Proseguiamo la presentazione dei libri finalisti del Premio Narrativa Bergamo 2020. Gli incontri con gli autori, in ragione delle recenti ordinanze ministeriali, sono stati spostati alla fine di settembre (come potete leggere qui).


 

Uno dei ritratti più noti e diffusi di Fëdor Dostoevskij lo mostra nella mezza età, una mezza età in verità un po’ decrepita: le guance scavate, una barba rada ma molto lunga, una fronte ampia che lascia il posto alle rughe d’espressione, il riporto, qualche capello fuori posto, un pastrano pesante ma anche sciatto, i segni dell’uso sulle spalle. A colpire, naturalmente, è lo sguardo: perso nel vuoto, tra pensieri che immaginiamo cupi, perché siamo portati a proiettare nella sua mente l’immaginario sofferente e pietoso dei suoi romanzi. È lo sguardo di un uomo svuotato, forse sull’orlo di quelle famose crisi epilettiche che ne hanno falcidiato la vita ma che hanno anche aggiunto un oscuro fascino al suo personaggio. Sembrano gli occhi di chi ha deciso di non guardare più il mondo intorno a sé – si dice che a un certo punto, quando aveva cominciato a scrivere Delitto e castigo, avesse smesso di girare per le strade di Pietroburgo alla ricerca di figure e storie da trasformare in letteratura – perché l’ha già tutto assunto dentro di sé e lo distilla, pagina dopo pagina, romanzo dopo romanzo, ricomponendolo in un mondo narrativo straordinario, in cui la disperazione e l’orgoglio possono convivere nella personalità di un eroe-assassino, oppure gli accenti patetici di un amore melodrammatico possono essere sintomi di un’autentica e straziante passione. Tutto in uno sguardo, tutto in un solo individuo.

Nel suo Il grande peccatore, Ferruccio Parazzoli ha deciso di attraversare la soglia che rendeva imperscrutabili i pensieri, i sogni e i tormenti di quell’individuo, Fëdor Dostoevskij, e di assegnargli quel ruolo che, pur avendo scritto molte delle sue narrazioni in prima persona, si era sempre negato, quello del personaggio letterario. Per farlo però ha deciso di non dargli direttamente la parola, ma di farlo vivere nella voce di qualcuno che, come il pittore della tela di cui sopra, si facesse carico dell’ombra per restituire il corpo e l’immagine di quest’uomo leggendario.

E di leggenda si potrebbe benissimo parlare perché, fin dalla scelta della voce narrante, Parazzoli decide di giocare in un campo in cui l’immaginazione narrativa di Dostoevskij e la Storia si mescolano inscindibilmente, a riprova che nulla di quanto narrato dal grande russo è stato davvero inventato, bensì semplicemente preso a prestito dalla realtà, ma anche che quel mondo letterario è talmente fervido e potente da poter riscattare qualunque esistenza. A raccontare, allora, è Vrazumichin – colui che in Delitto e castigo avrebbe perso una “v”, diventando Razumichin, il caro amico di Raskol’nikov –, che si presenta come stretto conoscitore di Dostoevskij, addirittura una specie di suo sosia, che ne ha osservato la vita per dieci anni, dalla liberazione dopo la prigionia in Siberia nella fortezza di Omsk, attraverso tutto il percorso di riabilitazione – Semipalatinsk, Tver’ – e fino al ritorno sulla ribalta mondana e letteraria, prima a Pietroburgo e poi a Mosca.

Il giorno stesso dei funerali del grande scrittore, il 31 gennaio 1881, Vrazumichin decide di raccontare il suo Dostoevskij perché vuole dare forma a un’«antibiografia», che faccia da controcanto alle memorie agiografiche che sta preparando la seconda moglie di Dostoevskij, la stenografa Anna Grigor’evna. A definire il carattere anti di questa biografia è infatti la volontà di rivelare l’impasto di verità e menzogna, di bene e male, di corruzione e purezza in cui si dibatteva il suo animo; a suggellare l’affidabilità della sua testimonianza un’investitura da parte dello stesso Dostoevskij, che gli aveva detto «Tu mi dirai chi sono». Apparentemente contrarie a qualsiasi intento celebrativo e “monumentale”, queste anti-memorie nascono così nel segno della confessione, o forse sarebbe meglio dire della rivelazione, della natura profonda e abissale di un «grande peccatore».

Parazzoli ricorre a un espediente tradizionale – lo stesso, per intendersi, adottato da Andrea Tarabbia in Madrigale senza suonoun personaggio di infima presenza (Vrazumichin, aspirante scrittore di scarsi mezzi, rimarca spesso l’orgoglio che prova nel riuscire a camuffarsi o a rendersi invisibile) che però abbia accesso ai più reconditi segreti del protagonista e possa quindi restituirli aggirando tutte le cautele, gli infingimenti e gli autoinganni che una confessione diretta avrebbe comportato. Un “personaggio riflettore”, per dirla con la narratologia, che fa da specchio ma anche da accusatore al vero protagonista, Fëdor Michailovič, che per tutto il romanzo viene abbreviato in FM (perché Parazzoli immagina che le antimemorie di Vrazumichin siano state trovate da un suo amico in un viaggio a San Pietroburgo e da lui tradotte prima di regalargliele).

Ecco allora dipanarsi la storia di Dostoevskij: ricostruita in breve per quanto riguarda le tappe della gioventù (in cui si staglia la tragica e crudele morte del padre, ucciso dai suoi stessi contadini dopo una rivolta), si concentra immediatamente sul successo all’indomani di Povera gente (1844), che lo rivela come una voce nuova e già matura nella Pietroburgo di metà Ottocento. Ma non è certo il successo a interessare Vrazumichin, che di Dostoevskij vuole investigare la psiche, ma anche il metodo creativo, quell’auscultazione del reale necessaria a qualsiasi invenzione. Ed è così che si susseguono episodi apparentemente banali – un racconto udito da un uomo nella folla, uno squarcio familiare intravisto per la strada, un incontro fortuito al casinò (quello, un po’ inverosimile, con un giovane Nietzsche che avrebbe suggerito a Dostevskij la teoria del superuomo) – che subito, seppur mai esplicitamente, si ricollegano ai romanzi e i racconti dello scrittore (a partire dal Sosia, data 1845, che richiama immediatamente l’immagine di Vrazumichin). E su tutti si staglia l’incontro con Rodion Romanovič Raskol’nikov, quello che sarebbe diventato il protagonista di Delitto e castigo e che – nell’invenzione di Parazzoli – è un amico Vrazumichin, istigato proprio da quest’ultimo a compiere un delitto banale e “senza necessità” solo per dimostrare a Dostoevskij che «il nichilismo totale delle nuove generazioni» sarebbe potuto essere mostrato al pubblico con una storia e non attraverso i proclami e le teorie. A convincere il giovane senza ideali e senza morale, proprio le parole dello scrittore, bisognoso di trasformare l’idea in realtà:

Rigorosamente parlando, quanto minore è nell’uomo il grado di coscienza, tanto pià pienamente egli vive e sente la vita. Egli perde la capacità vitale in proporzione all’accumulo della coscienza. Pertanto, generalmente parlando, si può dire che la coscienza uccide la vita. La coscienza è una malattia.

Tutto, fin dalle prime pagine del racconto di Vrazumichin, contribuisce a costruire di Dostoevskij l’immagine tipica dell’artista maledetto, invasato nei momenti della scrittura (al punto dimenticare la vita intorno e da riuscire a parlare solo di ciò che sta scrivendo), simile a un Dio ma plagiato dal Male, capace di «mettere a nudo il germe del delitto, della crudeltà, della lussuria, che è in ciascuno di noi» perché consapevole che quel germe è innanzitutto in lui.

L’episodio dell’omicidio della vecchia usuraia, però, lascia presto il campo ad altri orizzonti. Il racconto del “sosia”, infatti, trova il suo baricentro – in maniera abbastanza sorprendente – sulle relazioni sentimentali, tutte rigorosamente fallite, dello scrittore: prima con Marija Dmitrievna, diventata poi moglie, e successivamente con l’amica-amante Apollinarija Suslova. Due donne molto diverse nell’aspetto – la prima smunta, malata, addirittura sciatta, la seconda invece attraente e maliziosa –, ma accomunate dalla capacità magnetica di attrarre a sé gli uomini, e in particolare colui che nelle donne cercava, più che la bellezza, una sorta di “potenziale di sofferenza”, affinché l’esperienza amorosa, liberata di tutte le convenzioni sociali e morali (prima di tutte l’ingiunzione al sesso), potesse raggiungere l’unico legame sincero, la condivisione del dolore. In entrambi i casi, però, il racconto assume tinte melodrammatiche, a tratti scapigliate (l’attrazione paradossale e inevitabile per la Dmitrievna ricorda certe pagine di Fosca), che provano a essere riscattate dai continui richiami all’abisso, al compiacimento della propria degradazione, caratteri che dovrebbero innalzare lo scrittore a idolo in un mondo dagli ideali sovvertiti.

Ma il racconto di Vrazumichin – e con lui il romanzo di Parazzoli – mostra presto la corda. Innanzitutto in questo continuo bisogno di rimarcare, e in qualche modo giustificare di ogni momento della vita (vera o presunta poco importa, visto che l’autore manipola vistosamente alcuni passaggi) di Dostoevskij, quasi che la sua grandezza debba risiedere nella proporzionalità diretta tra uomo e opera e non nella capacità di creare l’opera a prescindere dalle premesse biografiche. Appare evidente, poi, che l’interesse del racconto non alberga nella costruzione dell’intreccio o nei singoli episodi (forse per questo Parazzoli decide di mettere Vrazumichin al fianco di Dostoevskij per soli dieci anni e non per una vita intera, perché estendendo la lunghezza non sarebbe cambiata la sostanza), ma nell’immaginario che essi definiscono – le atmosfere, i personaggi, ma anche il linguaggio e il modo di pensare, l’humus morale. Lo stesso che i lettori di Dostoevskij conoscono bene e amano per l’impasto irrisolvibile di passioni contrastanti e fatali. Il duplice esercizio ventriloquesco – Parazzoli che imita Vrazumichin che imita Dostoevskij – finisce per rivelare il suo artificio, esibendo continuamente i debiti con il grande scrittore, della cui letteratura, quindi, questo romanzo non può che essere, più che un doveroso omaggio, una brutta copia.

Il tentativo di fare di Dostoevskij una specie di super-personaggio, la somma di tutti i suoi eroi e di tutti i loro contraddittori sentimenti, naufraga, non nell’ambizione o nell’eccesso, ma nella ripetitività stanca. Diversamente da quell’anonimo pittore che aveva ritratto lo scrittore come un uomo misero, il cui mistero poteva solo essere accennato nello sguardo e immaginato dall’osservatore, Parazzoli pretende di riportare alla luce e analizzare, dettagliatamente ed esaustivamente, ciò che invece deve rimanere nell’ombra, intraducibile e indecifrabile, come il demone della scrittura.


 

Il grande peccatoreFerruccio Parazzoli, Il grande peccatore, Bompiani, Milano 2019, 240 pp. 17,00