Nell’annus horribilis del cinema, forse il peggiore dalla sua nascita, tutti erano in attesa di Tenet, il nuovo film di Christopher Nolan, e lo erano per svariate ragioni. La prima è che si tratta del principale blockbuster a livello mondiale nell’era post lockdown e per questo l’intera industria cinematografica vi ripone più di una speranza di riscatto. La seconda è che si tratta dell’ultima opera del cineasta più influente del ventunesimo secolo. La terza e non meno importante consiste nel fatto che Tenet è un film realizzato a livello tecnico per essere fruito esclusivamente nel buio della sala cinematografica. Come accaduto per il precedente Dunkirk, Nolan ha infatti girato Tenet interamente in pellicola da 70mm, formato costoso e per questo abbandonato dalla maggior parte dei registi, ma che conferisce all’immagine una definizione superiore. Del resto Nolan aveva apertamente dichiarato l’amore per la sala cinematografica in un intervento sul Washington Post, dove ribadiva l’importanza economico-sociale rivestita da questi magici luoghi concludendo così: “Forse, anche tu, come me, pensavi di andare al cinema per il suono avvolgente, per i Goober (snack ndr), per le bibite e i popcorn, o per le star del cinema. Invece non eravamo lì per quello. Eravamo lì l’uno per l’altro.” Questo spiega perché l’uscita di Tenet ricopre un valore che va oltre quello del mero spettacolo e perché sia, almeno sulla carta, l’opera giusta al momento giusto. La peculiarità dei lavori di Nolan sta infatti nell’essere un intrattenimento misto a intellettualismo, che il New York Times definisce con il neologismo intellectacle: il prodotto ideale per portare persone al cinema e allo stesso tempo favorire il dibattito. È nota l’ossessione di Nolan per il tema del tempo e gran parte della sua filmografia consiste in una sorta di variazione sul tema: da Memento a Dunkirk, passando da Inception e Interstellar, fino ad arrivare a questo Tenet che, a detta dello stesso regista, è il suo film più ambizioso. E quanto ardua sia la sfida che ha scelto Nolan in questa nuova opera lo si evince dalle prime scene del film: quando in un teatro dell’opera un proiettile fuoriesce dal foro di legno in cui si era conficcato per rientrare nella canna della pistola da cui era stato esploso. In Tenet il tempo non è mera dimensione entro cui avvengono i fatti, ma l’arma stessa da disinnescare, la pistola puntata in faccia allo spettatore. La fabula è semplice e piuttosto classica: un agente senza nome – il Protagonista – è chiamato a sventare il piano terroristico di un potente e ricco criminale. In questa missione viene supportato da un agente incontrato a Mumbai e dalla moglie del supercattivo, tenuta in uno stato di semicattività dietro la minaccia di non rivedere più il figlio. Se ci si fermasse a questo livello, Tenet potrebbe essere considerato alla stregua di un qualunque James Bond. Ma è l’intreccio, la struttura e sostanza del mezzo cinematografico, che interessa maggiormente il regista britannico, rendendolo celebre per le sue ingegnose macchine narrative, in cui spesso le favolose architetture filmiche sembrano avere il sopravvento sulla rappresentazione dell’umano. E in Tenet questa tendenza è portata al limite, con il risultato spiazzante di assistere al vertiginoso pamphlet per immagini di un pensatore/regista che mette in scena i limiti della sua stessa tesi.  Se, per dirla alla Deleuze, il regista è un pensatore che non pensa per concetti, ma per immagini-movimento e immagini-tempo, Nolan è il più grande filosofo della sua generazione. Ma se in Inception seziona le dimensione del tempo per dare struttura all’inconscio, in Interstellar per ricordarci l’infinita distanza che può separarci dagli affetti, e in Dunkirk per misurare il valore del sacrificio, in Tenet non è chiaro quale significato si debba attribuire all’operazione. La pellicola forse con più testosterone dell’intera filmografia di Nolan – tra grandi esplosioni alla Michael Bay, inseguimenti d’auto, lunghe scazzottate in reverse – da un lato porta la novità assoluta di una scena palindroma, dall’altro mette all’angolo lo spettatore. Il respiratore che spesso deve indossare il protagonista in azione sembra la metafora di quello – virtuale – dello spettatore, in apnea, quasi soffocato da una sintassi visiva che porta la scena a saturazione (di parole, azione, suoni, stimoli) e induce quasi a uno stato confusionale. Quando sempre Deleuze nel suo L’immagine-movimento (1983) parla dell’inquadratura e la definisce un sistema chiuso che comprende tutto ciò che è presente nell’immagine – scene, personaggi, accessori – fa alcuni esempi di tipi di quadro: la profondità di campo di Wiler, l’indistinzione tra scena primaria e secondaria in Altman, la rarefazione in Hitchcock che illumina l’interno di un bicchiere di latte o i quadri svuotati di Antonioni e Ozu. Come si potrebbe qui collocare il quadro “moltiplicato” di Nolan, che priva lo spettatore di un punto di vista, ma gliene offre simultaneamente molteplici, sovrapposti? La sensazione finale è quella un po’ sgradevole di aver assistito a un esercizio in assenza di ossigeno, con attori che, seppur bravi – John David Washington e Robert Pattinson esemplari soldati, Elizabeth Debicki impeccabile e sofisticata in stile Bond girl e Kenneth Branagh sorprendente magnate russo violento e megalomane – si muovono sulla scena come pedine su percorsi tortuosi ma ben tracciati. Dalla sala si esce perplessi, ma con la voglia di accendere il dibattito, ricostruire i punti, alimentare nuovamente la comunità attorno al culto del cinematografo, la cui coscienza, ancora una volta secondo Deleuze, “non siamo noi spettatori, né l’eroe, è la macchina da presa, talvolta umana, tal altra inumana o sovrumana”. Per quanto ostico e distante – come l’apparizione in strada di una fuoriserie sigillata nella sua scocca opaca e i vetri oscurati – l’ultimo film di Nolan resta il totem perfetto a cui aggrapparsi per scongiurare l’apocalisse del cinema e la conseguente perdita di un immenso patrimonio culturale e umano.