiPlay sono disponibili undici film del regista francese, dai più famosi I 400 colpi e Jules e Jim ai meno noti come Le due Inglesi e L’amore fugge, una selezione sufficientemente ampia per riscoprire Truffaut in tutta la sua abilità di narratore dallo stile inconfondibile, in bilico tra leggerezza e drammaticità, dal ritmo incalzante seppur privo di schematismi o strutture troppo rigide.

Baci rubati (Baisers volés): fare cinema per il puro gusto di farlo.

“Noi giriamo film in cui non succede nulla. Non ci sono sangue, spari, drammi, violenza, ma un insieme di piccoli avvenimenti quotidiani che compongono il soggetto del film.” Così Truffaut sintetizzava la poetica della Nouvelle Vague in un’intervista del 1973. E Baci rubati (Baisers volés) ne raccoglie in un certo modo l’essenza. Girato in un solo mese, tra il febbraio e il marzo del 1968, questa pellicola incarna lo spirito della nuova stagione del cinema non solo per il modo in cui tratta la materia, ma anche per il modo disinvolto in cui viene realizzato. In quei giorni Henri Langlois veniva rimosso dalla direzione della Cinémathèque française – quasi una seconda casa per i registi della Nouvelle vague. Truffaut, insieme ai vari Godard e Chabrol, decidono di creare un comitato in difesa dell’istituto e contro la scelta del ministro della cultura Malraux di deporre il direttore loro amico. “Da quel momento ho condotto una doppia vita di cineasta e militante” afferma Truffaut, che gira Baci rubati nei tempi lasciati liberi dal suo impegno politico. Ne esce così un’opera prodotta in totale libertà, quasi un manifesto, dove gli attori spesso improvvisano, le soluzioni per risolvere una scena si trovano durante le riprese, e tutto si regge su una sceneggiatura che lo stesso Truffaut definisce “esile” ma al contempo offre un ritmo perfetto. Si tratta del terzo episodio della saga di Antoine Doinel, il personaggio alter ego di Truffaut, di cui seguiamo le vicende fin dalla sua infanzia turbolenta nel capolavoro I 400 colpi,  le prime avventure adolescenziali in Antoine et Colette, per arrivare con Baci Rubati all’iniziazione all’età adulta. Truffaut spesso gioca su più registri, dal drammatico al comico, e ama decostruire e ricomporre i generi da lui più amati, come il noir o il thriller. In Baci rubati assistiamo a pedinamenti, appostamenti, indagini, ma ogni elemento è privato delle sue componenti torbide e utilizzato con ironia. Il nostro Doinel è alla ricerca di un posto nel mondo dopo aver concluso miseramente un’improbabile carriera militare intrapresa dopo una cocente delusione amorosa. Tornato privato cittadino, si mette subito alla ricerca di un buon mestiere, pur apparendo inabile a qualunque occupazione pratica. A prestare il volto ad Antoine Doinel è Jean-Pierre Léaud, il primo attore a crescere letteralmente di fronte alla cinepresa (con buona pace del più recente Boyhood di Linklater), un esperimento questo che già offre un valido motivo per vedersi non solo questo film, ma tutta la saga. Un secondo motivo è che Truffaut in questa pellicola esplicita la sua teoria della scena privilegiata, cioè di quelle sequenze a cui il regista francese concede più spazio e minutaggio, per le quali preferisce prendersi del tempo in fase di riprese. È il caso della scena in cui Madame Tabard (interpretata dalla magnetica Delphine Seyrig, già vista in Lo scorso anno a Marienbad) proprietaria del negozio di scarpe dove lavora Doinel – in realtà come copertura per portare avanti la sua strampalata indagine da detective privato – si presenta a casa del protagonista, proponendogli un patto di tipo erotico. Truffaut spiega: “Lì lei [Delphine Seyrig] può prendersi tutto il tempo che vuole, lasciarsi andare a lunghi silenzi. Io so che il pubblico l’ascolterà”.

Le due inglesi (o dell’amore fisico)

È nota la passione di Truffaut per la letteratura e ancor di più il suo amore per un autore poco conosciuto all’epoca e che il regista contribuì non poco a riscoprire: Henri-Pierre Roché. Da un suo romanzo è infatti tratto Jules e Jim, il film forse più rappresentativo di Truffaut e tra i più noti della Nouvelle Vague insieme a À bout de souffle di Godard. Si tratta di un incredibile inno alla vita, oltre che un’aperta sfida alle convenzioni morali, trattandosi della storia di due uomini che amano, ricambiati, la stessa donna, e che, a un certo punto della storia, decideranno di vivere tutti e tre sotto lo stesso tetto. Jules e Jim è diventato il triangolo amoroso più famoso della storia del cinema nonché il film della consacrazione per l’attrice Jeanne Moreau. Forse non tutti invece conoscono un altro film di Truffaut tratto da un romanzo di Roché: Le due inglesi, del 1971. Anche in questo caso al centro della trama abbiamo un triangolo amoroso ma, a differenza di Jules e Jim, qui sono le donne a essere due ed è l’uomo ad essere conteso. Ambientata a inizio Novecento, la storia racconta di un giovane aristocratico francese, Claude, che conosce la scultrice Ann, figlia di un’amica inglese di sua madre. Ann lo invita a trascorrere l’estate da lei in Galles, dove potrà riprendere gli studi della lingua inglese e conoscere la sorella minore Muriel, una giovane molto riservata e afflitta da una strana malattia agli occhi. Inutile dire che tra Claude e Muriel nascerà un amore che i giovani metteranno alla prova durante un lungo anno in cui rimarranno separati, durante il quale Claude scoprirà una passione anche per l’altra sorella Ann. Se all’apparenza questo film può sembrare semplicemente un esperimento di gender swap in salsa melodrammatica del suo più noto precedente, esso si rivela in realtà un’opera più complessa, che analizza il sentimento amoroso su un piano totalmente diverso rispetto a Jules et Jim, più totalizzante. Truffaut lo afferma chiaramente in una sua intervista: “Non c’è una sola immagine che non si riferisca all’amore. I personaggi provano sentimenti molto forti, li commentano tra loro, per loro, senza tregua fino ad arrivare, a un certo momento, ad essere malati d’amore. Questa è la differenza sostanziale con Jules et Jim, che era un inno alla vita, mentre questo è un film di dolore.”