A tutti gli scrittori di una certa fama capita, prima o dopo, di trasformarsi in personaggi, se non nelle storie di qualcun altro, almeno nelle fantasie dei lettori. Le biografie e i biopic di romanzieri e poeti sono un genere a sé, e non sempre di qualità, perché la tendenza all’agiografia o all’aneddoto pare spesso prendere il sopravvento sull’esigenza di interpretare un’opera o una parabola artistica. Questo per fortuna non succede in Shirley, il nuovo film di Josephine Decker su Shirley Jackson, appena uscito su Hulu; e non succede anche perché Shirley non è un biopic, anche se ci somiglia, ma l’adattamento del romanzo omonimo di Susan Scarf Merrell (2014).

Shirley Jackson è una scrittrice il cui successo non ha dato cenno di diminuire dalla sua morte nel 1965. Autrice di sei romanzi e oltre duecento racconti, Jackson è famosa soprattutto per The Haunting of Hill House (1959, acclamato universalmente come una delle migliori storie di fantasmi dello scorso secolo) e We Have Always Lived in the Castle (1962). Il suo racconto The Lottery (testo fondamentale di quel folk horror che sta vedendo un consistente revival in tempi recenti), pubblicato sul New Yorker il 26 giugno 1948, suscitò una serie di proteste indignate e la curiosità spaventata di molti lettori che l’avevano presa per un resoconto di fatti reali (qualsiasi accenno alla trama sarebbe uno spoiler imperdonabile, ma per fortuna il racconto si legge in fretta. In tempi più recenti, la
popolarità di Jackson è sottolineata dalla fortuna dell’adattamento di The Haunting of Hill House in una serie Netflix firmata da Mike Flanagan.
Il lavoro di Jackson, per qualche ragione, è relativamente poco tradotto in Italia. È Adelphi ad avere il monopolio su questa autrice, ma la scelta del materiale da tradurre è quantomeno curiosa: L’incubo di Hill House e Abbiamo sempre vissuto nel castello, naturalmente, e di recente anche A Bird’s Nest (inspiegabilmente tradotto come Lizzie); ma solo pochi sparuti racconti dell’enorme e straordinaria produzione di Jackson, mentre
mancano invece opere capitali come The Sundial e Hangsaman (cui vengono preferiti gli inediti di Paranoia).

Oltre a essere stata una grande scrittrice, Jackson è stata anche una figura tormentata, divisa tra il suo ruolo pubblico di madre e moglie di un professore (Stanley Hyman, docente universitario piuttosto in vista nella piccola città-campus di Bennington) e quello di scrittrice. Per gran parte della sua vita Jackson soffrì di periodi di depressione e apatia,
insieme a problemi di abuso di alcol e farmaci e una crescente agorafobia, che la portarono, negli ultimi anni, a non uscire di casa per settimane intere, fino a una morte prematura a soli quarantotto anni. Quella di Jackson è stata davvero “a rather haunted life”, per citare il titolo della splendida biografia di Ruth Franklin (2017). Non è un caso allora che gran parte delle storie di Shirley Jackson ruoti intorno alla famiglia, ai riti sociali, alla casa, al college come a strutture chiuse, claustrofobiche. La
casa, nello specifico, diviene spesso letteralmente una prigione per i personaggi, da The Sundial (1958), in cui una famiglia si barrica in casa aspettando la fine del mondo, a We Have Always Lived in the Castle, in cui una coppia di sorelle adolescenti vive nella dimora di famiglia quasi isolata dal mondo esterno. Jackson viene spesso definita una scrittrice
gotica o dell’orrore
(o peggio, weird), e questo non è inesatto, ma va rilevato che la fonte di inquietudine, nelle sue storie, raramente è da riferirsi a un elemento apertamente soprannaturale, quanto alle dinamiche morbose che prendono piede tra conoscenti, familiari, amici. Non è un caso, naturalmente, che Shirley sia ambientato quasi del tutto
negli interni della casa di Jackson, che la regia trasfigura, da villetta familiare anni Cinquanta, in uno spazio gotico e minaccioso.

È da questa figura problematica che il film prende le mosse, trasformandola in un personaggio inquieta e inquietante che si ispira tanto alla vera Shirley Jackson, quando alle dicerie che giravano su di lei. Il film introduce accanto a Jackson e a Hyman due personaggi di invenzione – Fred, assistente di Hyman al Bennington College, e Rose, sua moglie, una studentessa. I due diventano inquilini di Shirley e Stanley, e mentre Rose
vorrebbe sfruttare l’occasione per approfondire i suoi studi, le vengono assegnate le faccende di casa e la cucina, e dunque la compagnia forzata della reclusa Shirley, che sta lavorando a un nuovo romanzo, Hangsaman (1951). Il romanzo (uno dei più belli di Jackson, una delicatissima storia di coming-of-age che racconta il passaggio di una ragazza da una famiglia opprimente al college, venato da un’inquietudine fiabesca ma
anche molto concreta) si ispira alla recente sparizione di una ragazza locale, che nell’immaginazione di Shirley comincia a sovrapporsi a Rose. La giovane coppia è travolta dalle continue schermaglie domestiche di Shirley e Stanley, e Rose è insieme affascinata e terrorizzata da questa donna all’apparenza scontrosa e crudele, ma piena di talento.
Un dramma d’interni, il film si regge interamente sui rapporti tra gli attori. Odessa Young, perennemente insicura e spaventata fino alla presa di coscienza finale, è perfetta nel ruolo di Rose, mentre Michael Stuhlbarg offre un Hyman esuberante e livoroso. Ma è soprattutto l’interpretazione di Elizabeth Moss a impressionare, quasi a spaventare (Moss che peraltro quest’anno ha dato eccezionale prova di sé anche nello splendido The Invisible Man di Leigh Whannell): scarmigliata, malvestita, torva, gonfia, pesante (“She gave an impression of substantiality”, scrive la Merrell nel romanzo), le dita perennemente sporche di inchiostro e il ghigno diabolico, la Shirley Jackson di Moss è una figura greve e spaventosa, animata dalla cupa energia di un animale in gabbia. Non c’è niente in lei della simpatica genialità che si vorrebbe attribuire all’artista, della sua allegra sregolatezza: Shirley fuma e beve in continuazione, risponde male, lancia oggetti ai suoi interlocutori, li offende. La sua incapacità di prendersi cura della casa non suscita l’ilarità benevola dei suoi ospiti, ma semmai li allarma.
Sono le interazioni tra gli attori, però, oltre alle singole interpretazioni, a rendere grande questo film. Anzitutto quella tra Moss e Stuhlbarg: apatica o irosa lei, eccessivamente amichevole lui, ma entrambi guardinghi e sospettosi, Shirley e Stanley si aggirano per casa come se fossero pronti in ogni momento a tendere un agguato ai loro ospiti (come effettivamente avviene quando Stanley, a tavola, demolisce la tesi di dottorato di Fred). La relazione che Decker mette in scena non è molto diversa da quella che emerge dalle biografia di Jackson – un rapporto di stima e di affetto, ma anche di co-dipendenza. Se il marito è, all’inizio del loro matrimonio, il più famoso e di successo della coppia, la sua fama come critico (e i suoi guadagni) viene presto surclassata da quella della moglie. Nel film, Stanley appare ambiguamente protettivo nei confronti di Shirley, cercando di scuoterla dalle parentesi di depressione e apatia in cui piomba; e allo stesso modo è ambiguo il suo rapporto con la scrittura di lei, perché ora la sprona e se ne dice fiero, ora scoraggia Shirley dall’intraprendere la scrittura di un romanzo, giudicandola più adatta ai racconti. Ancora, la coppia resta insieme nonostante i continui tradimenti di lui, nascosti in bella vista (donne che telefonano a casa, approcci non dissimulati ai party di facoltà). Per rafforzare e rendere ancora più isolato il legame tra Jackson e Hymer, Decker ha deciso di eliminare completamente i quattro figli della coppia (che pure nel romanzo erano presenti). È una scelta molto marcata, che però non deve fare dimenticare che oltre a essere una delle grandi scrittrici del Novecento Shirley era (come molte donne del suo tempo e anche del nostro) una madre a tempo pieno, e che a dispetto della mole di lavoro a cui si sottoponeva era tutto fuorché una madre disfunzionale, come testimoniano i divertenti libri sulla sua vita familiare Life Among the Savages e Raising Demons.

L’omissione di Decker è significativa, perché rafforza gli aspetti antisociali e minacciosi del carattere di Shirley, ma non corrisponde completamente a verità. L’altro rapporto è quello tra Shirley e Rose – e, coerentemente con l’opera di Jackson, gran parte del film è dedicato alla difficoltà di una giovane donna di trovare il proprio posto nel mondo senza farsi ingabbiare in schemi precostruiti. Shirley è sempre ambigua con Rose, alternando gentilezze e bullismo, ma la sua vicinanza (il suo esempio insieme
mostruoso, illuminante e seducente) aiuta la ragazza a emanciparsi dal ruolo di moglie docile e sottomessa a cui si andava avviando. Si potrebbe quasi dire che il film mette in scena il rapporto tra i romanzi di Jackson e una sua lettrice: che l’incontro con la persona fisica dell’autrice altro non sia che un modo per rendere l’effetto che la lettura di Jackson può avere sul suo pubblico in termini di autocoscienza. La strana amicizia tra Shirley e Rose è venata, in maniera suggestiva ma senza troppa insistenza, di attrazione erotica e di stregoneria: in una delle scene più belle del film Shirley, durante una gita nel bosco, dà da mangiare a Rose un pezzo di fungo, mettendoglielo in bocca, in quella che ricorda una versione stregonesca dell’eucarestia. Jackson, del resto, amava dire in giro di essere una strega, e forse ci credeva davvero. È un po’ ingiusto fare paragoni tra due prodotti così diversi, ma se confrontiamo Shirley con un altro adattamento jacksoniano di enorme successo, la serie tv The Haunting of Hill House di Mike Flanagan, è difficile non notare quanto radicale sia la differenza di interpretazione. Flanagan, regista tecnicamente impeccabile, è riuscito a trasformare l’esile trama di Hill House in una mini-serie di dieci episodi, insistendo proprio su quell’elemento (la famiglia) che nel romanzo di Jackson è presente solo per sottrazione, come fonte dei problemi (dell’haunting) di Eleanor; allo stesso tempo, Flanagan corona la
sua serie di un finale zuccheroso e consolatorio, dove la famiglia viene liberata da quel carico eminentemente negativo che ha invece nell’opera di Jackson. In Shirley non abbiamo niente di tutto questo: alla fine della visione, viene da chiedersi se ci sia, in tutto il film, un solo personaggio positivo. Se Shirley e Stanley non abbandonano quella prigione che è la loro casa è perché a essere una prigione, in fondo, sono loro stessi, e il loro rapporto.