«E io mi ero mezzo sbronzato di Negroni» – troviamo nel suo libro di esordio (1957!) una frase eterna e, insieme, contemporanea. Lo Zeitgeist i bravi scrittori non lo narrano, lo cavalcano e lo creano. Se qualcuno diceva che Simenon è stato Balzac senza la lunghezza, forse Arbasino è stato un Balzac senza ambizione socio-enciclopedica, senza pianificazione, e morale, forse. Destrutturato, onirico, con quella vertigine della lingua, del parlato, che lascia di stucco, «galleria e campionario etnologico di patetiche stravaganze individuali…». Ma sguscia tra le mani Arbasino, difficile definirlo, lui e i suoi romanzi e i suoi romanzi non-romanzi, e i suoi non-romanzi non-romanzi. «Fare oggi un romanzo tradizionale ha lo stesso senso che conquistare oggi l’Eritrea o fondare oggi la Fiat», fa dire in Fratelli d’Italia. Le etichette sarebbero riduttive. Ma sempre tutto molto divertente, arioso e ricco. Come dice una sua poesia del 2001, Ciao:

La Musa civica
non sempre organica
o armonica
soffia quando e dove
può, non come si deve.

«Credo proprio di essere uno di quelli che gli americani chiamano one night stand», inizia un altro dei racconti de Le Piccole Vacanze, la raccolta portata in Einaudi da Italo Calvino che uscì nello stesso anno dell’Isola di Arturo, della Ciociara, del Pasticciaccio in volume, ma anche del Barone Rampante e di On the Road. Tutti amiconi poi, lì, negli anni d’oro di Via Veneto. «Noi spesso con la buona stagione pranzavamo fuori, la sera, con Moravia e Morante, i due Piovene quando erano a Roma, i due Guttuso che abitavano qui e quindi venivano lì, poi Bassani, Pasolini eccetera e qualche volta Gadda , che se era stanco non veniva, poi il giorno dopo telefonava e diceva “Ha strillato molto la Elsina anche ieri sera?”».

 

Poi, quando Fellini l’ha raccontata, La Dolce Vita era già finita, e tutta quella Roma lì era cambiata. Se prima «sembrava una città vuota e mite, adesso è piena e feroce», dice nell’80 in Un paese senza, dove tira le fila di «un decennio poco amato», quello degli anni ’70, del «Terrorismo e della Discoteca e del Dibattito».

Tutti impegnati, o impegnatissimi, tra sessantotti e gruppi 63, la posizione di Arbasino è sempre stata indefinibile. Pic-nic nei giardini delle ambasciate con Kissinger, l’elezione a deputato per il PRI, e un romanzo fiume Fratelli d’Italia che «veniva annunciato un romanzo scandalistico a chiave, con dentro tutti i protagonisti della dolce vita, da Agnelli in giù. Bassani si allarmò. Quando ebbe tra le mani il libro, molto sinceramente mi disse che non corrispondeva alla sua idea del Romanzo».

Intervistando Borges, in francese, su due seggioline da pensionati circondati dalle rovine romane, A. A. fa notare la costante novecentesca tra conservatorismo e innovazione: «i più grandi scrittori del nostro secolo, tanto più sono stati rivoluzionari nella loro opera, tanto più hanno avuto opinioni politicamente conservatrici», e non solo per i soliti Céline, d’Annunzio, Pound, ma anche T.S. Eliot, Yeats, Thomas Mann, Paul Valéry… Velata presa di posizione? Chissà.

 

Quasi un diletto per lui, un rapporto con la TV da nemica-amica, («evito di vederla, ai limiti del possibile»), portare nel ’77 in Rai scontri tra i big del cinema, della politica, dell’architettura… istigati dai suoi occhietti perspicaci e i suoi baffetti e aizzati da domande del pubblico – tra cui Severino Cesari ed Enzo Siciliano –, dove vediamo Moravia in duello con Sanguineti che con la sigaretta tra le dita dice: «Il punto di partenza della nuova avanguardia era disilludere nei confronti del boom», quando ancora si poteva citare Benjamin in TV. E poi un giovanissimo Nanni Moretti che, appena uscito Io sono un autarchico, si scontra con Monicelli.

«Perché questa ricerca ansiosa ed angosciosa del successo nei tuoi film?», e Monicelli risponde: «Cerco il successo, certo, anche per vanità, ma soprattutto perché se ho da dire qualche cosa, voglio che sia detta nella maniera più chiara possibile al maggior numero di persone possibile», e il ventiquattrenne: «Penso che voi abbiate un rapporto un po’ coloniale col pubblico».

In Ritratti Italiani, il penultimo libro uscito, dove racconta i compatrioti dalla A di Agnelli alla Z di Zeri, passando per Cecchi, La Capria e Praz, dice: «Nanni Moretti non ha dimenticato nessuno e non perdona niente», e poi, «mai frequentare le persone che ripetono troppi io, io, io».

Se si facesse un elenco di tutte le persone nominate da Arbasino nei suoi scritti, si avrebbe un’enciclopedia dell’umanità, dello spettacolo, della politica, della provincia, dell’editoria, della bella vita… dalle sfere più alte a quelle più kitsch, da quelle più pop a quelle più nobili e sofisticate e libertine. Una sorta di gigantesco, infinito ammasso di cartonati, un Sgt. Pepper’s Lonely Hearts Club Band definitivo, un diorama dove Karl Kraus sta vicino a Gianni Morandi e Napoleone III, Pasolini vicino ad Apuleio e François Truffaut, la testa di Anna Magnani spunta tra quella di Alessandro Manzoni ed Edith Piaf, gli occhi di Levis-Strauss tra le facce di Pellegrino Artusi e Greta Garbo.

E con metà di questi sembrerebbe esserci andato a cena, dai suoi racconti, o a pranzo «in trattoria prendendo un’hachée, uno spaghetto, qualche cosa così, alla trattoria romana di via Frattina che non esiste più…».

Riduttivo dire che «ha raccontato l’Italia», come sparano i veloci coccodrilli di questi giorni, – tutti di corsa nelle redazioni online a contar i morti e meglio ancora, i morti famosi. Oscurata la sua faccia dopo poche ore da quella di Lucia Bosé, «amata da Visconti e Antonioni», con la zazzera blu e foto d’antan in bikini. Da «giovane promessa» a «solito stronzo», a «venerato maestro», a morto famoso del giorno, a secondo morto famoso del giorno il passo è breve, per ripigliare una di quelle sue frasi che ancora adesso terrorizza l’editoria e gli aspiranti autori, perché han tutti paura di restar soliti stronzi, dato che «soltanto a pochi fortunati l’età concede poi di accedere alla dignità di venerato maestro». Chi ci rimane? si chiederanno in via Fratelli Ruspoli.

«Per scrittori così, che tendono a praticare tutti i generi e a reinventarli, più che l’opera conta lo spettacolo dell’autore in attività», blaterava qualche anno fa Alfonso Berardinelli, critico-polemista che va tanto in certi ambienti romani. L’opera di Arbasino invece vale ancora di più del “personaggio” Arbasino. E infatti, come nota Francesco Pacifico mentre lo intervista: «comincio a capire come ha fatto a pubblicare tanto: parla esattamente come scrive». Non esiste il personaggio, i grandi parlano come mangiano.

 

Altri coccodrillismi facili: elencare le sue frasi più famose entrate nel parlato da bar – dalle «casalinghe di Voghera» alla «gita a Chiasso» – più difficile invece consigliare a chi non ha mai sfiorato i suoi libri, ormai quasi tutti disponibili in belle copertine pastello Adelphi, da quale iniziare.

Forse da La Bella di Lodi. Romanzo «che narra l’Italia del boom», direbbero i coccodrillari. La storia d’amore con l’incipit più bello di sempre:

Le ragazze di Lodi, grandi, belle, con la loro pelle splendida e un appetito da uomo, quando son dritte possono essere molto più forti di quelle di Milano. Quando son dritte, oltre ai bei denti e ai begli occhi e alla gamba lunga e al capello magnifico, chiaro, hanno tanta terra, almeno un paio di migliaia di pertiche (quindici pertiche fanno un ettaro); e anche se un anno il foraggio è scarso, un altro anno il prezzo del grano è fissato un po’ troppo basso, o il riso non rende, o se arrivano tutte insieme un bel po’ di cartelle d’imposte di successione arretrate, male che vada si tratterà di rinunciare a cambiare l’Alfetta per l’estate, o di non prendersi un gattaccio nuovo per il prossimo St Moritz; ma l’attività delle centinaia di vacche e del caseificio annesso basta comunque a produrre un reddito ancora abbastanza soddisfacente.

 

Dedicata tanta attenzione nel corso delle pagine alla natia Lombardia, certo, ma la geografia arbasiniana non conosce confini, conosce solo atmosfera e stati d’animo, architetture e interni, festival e ricevimenti… i sempreverdi Cortina e Forte dei Marmi e Portovenere e Santa Margherita, Cannes (dove intervista Simenon) e Davos… e poi il Sud America, Buenos Aires, Rio, Montevideo, «fra neoclassicismi e storicismi poliedrici e versatili e larghe avenidas intitolate a date storiche, per lo più in maggio e luglio, fino alle nuove sfilate dei condomini di lusso, più aggiornati e recenti. Tipiche “Torri Littorie” come a Genova, con fianchi curvilinei. Banche perfettamente palladiane del Trenta. Cupole e cupolette assolutamente eclettiche, torrette, pinnacoletti, altane, loggiati, bovindi. Beaux Arts e Torri Velasche, Cordusi e Coppedè e Càriplo, stucchi e rilievi e festoni e telamoni e cariatidi ove ogni ornamento è volutamente delittuoso, nonché voluttuario e quindi voluttuoso, ma se non ci fosse sarebbe comunque peggio». Ma anche Londra, l’Asia, Parigi, poi, dove va a cercare la tomba di Proust – «E però, come si potrebbe fare del sainte-beauvismo attendibile sulla vita e l’opera di Proust, senza frequentare a lungo le duchesse, e senza prenderlo altrettanto a lungo nel sedere?».

Più si vede il mondo più si diventa curiosi.

E infatti c’è tutto tutto e nei minimi dettagli irriverenti e da intenditore, archeologia, expertise antiquaria, gli occhi si fermano sulle genealogie, sui tendaggi, sulle tovaglie, sulle marche di accendini e sui nomi dei ristoranti e degli hotel, sui corpi vacanzieri al sole, sulle frasi, dette dalle casalinghe e dalle marchese e da personaggi inventati, paradigmatici (ma mai stereotipi) e dagli scrittori amici. «Le citazioni sostituiscono l’intreccio o l’avventura del romanzo tradizionale: sono altre avventure verso altri mondi, noti o meno noti o ignoti», scrive Raffaele Manica, che ne ha curato i Meridiani.

In fondo, si può dire, che nonostante l’attenzione per le cravatte, e quest’immagine di gran signore chic, che con la sua MG rossa decapottabile andava a prendere Gadda a casa a Monte Mario, e nonostante conservatorismo e innovazione, amicizie, epigoni e libertà, Arbasino rimarrà nel canone per la sua bravura d’occhio e di lingua.

«Sento dire spesso di questi tempi che sarei uno scrittore barocco, ma la definizione non mi soddisfa. Mi considero piuttosto uno scrittore espressionista. L’espressionismo non rifugge dall’effetto violentemente sgradevole, mentre invece il barocco lo fa. L’espressionismo tira dei tremendi vaffanculo, il barocco no. Il barocco è beneducato».