Il Saggiatore ha pubblicato la raccolta di racconti brevi di László Darvasi, ungherese classe 1962, uno dei maggiori narratori dell’Est Europa, intitolata emblematicamente Mattina d’inverno con cadavere: il libro impose subito all’attenzione del lettore italiano una materia narrativa oscura e incandescente, debitrice tanto delle idee di Kafka che della letteratura di altri maestri dell’Est Europa come Gombrowicz o Krasznahorkai. Il libro era diviso in tre sezioni, “Dio”, “Patria” e “Famiglia”, e attraverso queste narrazioni sconnesse Darvasi demoliva l’integrità di tali simboli conservatori mostrando le ferite che si nascondono dietro le più rassicuranti definizioni di ordine. In occasione dell’uscita del libro ebbi modo di fare qualche domanda a Darvasi e quando gli chiesi dove nasceva questo desiderio di raschiare l’apparente lucentezza di questi tre pilastri, mi rispose sottolineando come queste schegge fossero racconti «ungheresi», avvenimenti che si svolgevano nella sua patria: «in queste storie volevo raccontare come dietro alla sacra triade conservatrice, proclamata valore assoluto e basilare, si nascondano drammi umani, problemi esistenziali, situazioni inimmaginabili». Erano sempre circostanze drammatiche e complesse, segno di una profonda sensibilità dello scrittore che investiva sia la sua scrittura che la sua visione del mondo, oltre che la sua esistenza stessa.

Arriva adesso in libreria un altro romanzo di Darvasi, sempre pubblicato da Il Saggiatore e tradotto, mirabilmente come l’altro, da Dóra Várnai, La leggenda dei giocolieri di lacrime, un libro dal titolo altamente evocativo, un libro lungo e non privo di complessità, ma in grado di garantire al lettore, terminata la lettura, un viaggio disorientato tra le pieghe di uno dei testi più importanti della nostra età contemporanea. Aver letto Mattino d’inverno con cadavere può certo essere un aiuto, perché le atmosfere che Darvasi dipinge in questo romanzo hanno molto in comune con i brevi bozzetti del libro precedente e così anche lo stile che qui trova un suo più completo e complesso dispiegamento. Se infatti già le vicende di Mattino d’inverno con cadavere erano ambientate tra le terre ungheresi (la capitale Budapest che prendeva sulla pagina di Darvasi la stessa coloritura grigia che ne contraddistingue alcuni ambienti, la triste e piccola cittadina di Torokszentmiklos o ancora Szaged che si affaccia sul fiume Tibisco), lo stesso accade con La leggenda dei giocolieri di lacrime che però segna uno scarto temporale notevole: le vicende di questo romanzo sono infatti ambientate negli anni in cui l’Ungheria fu occupata dagli ottomani, quindi dalla metà del Cinquecento al Settecento, con punte geografiche che toccano anche il centro dell’Europa e città come Venezia e Vienna. Eppure quest’ambientazione, che fa del libro di Darvasi un ampio e dettagliato romanzo storico, permette comunque al lettore di non avvertire come lontane le vicende narrate, che hanno a che fare con uno strano carro con una lacrima sul tendone e con i personaggi che vi gravitano intorno, cinque giocolieri, saltimbanchi, ognuno portatore di una diversa identità, ungherese, ebraica, croata, serba e turca, ma uniti da una stessa funzione. «Sono in cinque, dunque. Sono coloro che viaggiano su e giù lungo le strade del tempo. L’inverno passa il loro carro alla primavera e l’autunno e lo prende e lo consegna all’estate, finché l’inverno deve pregare l’autunno per averlo nuovamente. Si dice che il loro pianto è un’unica storia, inizio e fine, senza nemmeno il tempo di una pausa sufficiente per sbattere le ciglia»: è un tempo eterno quello di questi giocolieri e del loro carro, che immediatamente si slaccia dall’hic et nunc della narrazione per farsi etereo e inafferrabile, perché è il loro stesso viaggio che crea il tempo e «non esiste località dove la terra non sia bagnata dalle loro lacrime». Questi cinque uomini sono infatti «artisti di lacrime», come si scopre sin dal primo incontro con il tintore che dipingerà il loro carro quando, improvvisamente, in cinque inizieranno a piangere meraviglie: «Uno di loro piange sangue, l’altro miele, il terzo sassi neri, il quarto piange ghiaccio, mentre al quinto scendono dagli occhi minuscole schegge di vetro». Il romanzo di Darvasi sembra essere giocato proprio sulla dittatura del tempo e su come questi giocolieri provino a plasmarne i confini e la durata: anche se investiti di un potere misterioso e quasi sovrumano, alla fine del libro anche questi personaggi devono arrendersi allo scorrere inesorabili delle stagioni, che qui significativamente si concretizzano nei ricorrenti massacri, riconoscendo un fallimento che si ripercuote sulle fragili esistenze degli uomini. Le poche parole di una comparsa verso la fine della storia, «volevi dirmi che siamo arrivati tardi… Che non arriviamo mai in tempo», possono racchiudere allora tutto il significato del libro, nonché le motivazioni che portano anche questi giocolieri a cambiare la loro natura: un tempo disinteressato alle esistenze degli uomini, che non si coordina con la necessità di salvare delle vite e che getta questi giocolieri in un limbo esistenziale nel quale non riescono più a comprendere né la loro identità né, se esiste, il loro compito. Ecco perché provare a spiegare cosa questi giocolieri facciano è impresa complessa, in quanto la loro esistenza così sottile e fragile non permette di provare a dare una spiegazione razionale a qualcosa che sembra non avere la concretezza degli artifici del mondo. Certo si può dire che il loro viaggio è diretto verso luoghi dove esistono e permangono tracce di sofferenza e si fa portatore, forse involontario, della stessa materia violenta e malefica che governa un mondo in rovina («Ciò in cui io credo non è l’esistenza dei giocolieri di lacrime o la loro non esistenza. E poca importanza ha se sono in tre o in sei. Io credo nella loro tristezza, che esiste esattamente come esiste la vita o la morte»). Questi giocolieri hanno allora un ruolo numinoso, che fa di loro degli uomini “sacri” nel senso più antico del termine, uomini cioè che spettano solo al giudizio e al volere di Dio, intoccabili eppure concreti. Ma sono uomini che comunque vivono sulla terra e lì si muovono, uomini che si sono affacciati sull’inconoscibile e che portano su di loro le stigmate di quell’incontro: è grazie a questo che possono vedere oltre la realtà delle cose custodendo il segreto inconfessabile che muove la vita umana. Sembra però che questo segreto abbia a che fare soprattutto con la sofferenza e il dolore perché il carro degli artisti è spesso premonitore di sventure e massacri, torture e morti: ma sono comunque i massacri che affollano gli anni presi in esame da Darvasi ed è questo che allora genera una riflessione ancora più profonda, ovvero provare a comprendere il grado di violenza che infesta la Storia, un altro elemento che Darvasi ha investigato proficuamente e senza rabbonirne alcun carattere nei racconti di Mattino d’inverno con cadavere. Sta in questa domanda l’aspetto del libro che non può non portare il lettore contemporaneo a un’interrogazione decisiva che esula dall’ambientazione del romanzo, riflettendo cioè su come le violenze e i soprusi nella storia si replichino nel corso dei secoli, cambiando forse la forma ma non la sostanza. Se già nelle varie storie che popolavano Mattino d’inverno con cadavere il filo rosso che sembrava legare i vari episodi era la morte, qui il legame tra i molteplici avvenimenti che scorrono in queste seicento pagine è sempre lo stesso, la morte con le sue diramazioni silenziose che si infilano crudelmente nelle pieghe di ogni esistenza. Un romanzo scuro e senza spiragli, la grande narrazione di una storia che non finisce mai, come dimostra anche il finale che dà al romanzo un andamento circolare e infinito, quella della sofferenza che gli uomini procurano agli altri uomini e della lacrima e il dolore come unica possibile reazione.


László Darvasi, La leggenda dei giocolieri in lacrime, tr. it. di Dóra Várnai, Il Saggiatore, Milano 2020, 656 pp., € 32,00.