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Generazioni, genealogie, influenze: strumenti e proposte

Intro – un po’ di contesto

 In senso strettamente anagrafico, il convegno Militanza #1 – Gli spazi mobili della poesia (La Spezia, 20 febbraio 2017) si è proposto come evento generazionale: il fondamento di questa affermazione misurandosi non tanto nell’età dei relatori, che comprendevano sia i nati negli anni ’80 sia interlocutori nati una ventina d’anni prima (Lello Voce, Marcello Frixione, Tommaso Ottonieri); quanto piuttosto in quella del pubblico, dove schiacciante è stata la prevalenza di ventenni e trentenni (uomini, soprattutto – e la questione del genere dovrebbe interessare almeno quanto quella generazionale).

Sarebbe tuttavia ingeneroso, riduttivo e fuorviante pensare a sorta di festa della leva un po’ goliardica con l’elemento artistico aggiunto. Questo perché la mobilitazione da tutta Italia (Europa, contando il mio volo dalla Lituania!) è stata animata da una genuina volontà di comunicare e comunicarsi – la comunicazione autentica prefigurandosi come prima tappa verso la creazione di una qualche comunità. Mi piace pensare che Mitilanza #1 abbia in fondo voluto essere, e sia riuscito a essere in parte, l’appuntamento di una generazione con sé stessa, un tentativo di procurarsi una carta d’identità non falsa per fare i conti con le proprie ansie e magari scalfire la propria auto-percepita inconsistenza (la rende bene Julian Zhara in questo articolo con l’analogia della cameretta dei giochi). Sto parlando, è ovvio, della generazione di noi attuali ventenni e trentenni con un livello d’istruzione medio-alto ma in uno stato di crisi sociale ed economica senza precedenti. La differenza rispetto ai TQ, il movimento di trenta e quarantenni che ha fatto parlare di sé alcuni anni fa, è lampante: i TQ (ora QC: quaranta-cinquantenni), pur nelle rotture e defezioni che ci sono state, costituivano un movimento con obiettivi di politica culturale; i giovani a La Spezia sembrano mossi da una ricerca più esistenziale: in crisi non è il mandato, ma più radicalmente in crisi sono i contorni stessi del proprio operato.

Si capisce perché, in questo contesto, la tavola rotonda sulla questione generazionale a cui sono stato invitato abbia assunto un’importanza emblematica, facendosi carico – volente o nolente – di istanze troppo grandi per essere esaurite o anche solo adeguatamente affrontate in poche ore di dibattito. Ma a un livello più profondo, la verità è che i nostri strumenti non sono adeguati: il concetto di generazione porta con sé una domanda esistenziale e identitaria a cui gli strumenti della filologia non possono dare risposta, né sono tenute a farlo. Ulteriore confusione deriva dal fatto che il concetto generazionale ha un senso più circoscritto e preciso nella storia della letteratura, e anche lì presta comunque il fianco a critiche di metodo. Tutto quello che posso fare, dalla prossima sezione in poi, è inoltrarmi in un discorso che solo indirettamente – mediante l’uso del rigore, degli esempi, di studi precedenti – possa dare dei contorni a questo smarrimento.

 

Generazione, genealogia o influenza? La lotta dei concetti

 La proposta, definizione, uso e sostituzione di concetti non è un passatempo accademico, ma un atto conoscitivo che aiuta a riformulare un problema, a creare consenso non propagandistico ma mosso dalla forza degli argomenti. Così la sostituzione del termine generazione con quello, più specifico, di genealogia nell’intervento di Maria Borio è stata una mossa costruttiva poi ripresa e ampliata dagli altri relatori, me compreso. L’uso di un termine meno polisenso di generazione ma ad esso legato permette, cioè, di focalizzarsi su un aspetto della questione senza restare impaludati in una querelle senza vie d’uscita, in una polemica rassicurante perché a vicolo cieco. Nulla vieterà, in un secondo momento, di tornare alla questione generazionale con più fiducia, avendo nel frattempo aggiunto una tessera al mosaico.

Nemmeno il concetto di genealogia, ovviamente, è esente da critiche – a maggior ragione se non si chiarisce a sufficienza in quale accezione lo si impiega. Nel suo intervento (qui), ripercorrendo la storia filosofica del concetto da Nietzsche a Focault, Sonia Caporossi evidenzia il rischio che «nell’accezione boriana del termine “genealogia” si attui a livello meramente linguistico una sorta di contrapposizione tra un’aristocraticissima morale dei signori e una cristianizzantissima morale del gregge». La proposta di Caporossi è perciò quella di «tornare al concetto di influenza come strumento per individuare il nesso di causalità a manifestazioni socioculturali e, quindi, anche letterarie». In effetti io stesso, mentre preparavo la mia relazione, avevo proposto questo slittamento – da generazione a influenza.

Ma in che rapporto semantico stanno questi tre concetti – generazione, genealogia, influenza? Sinonimi chiaramente non sono, sennò contrapporli sarebbe un capriccio nominalistico. Il loro è piuttosto un rapporto di inclusione concettuale: etimologicamente, genealogia deriva da geneā e logos, e quindi «discorso sulla generazione». Se la questione generazionale è anzitutto di natura sociologica, quella genealogica può e deve trascenderla impiegando strumenti altri. Ed è qui che il concetto di influenza viene utile. Mi pare infatti impossibile parlare di genealogia senza chiamare in causa un tipo di influenza strutturata e sistematica che caratterizza i punti immaginari (autori, opere) di una linea genealogica da ricostruire. È importante insistere sugli aggettivi “strutturata” e “sistematica” perché altrimenti l’idea di influenza verrebbe limitata a fattori interdiscorsivi (per esempio, limitata a singoli stilemi o motivi) piuttosto che interautoriali e quindi divorziata da quella di genealogia. L’accezione interdiscorsiva mi sembra l’unica presa in considerazione da Sonia Caporossi, quando constata l’esistenza di un tipo di influenza nebulizzata che porta all’omologazione del discorso poetico. Nel 2013 dimostrai questo livellamento, e quindi questo tipo di influenza interdiscorsiva, in un saggio sull’uso e l’abuso della parola “cose” in poesia (qui). Ma non basta una parola, una costruzione grammaticale e nemmeno una tematica a renderci figli o eredi di qualcuno – così come somigliare fortuitamente e in parte a qualcuno più anziano non ce lo rende padre.

Fin qui ho tratteggiato i temi del dibattito attuale, tracciando qualche primo distinguo in nome della chiarezza e di una preliminare caratterizzazione operativa dei concetti. Ho quasi fatto finta che questi concetti fossero privi di storia o di padri essi stessi. È arrivato il momento di scoprire i debiti, ma anche di articolare più approfonditamente i concetti stessi per capire se potranno aiutare a orientarci nello smarrimento di cui s’è detto prima.

 

Una generazione a metà

Il concetto di generazione letteraria può essere riletto alla luce dei criteri proposti dal critico e matematico Julius Petersen, invocato spesso nel dibattito sulla Generación del ‘27 di Lorca, Salinas, Alberti, Alexaindre ed altri. Come dimostra l’elenco qui sotto, il concetto di generazione è soprattutto sincronico (punti 1-7) e solo secondariamente, per opposizione, diacronico (punto 8):

  1. Nascita in anni poco distanti
  2. Formazione intellettuale simile
  3. Relazioni personali
  4. Partecipazione in atti collettivi propri
  5. Esistenza di un “evento generazionale” che aggreghi le loro volontà
  6. Presenza di una guida
  7. Tratti stilistici in comune (linguaggio generazionale)
  8. Stagnazione della generazione precedente

Alla luce di questi criteri storico-letterari piuttosto che sociologici, apparteniamo o no – noi che eravamo a La Spezia o che avremmo potuto esserci – a una generazione? Direi di sì per quanto riguarda i punti 1 e 2 (ma qui occorrerebbero vari distinguo e un’analisi seria delle letture di ciascuno; il censimento di Pordenonelegge può essere un utile punto di partenza); propendo per un sì anche per il punto 3, visto che molti fra noi si confrontano con una certa costanza gli uni con gli altri, anche se in forme meno ufficiali che in passato; il punto 4 è stato il convegno Mitilanza #1 – Gli spazi mobili della poesia e il dibattito da esso originato; i punti 5, 6 e 8 hanno risposta negativa: non c’è forse nulla che caratterizzi a livello storico la nostra generazione (la nascita di internet è un evento che sembra mancare di forza simbolica e quindi aggregante, remando piuttosto nella direzione opposta); non c’è fra noi una guida riconosciuta (il che è probabilmente un bene); e la generazione precedente non mi sembra affatto stagnante. Il punto 7, infine, si collega all’idea di influenza ed è ancora in larga misura da dimostrare, benché l’approccio comparativo di alcuni studi miei (per esempio, quello sul “realismo empatico”, qui) e di Roberto Batisti (come quello, invidiabile per precisione e sistematicità, su Francesco Maria Tipaldi, scaricabile qui) abbiano già intrapreso quella strada.

Tirate le somme, anche a voler applicare criteri storico-letterari, siamo una generazione a metà: lasciamo il modulo spuntando solo tre o quattro punti su otto. Questa incompletezza potrebbe tuttavia ascendere a potenzialità: alcuni dei punti cruciali (direi il 4 e il 7) si sveleranno solo col tempo, e ciò dipenderà dalla nostra stessa volontà, dal lavoro teorico e pratico svolto da ciascuno di noi.

 

Genealogia – un concetto ancora utilizzabile?

 I poeti della Generación del ’27 si riunirono nel trecentenario dalla morte di Luis De Góngora, poeta barocco e figura di punta del Siglo de Oro spagnolo. Modo simbolico di omaggiare l’autore, certo, ma più ancora di assumerne su di sé l’eredità culta, iperletteraria, votata alla complessità e al concettismo. Analogamente, Eliot scrive sui poeti Metafisici inglesi (Donne, Crashaw, Marvell…) elogiandone, fra l’altro, «the failure of conjunction» (il fallimento del nesso) che è un principio strutturale della stessa The Waste Land, pubblicata un anno dopo il saggio. E Sanguineti evidenzia la propria adesione al materialismo anche traducendo Il De Rerum Natura di Lucrezio.

Questi esempi, che si potrebbero moltiplicare, ci fanno capire come una generazione, o un singolo poeta, traccino per sé e per i propri lettori una genealogia – una sorta di prelievo mirato dal gran mare della tradizione – che possa contribuire a dare fondamento, orientamento e identità alla propria opera in fieri. Quindi il concetto di genealogia non è alternativo a quello di generazione, ma si pone anzi in un rapporto di implicazione: non si dà generazione senza elementi culturali condivisi (punto secondo dei criteri di Petersen nella terza sezione). Uno di questi è l’identificazione di una genealogia comune. Inizialmente l’identificazione non è un atto analitico ma volitivo e attitudinale, esprimendo una tensione o un programma degli autori che la abbozzano in manifesti o la elaborano in interventi teorici; ci penserà più avanti la filologia, sempre che sopravviva essa stessa, a dimostrarne testualmente la pertinenza, o a refutarla.

Quel che conta è che, evocata la genealogia di cui si vorrebbe essere eredi, si inseguono almeno due obiettivi: primo, dar forma e direzione al proprio agire presente, e di conseguenza rifiutarsi di affidare la propria prassi scrittoria interamente ai capricci dell’ispirazione e alle contingenze biografiche. È come se ci si edificasse un argine per non ritrovarsi sballottati qua e là, facili prede di sirene vecchie e nuove. Secondo, l’obiettivo di definirsi contro generazioni preesistenti, a loro volta tenute insieme da altri modelli. Per esempio, secondo due studiosi del postmoderno poetico come Marjorie Perloff e Brian McHale, la novità delle avanguardie consiste nel recuperare modi precedenti (per esempio la satira, o il poema didattico) eclissati da secoli di dominazione lirica. Paradossalmente, la novità è tanto più forte quanto più vecchia, cioè quanto più rilancia e riadatta modalità cadute in disuso e di cui si è persa memoria – per eccessiva omogeneità di offerta – anche tra i lettori forti. La distanza temporale stessa minimizza il rischio di epigonismo che si correrebbe qualora i modelli di riferimento fossero troppo recenti, magari di autori ancora in vita. In quel caso, alla volontà conscia di ripresa selettiva della tradizione (genealogia) subentrerebbe l’inconscia eco di un rivale (influenza).

Dopo questo excursus, il nocciolo della questione è: quale beneficio deriveremmo a spostare, per la nostra generazione (ammesso che esista, e il mio punto è che esiste solo a metà, come ho scritto poco prima), il discorso dalla generazione stessa alla genealogia? Meglio ancora: è possibile farlo, in prima istanza? Richiamarsi a una genealogia è più difficile oggi, un po’ perché le generazioni contro cui definirsi sono esse stesse meno nitide che in passato, un po’ perché internet e i social media, con la diffusione indisciplinata, spesso anarcoide, di testi poetici decontestualizzati, hanno elevato alla massima potenza l’incidenza del caso – prima confinato al mondo fisico, ai fortuiti incontri in libreria e in altri spazi di aggregazione culturale. L’argine della genealogia appare, tutt’al più, un fuscello simbolico davanti a un fiume in piena, una costruzione anacronistica nella sua imperturbata linearità.

Ma è davvero così? Troppo presto per dirlo. Il ricorso al concetto di genealogia sarebbe senz’altro proficuo dal punto di vista accademico – per inquadrare più compiutamente il lavoro dei nostri coetanei. Il compito sarebbe oltremodo facilitato dalla reperibilità, su interviste online o persino sui social, dei dati grezzi, cioè delle affermazioni degli autori sui modelli e i maestri su cui si sono formati. Non è chiaro invece quale spazio possa avere in un dibattito più ampio, extra-accademico, che non voglia scadere in un gioco di tifoserie. Qui la potenzialità potrebbe stare nel mettere a nudo, con l’atto della scelta, il tout va bien imperante che, nella lodevole divulgazione di materiali poetici, tende però a sostenere indiscriminatamente autori tra loro molto diversi, se non addirittura incompatibili. Così, in mancanza di argomentazioni serie, il confine tra flessibilità estetica e acriticità inglobante diventa sempre più sottile.

Infine, uno dei rischi del concetto intrinsecamente esclusivo di genealogia è quello di distorcere le dinamiche più fluide del nostro tempo: un po’ come tentare di misurare il vento con un righello. Pertanto potrebbe essere utile affiancarvi un correttivo più inclusivo – il concetto di costellazione, forse, non costretto dalla discendenza lineare ma espanso in forme variabili, che moderni software di visualizzazione dei dati e di linguistica dei corpora potrebbero persino simulare. È però anche vero che l’intransigenza ordinatrice insita nell’idea di genealogia è una cura nel breve termine più efficace, perché più drastica, nei confronti dello smarrimento dominante.

 

Influenza, evoluzione, memi

La genealogia uno se la sceglie come un(a) partner o una fede politica; ma l’influenza si trasmette e si attacca come un virus. È comprensibile che i poeti possano temere e respingere questa minaccia. Così, in una lettera indirizzata a Richard Eberhart, Wallace Stevens scrive: «Che io ne sappia, non sono stato influenzato da nessuno e mi sono tenuto volutamente alla larga dal leggere gente manierata come Eliot e Pound, in modo tale da non assorbirne nulla, nemmeno inconsciamente» (trad. mia). L’atteggiamento di Stevens sembra un monito contro l’estrema permeabilità in cui la nostra generazione si trova ad operare – oggi sembrerebbe puerile rifiutarsi di leggere libri in vista con la scusa di non volerne essere influenzati. Ma, sia detto in tutta onestà, difficilmente si trovano libri di tale magnetismo da indurre in chi legge l’ansia dell’influenza, la coazione a echeggiare (l’ultimo vero e proprio modello in tal senso è probabilmente Milo De Angelis). E altrettanto difficilmente abbiamo un senso della nostra identità tanto definito da sentirci minacciati dalla possibilità della contaminazione. Semmai, a insospettirmi nelle dinamiche social è la non-rivendicazione di una differenza nel proprio fare poetico, l’abbraccio indiscriminato non solo verso il passato ma gli uni verso gli altri. Forse quando non c’è più nulla da difendere si cerca calore reciproco, si dimentica l’agonismo che formò la grande tradizione di cui Eliot, Pound e Stevens furono parte.

Il passo originale della lettera è citato nel celebre lavoro di Harold Bloom, The Anxiety of Influence (L’ansia dell’influenza). Se l’ho citato a La Spezia, passando per passatista (mi si perdoni il calembour) è perché il lavoro di Bloom sul concetto di influenza e genealogie resta, malgrado certi eccessi speculativi e d’enfasi, uno strumento d’indubbia forza conoscitiva. Risentirsi perché non sono stati fatti nuovi nomi, più recenti, sarebbe puerile, come se la ricerca della novità fosse un valore in sé, la novità erroneamente coincidendo con ciò che è più recente, magari sincronico – uno stimolo a decadimento quasi immediato. Il risentimento di Lello Voce si spiega probabilmente con l’attitudine conservatrice, di ostilità agli sperimentalismi, del critico del Canone Occidentale. Ma non è su queste polemiche contingenti che mi interessa soffermarmi.

Vorrei piuttosto, dopo tanto discorrere e argomentare, esemplificare con i testi. Apportando esempi in parte diversi, seguo Bloom, che identifica un’influenza prima negativa (prima tavola comparativa) e poi di tipo benigno (seconda tavola) di Stevens in John Ashbery:

Stevens nacque nel 1879, Ashbery quasi cinquant’anni più tardi, nel 1928. Ma tra l’ultima raccolta di Stevens e l’esordio di Ashbery trascorrono solo sei anni. Tra i due stili sembra esserci un rapporto di filiazione diretta, ma la vicinanza temporale (che esclude l’ipotesi dell’omaggio e dell’imitazione) e la ripresa non mediata di certi moduli abbassa la genealogia al livello dell’epigonismo. In neretto ho evidenziato le tangenze più cospicue, il “noi” a carattere collettivo (we) e la modalità boulomaica di tipo desiderativo espressa con il condizionale in Stevens e con il verbo desire in Ashbery. Ma occorre anche insistere sul piano tematico, con l’aspirazione verso la completezza (Stevens) e la visita incerta della pienezza nella mancanza di vuoto (Ashbery), nonché sull’andamento sinuoso della sintassi, inarcatura dopo inarcatura. Ecco invece come, da grande poeta quale poi è diventato, Ashbery riesce – nella paradossale formulazione di Bloom – a far sembrare Stevens troppo ashberiano, rovesciando in tal modo i rapporti di forza:

Ma guardate cosa succede qui, quindici anni dopo. Di The Mythological Poet rimangono forse soltanto il noi collettivo e le frequenti inarcature. Ma già il disporsi di queste è meno monotono: in The Mythological Poet lo stesso tipo di enjambment ricorre sei versi su sei, in Fragment ci sono tre versi senza enjambement (il sesto e il nono) e un enjambment molto più contenuto visto che separa diversi sintagmi (verso quattro). Il contrappunto è anche sintattico, visto che dopo due frasi di simile lunghezza (versi 1-6) c’è una constatazione espressa come verità generale («There is nothing laughable | In this»). Anche a livello figurale Fragment è più elaborata e quindi ha un più forte sistema immunitario nei confronti del magistero stevensiano: nessuna traccia di deboli personificazioni espresse tramite similitudine (pleasure… like a dear friend) ancora presenti in The Mythological Poet; la miscela di concreto (heart, skin, grotto, tulip head) e astratto (vocabulary, imaginations, imbalance) è in raffinato equilibrio; il vocabolario geometrico (l’ossimorico central perimeter, orbit) richiama quello stevensiano (center, orb) senza soccombervi; come in Stevens il bene è nominalizzato e premodificato aggettivalmente (imagined good vs gorging good); il modo discorsivo è in entrambi i casi pensoso, sapienziale, ma più empatico e spoglio d’ironia in Ashbery; Ashbery inoltre evita di riproporre le troppo connotate ripetizioni stevensiane così come l’apostrofe ironicamente altezzosa dear sirs, ma perpetua la centralità stevensiana e genericamente romantica del concetto di immaginazione (imaginations, imagined). Insomma, la diagnosi finale è la benignità dell’influenza stevensiana, tanto che ora i due poeti se la giocano alla pari.

Fin qui ho voluto dare una dimostrazione pratica di come esaminare testualmente l’influenza; direi che solo per l’influenza benigna del secondo raffronto si possa parlare di genealogia, cioè di attraversamento consapevole del modello: il figlio, dopotutto, perpetua il padre evolvendolo, non facendo di sé una copia sbiadita e in gran ritardo sui tempi. È chiaro che questi metodi si possono e devono applicare ai contemporanei, e io spesso l’ho fatto, in recensioni e note private, corsivamente o in dettaglio a seconda del tempo e dei propositi; è altrettanto chiaro che, armati di coraggio autocritico, occorra applicarli su sé stessi: quante poesie montaliane, sereniane e poi deangelisiane devo aver scritto prima di essermi guadagnato almeno l’illusione che finalmente la presenza di questi modelli in me è diventata benigna? Comunque sia, verrà presto, spero, il momento di fare un bilancio provvisorio a partire dai dati parziali in possesso; e verrà anche, spero, il momento in cui questa consapevolezza intertestuale diventerà pratica diffusa sulla critica del web.

Questa accezione di influenza trattata sin qui è quella intesa da Bloom come rapporto tra poeti in lotta agonica coi propri predecessori – lotta leggibile nella sistematicità di tratti che si trasmettono da poeta a poeta, dove la sola speranza del poeta nato più tardi, se non vuole restare un epigono, è quella di modificare attivamente l’eredità ricevuta. Ma data la fruizione più orizzontale, indiscriminata e caotica della tradizione letteraria che si verifica oggi, altrettanto e forse più urgente è esaminare un tipo di influenza più nebulizzata, di tipo interdiscorsivo piuttosto che intertestuale.

Restando fedeli all’impostazione più teorica che analitica di questo saggio, mi sembra istruttivo accostare lo stilema obliquo al concetto di meme proposto dallo scienziato evoluzionista Richard Dawkins. Scrive Dawkins «come i geni si propagano nel pool genetico saltando da corpo a corpo tramite lo sperma o le uova, così allo stesso modo i memi si propagano nel pool memetico saltando da cervello a cervello in un processo che, in senso ampio, può essere chiamato imitazione» (traduzione mia). Memi possono essere «motivi musicali, idee, slogan, vestiti» e molto altro. L’esempio verbale dello slogan o della frase memorabile, o comunque del meme verbale circoscritto, è particolarmente rilevante nel contesto poetico che stiamo affrontando. Ne ho dato un ampio esempio nel mio già menzionato saggio sull’uso contagioso e spesso acritico del sostantivo cose, ma molto lavoro resta da fare, sia a livello strettamente lessicale (parole archetipe come casa o corpo) sia di irradiazione semantica più vasta (per es. il tropo scrittura-corpo in certo sperimentalismo, il campo semantico delle piante e dei tessuti in certa poesia femminile). Intanto, consiglio la lettura di Semiotica della poesia di Michael Riffaterre, che discute con acume innumerevoli esempi di trasmissione memica nella poesia francese, specialmente simbolista e surrealista.

La teoria evoluzionista proposta da Dawkins è stata raccolta, per esempio, da Colin Martindale, studioso d’estetica che si è affidato a metodi quantitativi e alla procedura d’indagine scientifica. Il suo The Clockwork Muse formula alcune leggi generali dell’evoluzione artistica, fondandole sul supporto empirico di indici quantitativi. Una sua frase forse getta luce sul mistero per cui, come osservato da Gilda Policastro, oggi non sembra quasi darsi contaminazione tra area cosiddetta sperimentale e area cosiddetta lirica. Secondo Martindale, «la teoria evolutiva si applica solo a serie di artisti che lavorano nella stessa tradizione. L’evoluzione estetica è confinata a una tradizione proprio come quella biologica è confinata a una specie». Vedo solo due modi per spezzare la legge. Il primo risiede nella possibilità che, dopotutto, le poesie che scriviamo non appartengano a specie diverse, che sotto le differenze apparenti si celi un fondamento comune; il secondo, nel caso la prima possibilità non si avveri, è quella di legalizzare, dentro di noi, rapporti più libertini con quanto leggiamo. In caso contrario, accettando forse mestamente l’evidenza dei fatti, dobbiamo rassegnarci al fatto che il termine “poesia” coglie la peculiarità delle nostre operazioni non più di quanto il termine “mammifero” colga la peculiarità della nostra specie.

 

Coda

 Confesso di aver avuto la tentazione di terminare il saggio sulla nota perentoria della sezione precedente – questione di eleganza, forse lusinga di una certa memorabilità. Ma così facendo avrei tradito il suo spirito costruttivo e propositivo, e dunque mi concedo una piccola coda antiestetica ma necessaria. Ora che molte carte sono state scoperte, e strumenti concettuali discussi, ecco un programma attuativo in quattro punti che possa, almeno in linea teorica, risolvere ed archiviare il problema generazionale:

  1. Intensificare gli incontri dal vivo e le occasioni di scambio (ammesso ci sia la volontà di costituirsi e proporsi come generazione). Penso non tanto e soltanto a festival, ma soprattutto a spazi di dialogo, di laboratorio e di lavoro e confronto sui testi. Tanto meglio se i convitati appartengono a tradizioni e genealogie del tutto distanti e inconciliabili, per il motivo visto alla fine della sezione precedente. Qui lo scontro tra generazione e genealogia si farà acuto;
  2. Studiare con maggior capillarità le influenze interdiscorsive e interautoriali, specialmente a partire dai modelli dichiarati da ciascun autore; accostare all’idea di genealogia quella di costellazione, a patto che i due concetti non si scoprano rivali e dunque incompatibili;
  3. Ricorrere più spesso, nella critica come negli scambi, alla pur sgradevole etichetta di epigonismo quando sostanziata testualmente, per tenere alto il livello di guardia dei nostri coetanei;
  4. Infine impegnarsi, ognuno secondo le proprie capacità, a proporre una linea, un’idea di poesia anziché farsi trasmettitore indifferenziato di cultura poetica. Siti-riviste come Formavera, siti-editori come Diaforia, editori come Prufrock Spa, critici come Matteo Marchesini e Gilda Policastro, poeti e animatori culturali come Dario Bertini hanno fatto e continuano a fare di questo imperativo militante una priorità. Ma queste sono ancora eccezioni. Dopotutto, se nel complesso la forma collettiva della nostra generazione è sfumata, almeno una piccola parte di colpa dovremmo anche riconoscerla a noi stessi.

Congedandomi, posso solo sperare che il presente saggio possa agire esso stesso come un meme contagioso nella comunità poetica che stiamo volenterosamente cercando di costruire.

                                                                                                            Vilnius, Aprile 2017