Gabriele Galloni, giovane autore romano, è uscito con un nuovo libro per i tipi di Marco Saya Editore, L’estate del Mondo (2019). La prima cosa da rilevare è un decisivo cambio di rotta rispetto alle precedenti produzioni, che si caratterizzavano per una ricerca ossessionata dell’elemento grottesco e di un’estetica scandalosa, perseguiti mediante la creazione di un immaginario erotico smisurato e perverso, come in Creatura Breve (Ensemble, 2018), opera che può essere considerata un ricalco in versi della Storia dell’occhio di Bataille – senza dimenticare il caso di Corpo di mamma, silloge che Galloni era intenzionato a pubblicare con lo pseudonimo di Olimpia Buonpastore e in cui questa ricerca sadiana del godimento raggiunge le sue massime vette; ne L’estate del mondo si registra infatti un deciso abbassamento di tono e un rinnovamento del repertorio simbolico, col quale il poeta indaga non più sugli aspetti più degradanti e bestiali dell’uomo ma sugli abissi della mente, attraverso un sofferto scavo nella memoria.

Che la deviazione tematica operata da Galloni in quest’ultimo libro rappresenti l’ennesima delle sue macchinazioni oppure no, ciò non ha alcuna importanza ai fini di una critica testuale; eppure quest’elemento di disturbo, questo fantasma sottotraccia persiste e non si può fare a meno di arrendersi di fronte al fatto che pur conoscendo bene le strategie adottate da Galloni per far (s)parlare di sé e della sua produzione letteraria, affievolendo al massimo la distanza tra opera e biografia, questa certezza della finzione sovraesposta infastidisce e incuriosisce assieme, dà l’idea di un tentativo (dettato al fallimento, poiché operato in un’epoca in cui ogni atto di auto-esposizione mediatica non può che risultare posticcio e già visto) di creare un’epica attorno alla figura dello scrittore, utilizzando gli odierni mezzi di comunicazione non per scopi banalmente pubblicitari ma per prendersi gioco di se stesso, distorcendo la realtà a proprio piacimento e dichiarandosi infine narratore sempre inattendibile.

Questo discorso sul legame tra biografia e opera ha senso dal momento che ne L’estate del mondo Galloni pare riferirsi a un interlocutore femminile reale quanto inesistente («tu indossi un abito che è identico/ a quello che amerai una volta viva», p. 65), col quale il poeta condivide alcune delle esperienze narrate, mentre altrove questa rimane più in forma di suggestione, costituendo un ‘tu’ ideale figurato solo nella mente dell’autore, che può plasmare attorno alla sua figura un particolare ‘canzoniere’ su di un amore mai nato o comunque vissuto in maniera unilaterale dall’io lirico, che registra abbozzi di conversazioni tra sé e un’assenza, in un’aura di sogno che si dissolve alla fine di ogni componimento. In tal senso Galloni non ha perso il gusto per la creazione di simboli ipersaturi e per la ricerca di una certa musicalità nei versi, a volte ripetuti all’interno della stessa poesia per creare un effetto-ritornello, sia per un suo personale vezzo estetico, mediante cui accostare la figura del poeta a quella del musicista pop, sia perché con l’espediente della ripetizione si vuole catturare la dimensione emotiva del lettore, permettergli d’immaginare visivamente il testo, che diviene traccia di un’istantanea fotografica, ma anche per dichiarare la propria condizione d’incanto di fronte a una bellezza poco convenzionale, quella dei litorali laziali disabitati e dei casolari abbandonati, luoghi scarni e aspri entro cui il poeta ricama ricordi ed esperienze, a cui si alternano situazioni più tradizionali come le contemplazioni lunari, che si innestano nella narrazione in maniera coerente e senza mai scadere nel facile epigonismo. Galloni ha insomma sostituito al gusto per l’oscenità quello dell’armonia, ma entrambi portano paradossalmente al medesimo risultato: una poesia grottesca, solo apparentemente lineare e in realtà costantemente ambigua, che invita il lettore a scavare al di sotto della superficie del testo; infatti, benché si tratti di liriche di facile lettura, dalle immagini nette e semplici, lo sguardo estraniato che le descrive, a volte per perenne estasi a volte per sovrumana apatia, costituisce la vera peculiarità del libro, tale che nel corso della lettura pare aleggiare un’unica ed enigmatica colonna sonora, come se la voce del poeta si stagliasse sempre su una stessa melodia, riuscendo a ipnotizzare il lettore nel ritmo salmodiante di poche note.

Questa distanza abissale tra l’Io e le cose individua la sua linea di confine nella spiaggia, dimensione ideale in cui il poeta vive il proprio eremitaggio, dedicandosi alla rielaborazione del ricordo e volgendo le spalle alle strade e alle case in cui si sono consumati i suoi giochi. Abbandonate tutte le cose passate, lo sguardo presente resta perennemente rivolto ai confini invisibili del mare, in cui si proietta la libera fantasia del poeta: esso rappresenta una vastità senza limiti, senza volto e senza voce alla quale rivolgere la propria confessione – e quale strana corrispondenza tra questo mare notturno, abissale, e la donna del poeta, anch’essa oscura e priva di lineamenti, senza volto e senza voce. Anche se Galloni porta a spasso il lettore nei luoghi della mente, delineando una vera e propria geografia sentimentale, questi appaiono sfuocati nella loro inattendibilità di materiale esclusivamente mnemonico; il poeta, in realtà, da quella spiaggia dove siede non si è mai mosso, e lì inizia e termina il libro, in una confessione disperata che a poco a poco riesce nell’intento di far evaporare fino alla sparizione il volto di quel destinatario ideale, che per più della metà della raccolta rappresenta un muro emotivo che non si riesce mai a scavalcare ma al massimo rievocare in maniera disorganica e opaca, e ciò costituisce un pericolo per il lettore, che se all’inizio non può che subire il fascino della quête sentimentale del poeta, a lungo andare rischia di ritrovarsi imbrigliato nel suo stesso vortice d’indolenza.

Fortunatamente Galloni, che resta saldamente ancorato al repertorio immaginifico fin qui evidenziato, riesce a evitare il pericolo incombente della ridondanza nelle fasi conclusive del libro, abbandonando i turpiloqui della mente e ritrovando la peculiarità del suo stile poetico, in una serie di affreschi limpidissimi e gioiosi, dove riappaiono le rincorse e le passioni adolescenziali consumate senza esitazione, in una vitalità ‘disperata’ e commovente poiché mera parvenza di consolazione di fronte all’insensato trascorrere del tempo; per questo la sua rielaborazione in versi non può che risolversi in una serie di loop senza uscita, come ne I ragazzi della spiaggia di Focene, componimento più riuscito e musicale della raccolta, in cui l’ultimo verso ripete il primo creando sia quell’effetto-ritornello di cui dicevamo sopra, sia una sorta di margine superiore e inferiore che costituisce i confini di una scena dalla grande potenza simbolica, in un’istantanea nostalgica che scorre attraverso uno sguardo-cinepresa, lo sguardo che sa ancora stupirsi di un mondo ancora vivo nella sua insensata e inesausta estate.

– da Gabriele Galloni, L’estate del mondo

Per l’ennesima volta, stanotte,
ho sognato una luna di polvere

sopra le case di via Ventimiglia.
E so che perderò qualche altra cosa;

che seguiranno altri giorni d’acquario;
e in casa intermittenti luci rosa

di stanza in stanza; e la televisione
costantemente accesa

su canali di lingua giapponese

dove strani pupazzi di gomma
si baciano, si danno guerra in ombra –

sopra le case di via Ventimiglia
per l’ennesima volta, stanotte,

ho sognato una luna di polvere.
E so che perderò qualche altra cosa.

I ragazzi alla spiaggia di Focene,
insieme incontro all’onda sonnolenta
che ritornando bagna loro il fianco
adolescente. È questa vita, lenta,
la sua illusione qui della durata
eterna. Quando ciò che resta è il bianco
della parete a fine di giornata;
il mese placido, tempo che viene,
i ragazzi alla spiaggia di Focene.


Gabriele Galloni, L’estate del mondo, Marco Saya 2019
pp. 84, 12€