Per l’ultimo colpo della rubrica #botta&risposta prima dell’estate Davide Castiglione dialoga con Alberto Cellotto, autore di Non essere (Vydia, 2019).


Caro Alberto,

La sospensione dell’insegnamento per le vacanze di Pasqua questa settimana mi ha dato modo di ritornare – assai più che la quarantena, che sia pure in modo più morbido che in Italia si è imposta anche qui in Lituania – sul tuo Non essere (Vydia 2019), che avevo finito di leggere poco tempo prima. Stamattina ho ascoltato la tua intervista su «Il posto delle parole» e mi sono riletto la bella recensione di Laura Di Corcia sulla Balena Bianca, lo stesso sito che ospita questa mia sorta di rubrica dialogica. Cerco pertanto di non sovrappormi a quella sua disanima, ma piuttosto di integrarla, nonché di riprendere alcuni dei punti emersi nella tua intervista, intrecciandoli con le mie note al libro.

Piccola premessa: avrò ancora meno timore del solito di essere “critico”, visto che tu stesso richiami l’assenza di una figura come il Raboni autore di stroncature che emerge da Meglio star zitti? (Mondadori, 2019). Ma avrò anche forse più difficoltà del solito a essere “critico”, perché la qualità della tua scrittura è altissima, sia a livello concettuale che ritmico nella gestione di un verso lungo, quasi prosastico ma musicalissimo – un paio di esempi quasi a caso: l’allitterazione in «di là lampi e aloni lontano», p. 20, dove tornano la /a/ e la /l/; e il verso «ma le invidio se virano lente verso un vento che sta chiuso» (p. 23), i cui cola sono tutti quadrisillabi eccetto il secondo, un senario, che in effetti rallenta il ritmo proprio in corrispondenza della parola “lente”. Scrittura che mi sembra proseguire e approfondire quel solco «tra il simbolista e l’espressionista» identificato da Roberto Batisti in merito alla tua prova poetica precedente, Traviso (Prufrock 2014). Quindi le mie riserve metteranno in evidenza più un mio gusto o un limite di lettore (gusto e limite sono poi due facce della stessa medaglia, se non la stessa identica cosa sotto due nomi diversi) che un’intrinseca debolezza dei testi, che non si dà praticamente mai.

Comincio, banalmente ma opportunamente, dal titolo polisenso: filosofico-parmenideo, certo, e che mi arriva come eticamente austero, non imperioso perché io lo legga all’imperativo (tu stesso, nell’intervista, ti distanzi da questa lettura) ma per la sua secchezza dichiarativa, quasi come se tu dicessi al lettore: preparati a una rassegna dell’assenza, della mancanza. Oppure, e siamo ancora prima che ad apertura di pagina, un’interpretazione ottativa dell’infinito suggerisce un desiderio di sparizione, un languore crepuscolare (lo stesso aggettivo, e a ragione, appare anche nella recensione di Laura Di Corcia). Questo viene poi in effetti confermato dai testi, dove a dominare è un io confessionale-obliquo, forse zanzottiano dello Zanzotto di Dietro il paesaggio e Vocativo, dove il referente del “tu” è spesso opaco e gli incontri con gli altri sono fugaci e sfocati, talvolta improntati a un breve incontro/scontro rivelatore (per esempio la vecchietta che con la sua foga ti «ributta tra gli infermi», p. 40). Nell’intervista emerge invece che questo “non essere” è un frammento linguistico incistato nella memoria scolastica, dalla massima di Parmenide («l’essere è, e non può non essere»). Compi dunque un’operazione di recupero memoriale, e in effetti il tema dell’infanzia come repertorio da cui attingere (o perfino da saccheggiare, in poesia) viene confermato nella tua intervista e da molti dei referenti a cui allude nei testi (per esempio, “le gare delle gocce” come gioco infantile, p. 51).

Qui verte la mia prima critica – che rivolgo in contemporanea a me stesso, perché ho a mia volta saccheggiato l’infanzia nella scrittura in versi: non esiste forse il rischio che questa aderenza affettiva al proprio privato manchi, talora, di esternalizzarsi a sufficienza per il lettore, e quindi di sradicarsi, di uscire compiutamente dal proprio guscio? Lo chiedo perché, al netto di poesie bellissime e intuizioni profonde, su cui mi soffermo presto, il grado di ermeticità e sfuggevolezza di non pochi testi (messo bene in risalto da Laura Di Corcia, che parla di “zone di inciampo”, che però lei accoglie più prontamente, praticandole lei stessa per vitalizzare la lingua) non mi permette di avere presa sugli stessi, di fissarli: si è davanti a un flusso in apparenza umile (per esempio il lessico fra agreste e archetipico) accelerato spesso da sottilissimi cortocircuiti sonoro-concettuali e accelerazioni analogiche che possono essere individuate e apprezzate a mente fredda sempre che sia abbiano la volontà e gli strumenti per farlo. Mi chiedo se questo modo di comporre che si sporge per poi ritrarsi di continuo sia una sorta di difesa psichica, la difesa che si ha nei confronti del proprio privato memoriale…

Alcuni esempi di questo procedere, dal primo testo che riporto per intero (le parti sottolineate sono quelle che poi commento):

Esistono i cavalli vicino ai fiumi. Esistono le strade e hanno
rispetto
, esistono i colli nei pollai nascosti tra le lamiere
di questo mattino diviso
: il sole, l’ultima nebbia accecante.
Esistono le onde i doganieri gli spettri i sogni che cambiano
pegno ai giorni. Gli specchi no, non esistono più. L’igiene
del mondo poteva essere un colore infranto
sullo spazio
sempre più sottile sempre più verosimile
fino a farci sbucare nel bianco.

Si ha anzitutto una personificazione delle strade che «hanno rispetto», con soppressione del complemento e quindi assolutizzazione intransitiva e liricizzante; una metafora genitiva («le lamiere | di questo mattino diviso») dove l’attributo “diviso” è probabilmente una derivazione da “le lamiere dividono il cielo” à “le lamiere dividono il mattino” à “le lamiere di questo mattino diviso”, con compressione sintagmatica; «l’igiene del mondo», nota perifrasi di Marinetti per “guerra”, e quindi metafora a un termine solo ma che richiama opportunamente il «vaccino» del bellissimo testo che segue. Tale «igiene del mondo» è a sua volta un «colore infranto” (metafora equativa), in particolare il “bianco” (un non-colore, dunque “colore infranto”, con richiamo forse tanto alla morte quanto alla pulizia dell’igiene). Insomma, una girandola densissima di metafore e analogie che fanno la gioia di un analista formalista o di un lettore fortemente sensorial-sinestetico, ma che fanno anche disperdere il senso, renderlo liquido e svaporato (come l’onnipresente “nebbia”, vera parola-chiave del libro) per un lettore più empirista come me.

Come ho mostrato con questo esempio generalizzabile a molti altri testi, tout se tient, la versificazione ha una logica formale e concettuale implacabile, fintamente nascosta appunto dall’umiltà del lessico agreste già menzionato (solo in questa poesia si hanno “cavalli”, “colli”, “pollai”, tutti in un plurale filosofico-astrattizzante, va detto) e di quello archetipico (“sole”, “onde”, “sogni”, “mondo”, “spazio”…) di ascendenza lirico-orfica, ma forse davvero motivato dall’anelito a una basilarità dell’esperienza quale si dà nell’infanzia. Un’analisi simile su tutti gli altri testi porterebbe a un trattato di trenta pagine; mi limito pertanto a campionare alcuni casi, e per converso a evidenziare successivamente i risultati per me più convincenti perché più centripetamente rappresi, più frontali, più ancorati a una situazione (e qui emergono appunto il mio gusto e il mio limite di “empirico-razionalista”).

Ecco alcune delle “zone d’inciampo”: uso intransitivo di “risolvo” («Risolvo e ho occhi sbiechi sul graffiato bianco», p. 30); il precipitato sinestetico-analogico in «la bocca arriverà da un paese di frutti | alti più vicino all’acino del sole» (p. 31); biforcazioni semantiche come «parli sopra un tuono», p. 35 (= parlare sopra, coprire la voce di; oppure parlare sopra, circa qualcosa); metafore genitive come «l’osso delle estati», p. 35 (= il cuore delle estati, ma con implicazioni mortuarie non lontane dall’idea dell’estate come svaporazione, morte) o «la finestra di ogni pioggia» (p. 39), leggibile tanto metonimicamente (la finestra su cui battevano tutte le piogge) quanto forse metaforicamente (l’apertura creata dalla pioggia?); «il mosso delle tane», dove alla metafora genitiva si aggiunge la nominalizzazione dell’aggettivo (ciò che nelle tane si muove?); collocazioni incongrue come «sventiamo la pancia | alla rabbia», dove “sventare” è probabilmente usato in luogo di “salvare” e troviamo anche quella preposizione “a” polisemica, marca ermetica famosamente individuata da Mengaldo.

Potrei andare avanti, ma il mio intento era appunto quello di offrire una esemplificazione, non uno spoglio. Il punto è questo: benché – e soprattutto dal New Criticism e dallo strutturalismo in poi – la poesia sia stata pensata e valorizzata soprattutto come operazione plurisensa, carica di semanticità, mi domando se oggi questa poetica della chiusura non appaia attardata, in difficoltà rispetto alle sfide che ci attendono, al “fare comunità” o almeno al pensarsi in maniera più esplicitamente relazionale. Occorre notare che non vorrei si scivolasse nella non-soluzione – che giustamente nell’intervista stigmatizzi – della poesia come atto di giornalismo ancorato a una tematica forte. Mi chiedo però se questa presa di distanza estetica non porti all’estremo opposto (io sono sempre per le mezze misure!), e se tu non potessi trarre forza da un’apertura maggiore, da una maggiore soppressione delle punte analogico-sinestetiche. In tal modo emergerebbero meglio quelle realtà strutturalmente forti che la tua poesia possiede, specialmente nell’abbozzare situazioni e nel trarne bellissimi affondi gnomici, per esempio «Non c’è amore in un incrocio», p. 19; «posso scendere | come un fosso verso il nulla che sono», p. 23; «oggi mancano le domande sugli alberi», p. 40; «potrei dirla in molti modi | l’attenzione, un disprezzo di me o questo gran calore | che ci chiede il viso», p. 66. Questi affondi, per essere efficaci come si rivelano essere, si appoggiano a una concezione di poesia come “discorso retorico”, con un filo che il lettore possa seguire e approfondire, senza distrazioni e sterzate laterali, verso dopo verso.

Concludo segnalando quindi i testi che mi sembrano muoversi in questa direzione, e che curiosamente formano una sequenza compatta: quello sul vaccino a p. 14; quello sulla capra che non viene creduta come vera a p. 15; il testo a p. 16, che inizia quasi cronachisticamente infilando poi tuttavia due complementi oggetto retti dallo stesso verbo, con effetti simili a quelli dello zeugma («Il filo tra la casa vecchia e quella abitata portava | corrente e di notte sempre un topo al terrazzo»); quello a p. 17, dove il destinatario s’incarna maggiormente per via del discorso diretto che gli viene attribuito tramite il corsivato («prima di nascere eri un cavalluccio marino», p. 17); quelli a p. 43, 44, 47, 51, 52 e soprattutto a p. 67, in assoluto uno dei più belli e relazionali e che richiederebbe un’analisi separata («Appena nata senza una madre, dentro | a uno spazio che si cancella al risveglio respiri, stai bene»). Oppure quello a p. 18, che desidero riportare per intero sigillando così questa nota, dove l’inermità dell’io che ripercorre una sorta di equivoco linguistico è totale, come totale è la concentrazione sul nodo sentimentale che preme sul petto:

Quello vecchio lo bruciamo noi o lo tiene per ricordo? Mi ha chiesto
senza pensare stamattina l’addetto in questura al rilascio
di un passaporto nuovo. Senza pensare ho detto lo tengo
ma dire per ricordo non potevo. Non penso però
lo riaprirò, non credo sfogliare timbri datati di paesi
sia ritrovare viaggi, passaggi o coincidenze perse magari.
Dovrei bruciare io, con tutto quello che per niente tengo
tengo e tengo per pensarmi più lento a perire.

Vilnius, 8/04/20


Caro Davide,

grazie molte per la lettura e per queste righe. È strano questo modo dialogico di parlare di libri, di un libro che poi è quello che uno ha scritto. Uno, ecco, lasciamolo in corsivo intanto. Non mi era mai capitato, se non in privato, e con ritrosia. La ritrosia non coincide con un sentimento di superiorità o sfiducia nel dialogo. La ritrosia è ribadire questo: ho scritto questo libro e ci sono due opzioni, se vi va di valutarle: leggerlo o ignorarlo (c’è la terza opzione, maggioritaria, che prevede che queste due opzioni non si diano nemmeno). Lo stesso per un quadro o altro: potete considerarlo o ignorarlo. Semplice, almeno in apparenza.

Vedo come viene questo confronto, ma andrò di necessità a spaglio, almeno inizialmente. Sono discorsi fatti e rifatti, ma come non avvicinare con sommo imbarazzo un discorso che riguardi quanto uno ha scritto? Il rischio di andare nel giornalistico, nella “comunicazione” o di infilarsi in qualche tema sociale è sempre latente, così come quello più scontato e irritante dell’autoesegesi. E da quando la letteratura si è imbastardita coi fantomatici temi sociali ha solo perso in malo modo. Di lì alla paralisi il passo è breve, minimo. Continuo a pensare la poesia come spazio antitetico a ciò che è diventata la “comunicazione” o l’agenda setting dei media, prima di tutto dal punto di vista linguistico.

Differentemente da altri libri, Non essere non è un ciclo di scrittura concentrato nel tempo e nello spazio, ma raduna diversi anni di scritture avvenute in più posti e riprese. Traviso che citi, pubblicato da Prufrock spa nel 2014, è un ciclo di scrittura concentrato sorto da un’idea di parola dipinta o di versificazione dipinta, uno schema autoinflitto. Il libretto Pechino che ho stampato in proprio in 40 copie per amici l’estate scorsa è un ciclo di scrittura notturna (poche ore di scrittura, in dormiveglia, a qualche alto piano di un hotel cinese). Non essere no e si vede, e almeno questo è chiaro e lampante. Nessun mistero. È una raccolta, con tutti i limiti enormi che le raccolte di poesia spesso presentano e che anche tu via via fai affiorare (e inoltre: si poteva sfrondare un po’ di più? togliere qualche testo? organizzare diversamente le sue sezioni che sono invece date da una pagina bianca?). L’opacità o l’ermeticità tuttavia mi sono sempre parse un finto problema in poesia, non perché abbia una concezione oracolare, orfica, esoterica o iniziatica di questa, ma perché resto ancorato a una idea di lode nella scrittura e il percorso che il lodare intraprende non può obbedire a degli schemi certi stabiliti a monte che instradino verso un’apertura nei confronti del lettore troppo sicura di sé. Scrivo (in versi) se avverto un movimento di lode, anche quando scrivo del passaporto scaduto. Tutto qui.

Rispetto alla tua analisi, procedo in modo puntiforme, periferico, prima di avvicinare quello che percepisco come il nucleo più importante del tuo intervento:

  • sulla nebbia: è una delle prime cose che mi ha scritto anche Francesco Targhetta, da lettore precoce;
  • sulla prima sezione più compatta: è qualcosa che mi faceva notare tra le righe Maria Anna Mariani, che di questo libro ha scritto la prefazione;
  • sul titolo: oltre a Parmenide e allo sbrego percepito al solo pronunciare “non essere” tra i banchi di scuola, ha senso richiamare la sensazione di male procurata dal percepire chiaramente il non essere un animale che avevo vicino tra quelli che popolavano l’infanzia, oppure anche mio fratello, durante un gioco.

Ultimamente ho trovato conforto nell’impiego di questo titolo rileggendo alcune pagine di Paul De Man, i cui libri sono difficilmente reperibili anche nelle biblioteche ormai, dove ci si riferisce all’allegoria come vuoto che significa in modo preciso il non essere di ciò che essa rappresenta.

Infine credo che anche il rilievo sul “vuoto” fatto da Matteo Giancotti nella sua recensione sia utile.

Colgo questo confronto per affermare che chi ha scritto potrà leggere la propria opera, certamente, e sarà un portarla a spasso, come fanno i cantanti portando in giro il nuovo disco, ma secondo me va riconosciuta l’impossibilità di leggere il proprio lavoro, l’impossibilità di un futuro assieme di scrittore e opera congiunti. Tutto ciò che i due hanno in comune precede l’opera, direi pure l’“opera chiusa”, per ribaltare un celebre titolo di Umberto Eco molto in voga dagli anni Sessanta. Non so se questo sia solo un modo facile che metto in tavola per fuggire il cattivo rapporto che ho con le letture pubbliche (apriremmo un capitolo troppo esteso tirandole in ballo), ma se c’è performance, allora bisogna ricercarla anche nella scrittura e non solo nell’esecuzione orale postuma. Questo dato, secondo me, spesso sbiadisce o si perde. Intravedere la performance solo nell’oralità che segue il libro è un errore di prospettiva gigante. Semmai è il caso di indagare l’oralità che precede la scrittura. Solamente poi possiamo fare tutti i discorsi che vogliamo di testo scritto come partitura, di esecuzione orale ecc.

Vengo infine al nucleo – ciò che tu chiami il punto, e qui mi fermerò. Polisemia e inciampi semantici o sintattici, valorizzati da New Criticism e strutturalismo tra altri (ma da tutti quelli che hanno scritto poesie ben prima che questi signori le studiassero a fondo), sono caratteristiche spesso riconducibili a impalcature di scrittura solipsistiche, se non proprio autistiche. Una scrittura solipsistica non è però necessariamente meno relazionale o meno attenta al “fare comunità” di una scrittura che assume subito questa postura, non senza astuzia, il più delle volte. Insomma, con queste categorie non ci gioco. Per richiamare le parole di un poeta conterraneo, Antonio Turolo, non c’è mai spazio per la letteratura come gioco. Non so nemmeno se sia corretto parlare di dettato per la poesia, fra l’altro, sono sospettoso e mi rivolto ogni volta che trovo la parola “dettato”. Per me restano maggiori le incertezze delle certezze, e più passano gli anni più è così. Di fronte alle incertezze capita che la poesia proceda per divieti o passaggi obbligati che si avvertono come necessari, ma non programmatici. Capisco che la critica fatichi a coltivare il dubbio scorticante o il movimento (l’abbrivio) che prende le mosse dall’incertezza, ma è così. Infine: abbiamo visto, proprio di recente, quali siano gli esiti dell’instant poetry paragiornalistica e fortemente tematizzata che è girata in rete a ridosso del blocco per il virus Covid-19. Li terrei bene a mente, sempre, quando pensiamo al “fare comunità”, così come terrei presente, oltre agli esiti istantanei di Gualtieri o di Rondoni, anche certi esiti “comunitari” di Franco Arminio. Davvero ci pare una direzione quella? Importante, in quello che scrivi, è il pensarsi in maniera più esplicitamente relazionale. Mi sembra che non ci sia nulla da aggiungere a questo, altrimenti non penseremmo nemmeno (credo che il verificarsi di un pensiero simbolico, centinaia di migliaia di anni fa, sia riconducibile a quest’aspetto di relazione e comunque non è detto che sia una prerogativa umana). In poche parole, la polisemia non è in conflitto con la relazionalità o l’apertura di un testo nei confronti del lettore. E proprio grazie alla relazione che tu hai tirato in ballo, tornerei al titolo, al non essere un cane, una mucca, una gallina o mio fratello, quel non essere percepito nitidamente come dolore a partire dall’infanzia.

Tornerò, necessariamente da solo, sulla soppressione delle punte analogico-sinestetiche di cui scrivi. Grazie di questa obiezione, tra le altre, e dell’utile confronto nel suo complesso. Il primo periodo di questa risposta venuta lunga poteva bastare, ma capisco che sarebbe stato come rispondere soltanto “sì” a una persona che ti chiede “sai che ora è?”.

Un caro saluto.

Maserada sul Piave, aprile 2020


Caro Alberto,

è abbastanza inconsueto per me voler aggiungere una coda allo scambio; forse perché spesso la risposta dell’autore o autrice in questione verte sullo svelamento di intenzioni estetiche, se non addirittura nella difesa di una poetica o nel chiarimento di alcuni malintesi. E quindi, spesso il discorso, magari pur ricchissimo di per sé, sembra esaurirsi lì.

Nella tua replica mi hanno invece colpito le distanze prese dall’autoesegesi, l’assenza di ogni attaccamento difensivo nei confronti dei testi, il fatto che quanto accade fra l’autore e quanto ha scritto cessi di riguardarlo a stesura ultimata («l’impossibilità di un futuro assieme di scrittore e opera congiunti»). Forse più di tutto mi hanno colpito la forza e l’inermità di un concetto come quello di scrittura in “lode”, e quindi in un certo senso giustificata nel suo semplice darsi, nel suo rispondere alle sollecitazioni del mondo. Rispetto a tutto questo, la critica – perlomeno quella non d’arte, quella che cerco di praticare – deve avere in sé una certa mancanza d’empatia, prediligendo il punto d’arrivo, oggettivamente osservabile, rispetto al processo in fieri (o all’incubazione sentimentale di un testo, persino) sul quale si può solo congetturare, fingendo in tal modo una fraternità nei confronti dell’autore che raramente può darsi. Se dal tuo Non essere una poetica emerge comunque, tale si rivela solo a posteriori, negli occhi di chi legge ex post.

Il “fare comunità” e la “relazionalità” a cui mi riferivo io non sono certo quelle di molti testi recenti di Arminio, o del famigerato testo sul Covid-19 della Gualtieri (fra parentesi, un saggio sui testi finto-civili scaturiti dalle tragedie sarebbe illuminante, non a livello di estetica ma di strategie bassamente retoriche vòlte a una certa auto-rappresentazione degli scriventi; sono anni che coltivo la volontà di scrivere su questo argomento!). Lì si aggira semplicemente l’ostacolo, si riduce il lettore a ricevente di un messaggio ruffiano e impoverito. Sono dunque totalmente d’accordo con te sulla necessità di evitare questa modalità dello scrivere. In realtà, quando parlavo di relazionalità e accoglienza avevo in mente esempi diversi, come quello di Roberto Minardi, piuttosto estroverso e frontale ma (credo) senza le semplificazioni e i facili appelli di cui sopra, o perfino di Guido Mazzoni, che nel proporre una tesi forte e complessa, ancorché eticamente respingente, chiama il lettore a un corpo a corpo con le idee e la “povertà” della vita occidentale.

Ho accennato all’estroversione, per me importante perché per moltissimi anni mi sono sentito introverso, solipsista (quanto bene hanno fatto gli estroversi Williams e Fortini alla scrittura, pure incistata nel dubbio e nell’incertezza, del mio amato Sereni?); e tu mi conforti usando proprio una parola come “solipsismo” e perfino “autismo”, legandola a certe procedure compositive interne ai testi (e quindi che si prestano bene ad analisi strutturaliste). Hai aggiunto però, senza elaborare l’idea, che anche queste possono essere relazionali. Il solipsista parla solo ad altri solipsisti potenziali, oppure può educare l’epico-estroverso a un ascolto più sfumato, più incarnato? Questo sarebbe un aspetto da approfondire, ma non credo sia questo il luogo per farlo. Lascio allora qui sospesa la questione come desideratum per una pagina – della critica, del pensiero, della biografia – ancora tutta da scrivere.

Vilnius 10/04/20

@Immagine: Alberto Cellotto, Serie 10 – Giorni / Venerdì, mani (71×34, smalto acrilico rifiuti terre elastico pietra vernice su cartone ondulato).