Parlare di Sorrentino significa parlare del regista italiano più influente del ventunesimo secolo, e anche di quello che ha più diviso pubblico e critica. Più volte è stato attaccato da stampa e critica per quel suo presunto indugiare negli stessi temi, sfruttando i medesimi personaggi e facendo uso strabordante di manierismi visivi. Eppure la tendenza all’ossessiva ripetizione di argomenti e stilemi – fin quasi alla paranoia – accomuna i più grandi autori del cinema, da Bergman a Fellini, passando per Truffaut, Scorsese e Lynch. Sorrentino, da questo punto di vista, non fa altro che riprendere la lezione dei grandi: crea una cifra stilistica unica e riconoscile, e la persegue con rigore, quasi fanatismo. E in The New Pope si assiste all’esaltazione di questa poetica.
La seconda stagione di una delle serie più originali viste negli ultimi anni, rappresenta infatti il momento più ispirato della cinematografia recente di Sorrentino. Ci eravamo lasciati con Lenny Belardo – il Papa Pio XIII interpretato da Jude Law – che, dopo aver sedotto schiere di fedeli con i suoi modi mistici e rivoluzionari allo stesso tempo, cadeva in un coma irreversibile, durante un discorso tenuto davanti a Piazza San Marco. Si decide dunque di eleggere un nuovo papa e il machiavellico cardinale Voiello – interpretato da un magnifico Silvio Orlando – tenta la scalata al soglio pontificio, ma dopo aver fallito – e quasi compromesso il destino del Vaticano stesso, facendo eleggere il papa Francesco II, il quale vuole spogliare la Chiesa di tutti i suoi averi, ma muore in circostanze misteriose – orienta la scelta verso un cardinale inglese, Sir John Brannox, interpretato dal sempre ineccepibile John Malkovich. Inizia così il papato di Giovanni Paolo III, uomo di grande fascino ma segnato da un passato che lo tormenta.
Se The Young Pope era incentrato quasi interamente sulla figura di Lenny Belardo, intento a contrastare le insidie del cardinale Voiello e a comprendere la natura conflittuale della sue fede, The New Pope è invece un’opera corale racchiusa nel microcosmo del Vaticano. Il nuovo papa interpretato da Malkovich è profondamente diverso dal predecessore, pur condividendo con Pio XIII un irrisolto conflitto con i genitori – Lenny non li ha mai conosciuti, John è invece stato ripudiato dai suoi per aver lasciato morire il fratello gemello – . Se Lenny era infiammato da una volontà incapace di accettare alcun compromesso, John fa della sua debolezza uno strumento di fascino. Vanesio e incapace di prendere decisioni, Giovanni Paolo III è un dandy estremamente colto che vive il papato come una forma terapeutica. Per lui fare il papa significa andare in scena, recitare una parte, di fronte ai fedeli, ma anche di fronte a un dio da cui è convinto di non essere amato. Per molti aspetti ricorda il Titta Di Girolamo de Le conseguenze dell’amore, in lotta tra l’immobilismo e il rischio delle conseguenze dell’amore, che sia quello per Dio, per il prossimo o per un’unica persona. “Il mondo soffre perché patisce le distorsioni dell’amore” dirà John Brannox ai cardinali durante il suo insediamento, racchiudendo forse il senso stesso dell’opera di Sorrentino. Molto più che nella prima stagione, il regista si affida a lunghi e densissimi monologhi tenuti da diversi personaggi, per sostenere una sceneggiatura che si carica di una matrice filosofico-teologica ben più elevata rispetto alla prima stagione. Persino i virtuosismi di camera, l’uso spericolato e diffuso del dolly e in generale un certo barocchismo visivo sono qui funzionali per far decantare la materia. Siamo di fronte a un’opera in cui dottrina e pop si fondono in modo mirabile, fornendoci strumenti inediti per comprendere il mistero della vita, della morte e dell’amore. Ovviamente non mancano le classiche idiosincrasie sorrentiniane, come l’idolatria per il Napoli, la passione per il grottesco e il potersi togliere la soddisfazione di ingaggiare icone pop come Sharon Stone e Marylin Manson per due gustosi cammei. Ma si tratta di un’operazione di sviamento da quello che ha tutta l’intenzione di essere un poetico affresco sulla bellezza della fragilità umana, nonché una riflessione sui pericoli del fanatismo. Il tutto è come sempre sottolineato magistralmente da una fotografia emozionante e una colonna sonora ipnotica che spazia dalla dance di Sofi Tukker agli archi di Peter Gregson.