Non si guarda uno zombie movie per sapere come va a finire. Che i protagonisti sopravvivano o meno, che l’epidemia venga circoscritta o no, nel genere il finale costituisce solo un naturale allentamento della tensione narrativa, che non può e non deve sorprendere. I titoli di coda segnano una tregua, in attesa che un nuovo titolo rinnovi il balletto della violenza di massa. Perché è la rappresentazione del conflitto – stabilire contro quale ferocia si sta combattendo, e per quali ragioni – e non il suo esito, ad essere al centro dello zombie movie.    

In barba a qualsiasi presunta etichetta sullo spoiler, il finale di #Alive, ultimo fenomeno globale prodotto da Netflix, propone alcuni spunti di riflessione. In termini numerici, si rischia di far torto a ben pochi spettatori: come riporta Fixpatrol, lo scorso mese il nuovo film del regista coreano Cho Il-hyeong ha conquistato in soli due giorni il podio dei film più visti in 83 paesi al mondo.

Fenomeno globale istantaneo, #Alive riesce, meglio di ogni altro titolo della piattaforma, nell’impresa di sciogliere la tensione tra la formularità del genere e un’industria culturale dove il nuovo posizionamento del prodotto ne legittima, più d’ogni altra cosa, il diritto all’esistenza. Alcune concause dirimono l’enigma attorno al successo del film: il traino rappresentato da Parasite per il cinema coreano, il formato e la piattaforma di distribuzione, il particolare momento che l’industria culturale sta attraversando, senza però considerarne lo specifico filmico.

Al di là di mere considerazioni estemporanee, il più ripetitivo dei sottogeneri riesce ancora a calamitare gli occhi di milioni di spettatori, a dispetto di una formula narrativa pressoché invariata fin dagli esordi. C’è però un’altra costante nello zombie movie, che può forse illuminare la ragione profonda del successo di #Alive: la capacità del tema, e forse la sua conclamata volontà, di dialogare con l’immediata contemporaneità, imponendosi di volta in volta come rinnovato specchio del reale. La lotta per la sopravvivenza fisiologica, che si ripete sulla pellicola da più di cinquant’anni, diventa ad ogni occasione un riflesso di altre sopravvivenze.

Nell’articolo Zombies and the Post-colonial Italian Unconcious, Simone Brioni ha messo in luce come Zombi 2 di Mario Fulci (1979) costituisca un barometro della xenofobia italiana nel momento in cui il nostro paese si apprestava a divenire infine terra di immigrazione, dove la ferocia dei non-morti si sovrappone a quella, presunta, delle nuove “orde” migratorie. Il rapporto conflittuale con l’alterità d’altronde risale fino alle prime manifestazioni del tema, eredità dell’occupazione americana di Haiti (1915-34), lo zombie è in primis il simbolo della minaccia coloniale contro l’invasore occidentale.

Già White Zombie di Victor Harlepin (1932) suggerisce, seppur con gli strumenti manierati del romance, come i non-morti possano dilagare nella società occidentale, corrompendone l’unità di base: la coppia fondata sull’amore romantico. Non si tratta solo di un rigurgito xenofobo, ma di una contaminazione dialettica: il colono, novello Dr. Frankenstein, si lascia contagiare dalle pratiche sciamaniche del ‘cattivo selvaggio’, facendone una techne che rischia di ritorcerglisi contro. Presto lo zombie movie dà però prova di essere uno spazio aperto ad alterità ben differenti. Nel binomio che unisce le democrazie occidentali e alle loro colonie, si insinua l’Altro politico: l’impero austro-ungarico prima, e i totalitarismi poi.

The Revolt of the Zombies (1936), racconta di una spedizione segreta durante la Prima Guerra Mondiale, organizzata dagli Alleati per evitare che il segreto per produrre un’invincibile armata di morti viventi cada nelle mani dei nemici. Allo stesso modo, in Revenge of The Zombies (1943), è il Terzo Reich ad appropriarsi della magia nera haitiana per scatenarne i non-morti contro gli Stati Uniti. Nonostante la persistenza di una certa dimensione esotica (si consideri Zombies of Mora Tau, 1957), il superamento del trauma bellico e l’esperienza della decolonizzazione segnano una svolta in chiave sociologica per lo zombie movie. Se da un lato si attenua la feroce contrapposizione tra una società rispettabile e i suoi nemici esterni, dall’altro i non-morti offrono ora una chiave di lettura per esplorare le patologie interne alle civiltà occidentali, tanto a livello nazionale quanto su scala globale.

Si pensi a come I Eat Your Skin (1964) di Del Tenney utilizzasse i morti-viventi per denunciare i rapporti torbidi tra ricerca scientifica e sviluppo industriale; oppure, ai celeberrimi titoli di testa di Dawn of the Dead (1978) di Romero, in cui le masse di morti viventi si aggirano tranquillamente per un centro commerciale, in una grottesca rappresentazione della società dei consumi; ma anche al più recente World War Z (2013), dove la pandemia zombie diventa una cartina di tornasole per discutere di autoritarismo, democrazia e verità in alcune delle zone più calde del pianeta. Lo stesso The Walking Dead (2010 –) che, come osserva Brioni, metterebbe in scena un contrappasso allo sterminio e alla reclusione in riserve dei nativi americani, si svolge però sul filo di una società feroce e frammentata, dove ogni equilibrio comunitario è costantemente sovvertito da particolarismi egoistici.

Il mondo dei morti viventi sembra tanto più idoneo a parlare di collettività e di individui – in una parola, di società – proprio perché il rapporto con il suo pubblico è problematico: il cinema dello zombie movie è al contempo prodotto per le masse e oggetto artistico in cui le masse diventano fonte di terrore per lo spettatore individuale. Si potrebbe quindi parlare di una cesura segnata dall’introiezione dello zombie: sempre meno figura esotica, il morto vivente ci minaccia perché è un prodotto del contesto sociale stesso in cui lo spettatore è immerso.

In questo senso, #Alive non fa eccezione. Ancora una volta, si assiste al collasso di una società senza colpi inferti da nemici esterni. Eppure, quell’introiezione dello zombie che ha segnato il successo del genere nella seconda metà del secolo scorso cede il passo a una nuova estetica dello spauracchio: invece che spazio di criticità per ripensare il mondo, lo zombie movie torna ad essere un bacino di raccolta per reflussi subconsci, uno spazio di consolidazione del reale tramite il timore del suo sovvertimento.     

Nelle battute finali, Joon Woo (Yoo Ah In) e Yoo-Bin (Park Shin Hye) riescono a mettersi in salvo perché soccorsi da un elicottero dell’esercito. Lui un hikokomori; lei un’amante della montagna, che vive reclusa dopo un’incidente durante un’escursione, sono gli unici sopravvissuti del loro enorme stabile. Superamento di due solitudini, il loro rapporto rappresenta quel connubio di techné e natura, ratio e sentimento, che sembra l’unica strada possibile per sopravvivere all’epidemia di cannibalismo.

Mentre vengono scortati verso una zona sicura, Joon e Yoo-bin possono tirare un respiro di sollievo: i telefoni hanno ripreso a squillare; la rete internet è stata ripristinata. Lungo lo skyline di Seoul, compaiono in sovraimpressione le richieste di aiuto di tutti quelli che, come loro, sono stati dati per dispersi e invece ancora possono l’intervento dei soccorsi. Dietro alle facciate di vetro dei grattacieli, c’è ancora una umanità che ticchetta sulle tastiere, e che condivide su Instagram la propria lotta per la sopravvivenza. Il mondo soccombe in favore di un’altra società – cooperativa, disinteressata, umana: quella dei social network. 

#Alive è così uno zombie movie all’epoca di Tik Tok, un passaggio obbligato per un sottogenere dove il confronto con il contemporaneo è prassi. Eppure, c’è qualcosa che rende il suo finale diverso da quelli dei suoi immediati predecessori.

In Romero ed epigoni, l’unica fonte di orrore è il reale, da cui prendere le distanze attraverso la cinepresa, per poi esservi riproiettati quando le luci in sala si accendono. Si pensi alla conclusione della Notte dei morti viventi (1968): sullo sfondo della lotta per i diritti civili, l’ultimo superstite della casa, un trentenne nero, viene ucciso dai vigilantes organizzatisi per contrastare gli zombie. Nel film di Cho Il-hyegon questo rapporto di forze è invertito: i protagonisti sperimentano un’orribile sospensione della realtà ordinaria, per tirare un sospiro di sollievo solo nel momento in cui quell’ordine viene ristabilito. Non c’è – non dico esitazione, sospetto – neppure uno sguardo critico sul reale che possa giustificarne la necessità narrativa; solamente l’ipotesi di una privazione – una lunga astinenza dalla Rete – che si traduce in sollievo quando questa viene meno.

Ciò detto, prendiamo le distanze da qualsiasi connotazione dei social network come entità maligne tout court.  La nostra lettura di #Alive si limita all’atto del discorso che sottende, e non al suo contenuto; anche se il film costituisce, per date d’uscita, un curioso controcanto a The Social Dilemma. Là dove lo zombie movie accusa, riflette, propone, #Alive ammonisce chi, ingrato, non riesce a cogliere le meraviglie del nostro tempo; mentre il genere aveva appreso a denunciare le fallacie del reale, Cho ne consolida al contrario le istituzioni, e anzi ci ricorda quanto queste siano fondamentali per la nostra sopravvivenza. Il vero terrore di #Alive risiede nel telefono che non squilla; nel televisore che non è più in grado di fornire notizie; nelle newsfeed e nelle chat room deserte; non nei morti viventi che si aggirano per la strada.

Il film diventa così è una dichiarazione di resa alla realtà: nella più totale incapacità di immaginare un mondo altro per ripensare questo, #Alive sventola bandiera bianca, trasformando l’assenza di tecnologia in uno spauracchio da brandire contro ogni scetticismo social. Rapporto, quello tra uomo e algoritmi, che diventa per di più esclusivo: il dialogo con la natura si risolve a malapena in una giustapposizione coatta, un cliché manierato che si circoscrive alla pianta da appartamento di Yoo-Bin, per altro presto abbandonata.

Forse queste osservazioni non sono che i primi sintomi di una dissociazione, almeno valoriale, tra un mondo di spettatori nuovissimi e chi scrive. Di certo, nel mondo di Cho non c’è spazio per timori luddisti: la tecnologia è pervasiva, e l’unica fonte di terrore risiede nel fatto che essa possa non sostenerci più nella quotidianità. Lo stesso modo in cui Cho tratta la scelta del protagonista, un hikikomori, è rivelatore di una solidarietà inedita tra il regista e il suo nuovo pubblico: Joon non è un loser; non c’è alcun senso esplicito di emarginazione nel suo personaggio (al di fuori della sveglia che, nel giorno fatico, suona alle dieci); nessun orrore legato all’alienazione e alla reclusione come lo si trova nelle narrative su questa figura della storia sociale recente.

Lo sguardo disilluso di Joon – per il quale il mondo doveva sembrare una lotta cannibale ben prima dell’epidemia – è solo l’epifenomeno di una generazione di giovanissimi già arresi alla ferocia sociale, eppure bisognosi, in una sorta di double blind, di mantenere con esso un rapporto a misura di schermo. L’ordine e l’isolamento garantiti dai social network si presentano così come l’ultimo baluardo di fronte a una società che, nelle sue interazioni dirette, è feroce sopraffazione. La pratica del gradimento – si tratti di un like, di una condivisione, di un cuore – si sostituisce volentieri, e diremmo anche con sollievo, a qualsiasi rapporto con l’altro.

In #Alive, non ci si propone di ricordare che le società, se ridefinite in una serie di principi, possono costituire una rete di protezione per l’individuo; al contrario, al di fuori del Panopticon dei social network – un sistema di controllo che certifica che ciascuno di noi si trova al sicuro, rincantucciato dietro al proprio schermo – non esiste nulla se non la violenza.

Il conflitto (“epico”, direbbe Frye) tra l’ambiente e l’eroe si risolve nella trasformazione di quest’ultimo in icona mediatica, senza che il dolore di uno divenga quello di una società. Il coinvolgimento collettivo si misura in interazioni virtuali, mentre il vero e proprio salvataggio è delegato all’autorità militare, un deus ex machina senza volto, che si muove letteralmente su altre frequenze rispetto alle interazioni dei sopravvissuti. D’altronde, le frecce all’arco del protagonista – come il drone, o il visore VR – possono trarlo in salvo ma non possono e non vogliono invertire alcuna tendenza sistemica all’isolamento individualistico; anzi, è proprio la sua esistenza ai margini a fornire a Joon le capacità necessarie per sopravvivere. 

Salvo sparuti momenti di coraggio, ogni forma di conflitto va evitata, richiudendosi in casa fino all’arrivo dei soccorsi. Il mondo di Cho è quello della delega del potere, della resa incondizionata, della frammentazione, in cui si attende la salvezza come concessione dall’alto, mentre il brulichio delle richieste d’aiuto diventa sempre più assordante.