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Scrivo o son scritto? Un dialogo impossibile tra Cărtărescu e Bolaño

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Di che cosa parliamo quando parliamo di scrittura, o meglio, in che cosa consiste l’atto di scrivere?

Applicando il metodo aristotelico, secondo cui, quando non sai qualcosa, devi chiedere ai più autorevoli (da non confondere coi più autoritari), interpelliamo, attraverso alcune loro interviste, due penne infallibili della letteratura contemporanea, Mircea Cărtărescu e Roberto Bolaño, autori di opere massimaliste, come Abbacinante, I detective selvaggi e 2666, vere e proprie cattedrali semantiche, capolavori per il nuovo millennio.

Lo scrittore rumeno, intervistato qualche anno fa da Vanni Santoni, sostiene che (parafrasando) la vera scrittura letteraria non è un mestiere, come fare una ciabatta, ma un’esperienza conoscitiva, uno scavo interiore, autoanalitico, di matrice junghiana, e al contempo un viaggio cosmico e multidisciplinare, dove biologia, chimica, fisica, filosofia si mescolano, in una sorta di sintesi mistica, grazie alla quale, per un attimo, uno indossa la stessa montatura di occhiali di dio. Di fronte a questa cosmogonia in corpo 11, lo scrittore non si accorge pressoché di nulla, non scrive ma è scritto, come il poeta platonico o la macchina attoriale Carmelo Bene.

Di contro, lo scrittore cileno Bolaño, nella sua ultima intervista a «Playboy» edizione messicana, ammette che sì certo, per carità, scrivere è una cosa molto divertente, ma a dire il vero ci sono cose ancora più divertenti, come rapinare una banca, dirigere un film, lanciarsi nella carriera turbosessuale del gigolò, o ancora essere un investigatore della omicidi, uno capace di tornare, di notte, sulla scena del delitto, senza aver paura dei fantasmi. E quanto all’atto in sé, Bolaño tende a non teologizzare: scrivere è scrivere: writing is writing is writing, per dirla con la Stein. Per lui l’aspetto più importante, soprattutto nei Detective, è sempre stato far parlare un messicano come un messicano e un cileno come un cileno, insomma imbroccare gli idiomi.

E lasciando la parola a loro, in un montaggio alla Nanni Balestrini delle rispettive interviste (quella a Cărtărescu uscita per Voland, in coda a L’ala sinistra, e quelle a Bolaño uscite per Sur col titolo L’ultima intervista), sembra che, appena parlano di scrittura, non siano mai d’accordo su niente, ma mai nemmeno una volta per sbaglio. Sono come due scolari in competizione: il primo metodico, superlavoratore, coi capelli corvini e ben pettinati, un po’ cocco della maestra, femmineo e bullizzato, come in Travesti (sempre Voland, 2016), e il secondo ripetente ed extracomunitario, sedicente poeta infrarealista, coi ricci scapigliati e occhialato male, che spaccia erba per permettersi i libri sconci, e quando ha finito i soldi passa direttamente a rubarli, perché l’arte è di tutti, come il mare.

 

Cărtărescu dice: «Anche se scrivo romanzi, per il modo in cui mi approccio al mio mondo interiore rimango comunque un poeta». E Bolaño risponde: «Più che scrivere poesie a me interessava vivere da poeta. Eravamo poveri ma lussuriosi. Volevamo vivere da poeti senza scrivere».

Cărtărescu dice: «Per me la visione, la letteratura, il libro stesso, sono questioni di vita o di morte». E Bolaño risponde: «Rido di certi atteggiamenti solenni. A dire il vero non credo molto nella scrittura, a partire dalla mia».

E ancora Cărtărescu: «Pynchon, a causa della ben nota “ironia postmoderna”, non diventa mai metafisico fino in fondo, mentre io credo nei valori “duri”, non scherzo mai». E ancora Bolaño: «Posso fare il buffone per i miei lettori, se mi gira, ma mai per i potenti. Sembra la dichiarazione di una puttana onesta. Ma insomma è così».

E Cărtărescu: «Scrivere libri per me è un modo per conoscermi, un’esplorazione interiore». Bolaño: «Il mio libro un autoritratto? Poco o niente. Un autoritratto richiede un certo tipo di ego, la propensione a guardarti e riguardarti, un interesse esplicito per ciò che sei o sei stato».

 

Sembra davvero che facciano due mestieri diversi, come un fioraio e un tornitore, non potrebbero essere più lontani, eppure dobbiamo starli per forza a sentire, perché sono entrambi giganti, entrambi geni.

Perché questa dicotomia?

È come se ci fossero due modi antitetici di concepire l’atto scrittorio, di cui Cărtărescu e Bolaño sono i capofila contemporanei: ci sono gli scrittori notturni e ci sono gli scrittori diurni, e ovviamente qui non mi riferisco alle atmosfere delle opere, più o meno crepuscolari o soleggiate, e nemmeno ai metabolismi lavorativi, allo scrivere di notte, mollemente adagiati, come Proust, o di giorno, magari la mattina presto e in piedi, come Hemingway. Parlo dell’atto scrittorio in sé, a livello cognitivo, di percezione individuale.

I notturni, come Cărtărescu, non scrivono ma sono scritti, sono trascendenti e autoanalitici, mentre gli scrittori diurni, come Bolaño, scrivono e nel farlo sono presenti a se stessi, sono immanenti, e all’autoanalisi preferiscono lo “scrivere a”, l’affabulazione che preveda un pubblico.

Chi ha ragione? Può la letteratura avere due soli epistemologici, oppure bisogna decidersi, fondare un albo e mandar al rogo o in Siberia gli eretici? Sarebbe una domanda da un milione di dollari, sempre che l’editoria un milione di dollari poi li abbia. Ma proviamo a rispondere, analizzando i cantieri dei tre capolavori Abbacinante, I detective selvaggi e 2666. Mal che vada, ci saremo fatti un giro nelle cattedrali sintattiche più strabilianti del nostro tempo, a far collezione di crisi stendhaliane.

 

Dio nella macchina da scrivere: il metodo notturno di Cărtărescu

Quanto a pura bellezza della pagina, nessuno scrive meglio di Cărtărescu, oggi, in Europa e forse non solo, ma Cărtărescu non è un semplice esteta, un decoratore ozioso, che risponde al nichilismo infiocchettando periodi: per lui, la letteratura è la colonna vertebrale della sua stessa vita.

Sin da quando è ragazzetto, racconta in Travesti, Cărtărescu vive per essere lo scrittore totale, definitivo, e scrivere il libro dei libri, oltre il quale c’è solo la contemplazione sordomuta del tutto: vuole scrivere l’inscrivibile, dire l’indicibile, scrivere non solo con la mente, ma anche coi polmoni, con l’addome, coi testicoli, con la carotide, sino a che la morte non lo separi dalle carte.

Come Breton nell’incipit di Nadja, vuole rispondere alla domanda ultima, quella a cui tutto il pensiero filosofico tende, invano: Chi sono io? Chi sono stato? Chi sarò? E ancora: Quando si muore, cosa c’è dall’altra parte? Perché nessuno è mai tornato a raccontare cosa succede dopo? Perché sono venuto al mondo? Cosa significa tutta questa follia, tutto questo dolore, tutta questa bolgia?

Vuole scrivere di quello che è, di quello che è stato, di quello che sarà, ma anche di quello che non è stato, di quello che avrebbe potuto essere, degli infiniti universi paralleli contenuti nel pluriverso, questa vasta mente che tutti ci comprende.

Vuole scrivere il libro che dio avrebbe scritto se fosse stato uno scrittore, scrivere per tutta la vita, senza fermarsi mai, nemmeno per pisciare, nemmeno per vivere, scrivere e morire scrivendo, ed essere ritrovato, già scheletro, in un abbaino, seduto alla scrivania, col suo teschio sulle carte, morto d’immenso.

Uno potrebbe dire che è solo una fase adolescenziale, che quando trova la ragazza poi gli passa, ma non è così: Cărtărescu resta romantico fino in fondo, non patteggia col reale, è disposto a tutto ma vuole tutto, sempre.

Comincia con la poesia, sette volumi di opere poetiche, ma presto sente che il mezzo non lo contiene più, che ha bisogno dei vertiginosi spazi della prosa, ma invece di passare al romanzo, Cărtărescu, come la Woolf, s’inventa un ibrido letterario: rinuncia al verso, ma resta poeta.

Vuole scrivere un’opera massimalista, di millecinquecento pagine, ma in poesia, per mantenere l’ispirazione, per scrivere in verticale e non in orizzontale.

Ma come fa? Semplice, si alza la mattina, scrive per due ore, densamente, disperatamente, spremendo ogni goccia di bellezza dal suo povero cervello infelice, poi sviene, cioè vive, come un sonnambulo, nell’attesa fremente del giorno dopo, sempre così, ancora e ancora, per quindici anni.

Il risultato è Abbacinante, opera sconfinata divisa in tre volumi, come le parti di una farfalla: L’ala sinistra, sulla madre, L’ala destra, sul padre, e Il corpo, su di sé. Nonostante la struttura tripartita, coi tre temi programmaticamente suddivisi a priori, il testo è completamente digressivo, anarchico, tutte le pagine potrebbero essere rimescolate, come le carte da gioco, e cambierebbe poco o nulla, dato che sogni, realtà, teorie scientifiche, speculazioni filosofiche, miti d’origine, biografie di genitori, avi, ricordi d’infanzia e frammenti onirici si confondono, si susseguono, in un tessuto alfabetico denso e lucente, dove l’unica costante è la vertigine conoscitiva e l’ineccepibilità della prosa.

Anche se mattiniero, Cărtărescu è uno scrittore rigorosamente notturno: è trascendente, invasato, auto-ipnotico, non pianifica, non fa schemi, lima ma non riscrive, tiene tutto, procede per accumulazione, per sedimentazione di strati letterari, a ogni seduta non rilegge quel che viene prima, ma s’abbandona all’autoanalisi, compie sedute di speleologia psichica, a occhi chiusi, verso l’oblio e oltre, confidando sempre nella massima agostiniana secondo cui il segreto dell’universo, che Agostino chiama dio, è custodito nel guscio cranico della mente: l’infinitamente grande e l’infinitamente piccolo sono gemelli monozigoti.

 

Un sorriso infinitamente serio: il metodo diurno di Bolaño

Tutta l’opera di Bolaño, ammette lui stesso, non è altro che una lettera d’amore e d’addio alla sua generazione, una generazione perduta, perduta come ogni generazione che, al pari della candela di Millay, abbia sempre bruciato da entrambi i lati, giocandosi tutto in cambio di niente.

Da giovane, più che un poeta, Bolaño è un teppista letterario, dissipa il proprio talento polemizzando con chi ha meno talento di lui. Va alle presentazioni dei discepoli/groupie di Octavio Paz e monta la polemica, fa venir voglia di dargliele da quanto è acuto e ipercolto. Entra in politica con le idee ardenti ma confuse, protesta a priori, manifesta, alla fine lo mettono pure in galera, durante il golpe militare in Cile, ma dietro le sbarre, come in un romanzo picaresco, tra le guardie ritrova alcuni amici d’infanzia ed esce subito.

Parte per l’Europa, con l’amico Mario Santiago, uno così follemente innamorato della poesia che legge persino sotto la doccia, innaffia i libri di Bolaño, glieli restituisce che sembrano foglie di lattuga. A Barcellona vive di giovinezza e versi, e intanto svolge qualunque lavoro, a parte il prostituto e il serial killer, sbaglia tutto quello che si può sbagliare nella vita, fino a quando, a quarant’anni, reso vulnerabile e dunque malinconico da una cirrosi epatica, si mette alla scrivania, e visto che gli resta poco tempo da vivere, decide che farà un ultimo scherzo a tutti, a Paz, a Cortázar, a Márquez, a Neruda, a Parra, ma soprattutto al suo amico Santiago, tornato in Messico e che gli manca tanto: il suo scherzo sarà scrivere un capolavoro, il vero capolavoro della letteratura latinoamericana, I detective selvaggi.

Diviso in tre parti, un prologo, un epilogo e una sezione centrale, I detective selvaggi è un chiaro esempio di opera diurna, ovvero sempre presente a se stessa, pianificata nei minimi dettagli, un collage di fughe musicali, dove nulla è lasciato al caso, all’improvvisazione.

Prologo ed epilogo sono il diario intimo del giovane poeta Garcìa Madero, novizio delle lettere, simbolo d’incontaminata purezza, mezzo Huckleberry Finn e mezzo Martin Eden. Ma dopo centocinquanta pagine, il libro si apre a ventaglio, il diarismo cede il passo alla polifonia bachtiniana, una polifonia inaudita, universale, in cui mille voci si susseguono, s’inseguono, dicono e disdicono: voci di falliti sempre e per sempre, sottoproletari anti-pasoliniani, non ottusoidi ma lettori bulimici, che vivono alla giornata, anzi al quarto d’ora, che non hanno i soldi per comprare un paio di scarpe, ma che conoscono a memoria Guido Ceronetti. Ci sono tutti i punti di vista della sua generazione, accostati l’uno all’altro, come tessere di un puzzle del tempo ritrovato, tutti i punti di vista tranne quello di Belano e Lima, gli alter ego di Bolaño e Santiago, loro no, loro sono sempre assenti, visti da fuori, privati della psicologia, come i miti.

In una letteratura costellata di testimonianze dirette, di memoir, Bolaño sceglie di scrivere una mappatura neurale della sua generazione che è contemporaneamente un’anti-autobiografia, un’autobiografia non autorizzata, perché nel testo tutti parlano di Belano tranne Belano stesso, e la sua distanza, il suo sottrarsi, ne accresce la fama ma al contempo è come uno stratagemma cinematografico grazie al quale si crea sempre più attesa, suspense, attorno a questi due grandi assenti eppure sempre presenti, un po’ come nelle prime pagine del Grande Gatsby, in cui tutti parlano di Gatsby, tranne lui.

La scrittura diurna di Bolaño si evolverà ulteriormente in 2666, ultimo capolavoro incompiuto. Lì scrivere vorrà dire davvero essere un detective, ovvero portare alla luce i fatti, illuminare ciò che prima era oscuro, come un Truman Capote, ma molto più romanzesco. Il cuore del libro Bolaño lo recupera da fatti di cronaca: l’assassinio, a partire dal 1993, di 430 donne e bambine nello stato messicano del Chihuahua, a Ciudad Juárez. Nel suo eremo creativo di Blanes, in Costa Brava, con in mezzo un oceano a separarlo dai fatti che vuole raccontare, Bolaño raccoglie informazioni, studia i processi, grazie alla consulenza del giornalista investigativo Gonzalez Rodriguez.

I punti di vista questa volta non sono centinaia ma cinque, cinque come le parti del libro che Bolaño avrebbe voluto pubblicare separatamente, non per convinzione letteraria, ma per garantire ai figli, dopo la sua morte, un pugno di royalties in più. Ancora una volta, come nei Detective, Bolaño adopera lo stratagemma dell’assenza che pesa più della presenza, questa volta con lo scrittore misterioso Benno Von Arcimboldi: ha capito che i personaggi dei romanzi si notano di più non quando mattatorizzano la scena, ma quando vengono e stanno in disparte, come il Moretti anti-mondano di Io sono un autarchico.

Bolaño è uno scrittore diurno: pianifica, pondera, prima di scrivere scartabella, fa schemi e contro-schemi, quando scrive l’incipit ha praticamente già in testa il capitolo conclusivo, non disdegna la riscrittura, il montaggio, le anticipazioni, gli indizi disseminati nella prima parte che acquisteranno senso più avanti, la suspense, “scrive per”, “scrive a”, è immanente, epico, autoironico, antimetafisico, antiretorico, spesso piacione, intrattenitore, vuole essere interessante, chiarisce e non arzigogola, illumina e non confonde, rispetto alla sua opera è sempre demiurgico e mai rabdomantico. In una parola: scrive, non è scritto.

 

Se dio esiste, ha ragione Cărtărescu. Se dio non esiste, ha ragione Bolaño

Chi ha ragione tra notturni e diurni? E ancora, c’è proprio bisogno che qualcuno abbia ragione e qualcun altro torto? Probabilmente no, ma in qualunque altro mestiere uno iato epistemologico così netto produrrebbe il caos.

E allora proviamo a dare una risposta, ovviamente provvisoria e velata di umorismo.

Cărtărescu sostiene che la scrittura letteraria sia un atto conoscitivo, una kantiana intuizione a priori, un volo mistico in grado di superare categorie e discipline, cogliendo il vero, un vero poetico, esistenziale, ma anche ontologico, un vero non solo privato, per sé, ma anche universale, un vero per tutti.

In questo senso, Cărtărescu non s’inventa nulla. Lo stesso Freud, ad esempio, nei suoi scritti dichiara spesso che la letteratura anticipa le scoperte scientifiche e psicoanalitiche. Il complesso di Edipo, l’inconscio, i miti sono tutte intuizioni prima di tutto letterarie. Freud si sarebbe limitato, a suo dire, a dare un abito scientifico a scoperte che nascono, embrionalmente, nelle tragedie greche, nei testi sacri, o in Goethe e Dostoevskij.

E qui la domanda sorge spontanea, anche se un poco scortese: posto che per Cărtărescu la scrittura letteraria è un atto conoscitivo, che cosa avrebbe scoperto Cărtărescu nelle millecinquecento pagine di Abbacinante? Un nuovo complesso edipico, una teoria del tutto, un’equazione delle equazioni, il numero di telefono di dio?

Non mi pare. Lui riporta il percorso, caleidoscopico, suggestivo, totipotente, ma alla fine non c’è alcun risultato. Il suo metodo è l’inverso di quello di Einstein: Einstein perviene tortuosamente alla teoria, e poi, per igiene e pulizia estetica, toglie i passaggi, la cosiddetta brutta copia e lascia l’equazione, arriva sul tetto e butta la scala, mentre Cărtărescu compie uno scavo sapienziale di millecinquecento pagine che però sono circolari, quel che si sapeva a pagina uno lo si sa anche a pagina millecinquecento: nella sua anabasi c’è solo la scala ma manca il tetto. Nessun colpo di scena conoscitivo, nessuna rivelazione sull’origine dell’universo; il che non sarebbe un problema, dato che parliamo di letteratura e non d’ingegneria aerospaziale, non sarebbe un problema se l’autore stesso non ripetesse, ogni due pagine, che sta per scoprire qualcosa, ma qualcosa…

Cărtărescu consegna una cattedrale di sole impalcature, un pianeta di solo vapore spaziale, senza nucleo, senza centro su cui poggiare.

Cărtărescu risponderebbe che una cosa lui l’ha scoperta, ha scoperto che tutte le discipline sono mescolate, ma il suo è un mescolamento puramente lessicale, non epistemologico, insomma Cărtărescu non ha, come Maxwell, trovato equazioni che uniscano le discipline, ha semplicemente preso il lessico specifico delle discipline e lo ha adoperato poeticamente, ovvero suggestivamente, togliendogli rigore scientifico.

E poi, concluderebbe Bolaño, citando Woody Allen: «Che vuol dire che tutto è mescolato? Io ti chiedo che ore sono e tu mi rispondi sei chilometri? Ma che roba è?»

Ma qui mi rendo conto che è un ateo a parlare: bisogna sempre avere rispetto per le teofanie del prossimo. E dopotutto i capolavori di Cărtărescu e Bolaño sono, in un certo senso, apparizioni mariane, anzi di più, come diceva Girard leggendo le pagine del Grande inquisitore, sono dimostrazioni dell’esistenza di dio, almeno fino al prossimo Olocausto. Sono miracoli che nascono dal terzomondismo, deandreiani fiori di letame, perché il sottosviluppo, racconta Bolaño, produce solo capolavori: la narrativa innocua, di genere, è una perversione della piccola borghesia arricchita, e in Cile, in Messico, come in Romania, la letteratura è capolavoro, oppure non è.

E qui viene in mente Primo Levi quando, ad Auschwitz, per sopravvivere si sforza di ricordare i versi danteschi, e conclude che la letteratura è tutto ciò che resta all’uomo quando ogni altra cosa gli viene tolta. Su questo, Cărtărescu e Bolaño sarebbero stati sicuramente (e finalmente) d’accordo.

E allora, di fronte al dilemma «Scrivo o son scritto?», dichiariamo il nostro agnosticismo concludendo così: non sappiamo, come per il gatto di Schrödinger, se dio è o no nella macchina da scrivere.

Perciò, se dio esiste, ha ragione Cărtărescu. Se dio non esiste, ha ragione Bolaño.