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Quaderno XIV – Su “La cifra dello strappo” di Giovanna Cristina Vivinetto

Se è vero che il secondo album è sempre il più difficile nella carriera di un artista, si penserebbe che minori pressioni gravino sul poeta alla seconda pubblicazione, in un’Italia dove il pubblico della poesia tocca spesso non ironicamente la cifra manzoniana dei venticinque lettori. Si dànno tuttavia eccezioni, ed è questa un’ottima notizia per la vitalità del movimento, anche al di fuori di quei libri – divertissements di stimati narratori, vanity projects di fatui politici e giornalisti tuttologi, sottoprodotti della cultura influencer – che occupano gli scaffali della poesia solo per una malintesa questione tassonomica. Lo scorso anno un libro di versi, Dolore minimo di Giovanna Cristina Vivinetto (Interlinea, 2018) ha potuto diventare caso letterario e suscitare appassionate reazioni anche al di fuori della solita cerchia di specialisti del settore. Lo ha fatto, è vero, per ragioni di contenuto (l’aperto e sofferto resoconto di una transizione di genere male to female) e non di tecnica poetica o di trovate formali. Il lato propriamente artistico dell’opera prima di Vivinetto, invece, è stato giudicato non entusiasticamente da diversi addetti ai lavori, fra cui l’autore delle presenti righe. Ma non c’è dubbio che la sua scrittura rientri a buon diritto nel genere ‘poesia’, a differenza degli equivoci prodotti editoriali mentovati sopra, e come tale vada giudicata. È quindi con importanti aspettative che molti di noi, penso, hanno atteso La cifra dello strappo, raccolta che chiude questo XIV Quaderno di Poesia Italiana.

Non si tratta, in realtà, di novità assolute. La prima parte della raccolta riprende infatti alcuni testi da Dolore minimo; segue una sezione circa egualmente estesa di poesie inedite, che sviluppano peraltro temi e modi della silloge d’esordio. La nota critica introduttiva di Alberto Bertoni conferma già dal primo paragrafo quanto sia difficile trattare dei testi di quest’autrice senza parlare anzitutto della loro ricezione – fatto normale per un classico, ma paradossale per un’esordiente di 25 anni. L’autrice si muove quindi, nel bene e nel male, ancora nel solco dell’opera che ce l’ha fatta conoscere. Un’occasione, comunque, per approfondire e meglio argomentare – ma in definitiva confermandolo – il giudizio già espresso su questi schermi.

I testi qui riproposti consentono d’esemplificare alcuni pregi e difetti della sua maniera. Si prenda ad esempio Che nome scegli papà-giudice…, convincente quando descrive le minime implicazioni burocratiche della nuova identità: «sbarazzarsi delle ‘emme’ sui documenti | e arrotondare le vocali finali» (con riferimento al gesto che corregge l’<i> in <a>), ma un po’ estenuante nell’enunciare fino allo sfinimento la metafora generativa del testo, quella della pratica tribunalizia del cambio di nome come seconda e vera nascita, con tanto di «doglie» e, appunto, di giudice trasformato in padre. Così come estenuanti riescono le insistite apostrofi a quest’ultimo, in un poesia che come molte della prima raccolta è tutta indirizzata a un Tu – che altrove può essere il padre biologico, la madre, un amante o un ex compagno di scuola, o anche Giovanni, il vecchio Sé maschile. E va detto che l’autrice sa come allestire un coinvolgente teatro della coscienza, spesso giocato su trovate un po’ concettose ma interessanti – come anche (a p. 322) l’autoraffigurazione in vesti di «madre atipica, madre | di una figlia atipica»: dopo diciannove anni, Giovanna ha partorito la sé stessa femmina.

Ma le figure di questo dramma barocco sono rivestite di panni (linguistico-lessicali) rattoppati. Il problema, più ancora che nelle accorate apostrofi (che sono alla fine una scelta caratterizzante e non inefficace), sta infatti nel troppo frequente ricorso a sintagmi che sanno di poetese generico, ai limiti del kitsch, tra orfismi di seconda mano e aggettivazione pigra: «tutto lo stupore della vita», «la poesia invisibile che mi circondava», «cedetti alla sua femminea seduzione», «io rimango con un grumo | di parole che non riesco a dire»… e si potrebbe proseguire ad libitum.

Affine ma più specifico è il problema con l’uso di un registro corporeo e viscerale. Se qualcuno ha tutto il diritto di percorrere le discusse vie della poetica del corpo, è evidentemente proprio chi come Vivinetto è nato in un corpo non suo e ha sofferto, carnalmente e psicologicamente, per conquistarsene uno nuovo. Il problema è che proprio la diffusione spropositata di quelle poetiche ha logorato parole apparentemente innocue come corpo, carne, pelle, ferite, che non si possono più abusare impunemente; per non parlare d’immagini come «Il vessillo di un corpo-bosco | che muore e rinasce a pezzi». Il risultato – e qui la colpa non è tutta dell’autrice – è che proprio là dove si vorrebbe nominare il più materico vissuto sembra invece che si stia ricalcando una pervasiva, insopportabile retorica.

Qualcosa di simile accade nel testo che evoca la figura di Tiresia. L’indovino tebano è, nella tradizione occidentale, il grande archetipo mitico per chi voglia descrivere l’esperienza del cambio di sesso. Questo potenziale simbolico rischia però di restare inerte se non viene rinnovato da un uso non banale. Nel testo di Vivinetto, il richiamo risulta ‘telefonato’, scolastico, se non pretestuoso («Quando nacqui mia madre | mi fece un dono antichissimo, | il dono dell’indovino Tiresia: | mutare sesso una volta nella vita»). Impietoso, e un po’ fuori luogo, sarebbe il confronto col Tiresia di Giuliano Mesa, se non altro perché lì non si parla di transessualità – ma il poema oracolare di Mesa è un esempio magistrale di come alludere al mito classico e recuperarne la potenza in un àmbito pienamente contemporaneo e sperimentale, senza scadere nel classicismo.

Nel momento in cui il proprio argomento è abbastanza forte da generare da sé interesse e impatto emotivo, si potrebbe anche puntare tutto su una nuda e scabra confessione diaristica; altrimenti, se si nutrono, accanto all’esigenza di dire la propria storia, anche ambizioni letterarie, si può sottoporre quel nucleo rovente a una paziente rielaborazione, e magari allontanarlo dal centro della pagina, per lasciare che traspaia fra le righe. Quel che invece risulta controproducente è lo sforzo di ‘poeticizzare’ la materia autobiografica con poetismi da bacio Perugina e citazionismi scontati.

Quanto, allora, l’autrice è riuscita a smarcarsi dai limiti sopra indicati? I nuovi testi, che sembrano costituire un’unica suite legata, inscenano nuovamente il dialogo col padre, dove l’intreccio fra la voce dell’Io e quella dell’Altro è, come acutamente rileva Bertoni, «molto efficace – anche in chiave propriamente teatrale». E chissà che la scrittura teatrale non sia la vera vocazione di quest’autrice tendenzialmente portata alle allocuzioni drammatiche e alla retorica, ma senz’altro abile a evocare un pathos tragico. Proprio la figura paterna è oggetto qui non d’invettive ma di studio amorevole. Il percorso sentimentale del genitore di fronte al trauma della transizione filiale è una vera e propria elaborazione del lutto, dipinta con realismo psicologico e pietas anche quando prende l’aspetto del rifiuto rabbioso. La scrittura dimostra buone doti d’empatia, cancellando il sospetto che l’universo poetico di Vivinetto ruoti tutto attorno all’istrionico Io autoriale. Su questa linea, trovo notevole e toccante la poesia di p. 351, dove Giovanna sorprende il padre a riempire ossessivamente un foglio col nome del figlio maschio ormai scomparso:

“GIOVANNIGIOVANNIGIOVANNI” avevi
scritto per ore senza sosta
fino a consumarti quasi le dita.

“Non possiamo permetterci di scordare”
hai disserrato le labbra piangendo.

“Giovannigiovannigiovanni” hai cantato
questa notte una nenia tremenda
trascinando le sillabe nel sonno.

La reazione della figlia è, a sua volta, devastata («Avrei voluto strapparmi | gli occhi e poi i tuoi») e pietosa («come | placare quel pianto radicato | nelle vene, come prosciugare il dolore»). (Sebbene, di nuovo, nulla aggiunga il ricordo liceale delle «antiche madri greche | col velo di morte premuto sugli occhi | a piangere i figli in riva al mare» appiccicato sùbito dopo l’autentica climax emotiva).

Accanto alla gradita conferma dello spessore etico e umano c’è forse una certa maturazione stilistica rispetto all’esordio: i testi hanno sempre un tono eloquente e a tratti grandiloquente, ma il loro incedere sembra più ponderato, il loro approccio meno frontale. S’inizia con la descrizione, appropriatamente lenta e solenne, di un rito funebre in un’atmosfera silente e sospesa; e si legge per una pagina e mezzo prima di capire che è il funerale simbolico di Giovanni, la dismessa identità maschile con cui «Avevamo convissuto per venti anni | eppure già non ci apparteneva più». È una trovata azzeccata, ed eseguita con gusto; la ‘prima’ Vivinetto, forse, l’avrebbe maggiormente urlata e tirata via. In una poesia da Dolore minimo qui riproposta c’è infatti uno spunto simile, ma con una messa in scena molto più esibita, dall’apostrofe iniziale («Non esisti più, Giovanni») all’inquietante dubbio finale («Non esisti, mi convinco, tamburellando | sulle guance le dita. Quelle stesse dita | che un tempo furono le tue»). Era già quello un “bel testo” giustamente apprezzato da Davide Castiglione; quelli nuovi, approfondendo lo spunto, lo superano in finezza e in ampiezza di respiro. (Ma, anche qui, perché esplicitare didascalicamente «la compostezza | ieratica di un mistero insondabile», quando la compostezza ieratica è già stata bene espressa nei versi precedenti?). Il testo nuovo, poi, si esprime in una prima persona plurale che ritorna spesso nella sezione inedita e alternandosi all’Io e al Tu in conflitto dà un apprezzabile respiro corale.

Insomma, gl’inediti tendono nel complesso a una pronuncia più sorvegliata, e puntano meno sull’esibizione del dettaglio scabroso o sull’apostrofe patetica. In questo senso, dànno ragione a chi fidava nella maturazione della pur sempre giovanissima autrice e credeva ci fosse in Dolore minimo qualcosa di più che la potenza ‘scandalosa’ e la rilevanza politica del tema. Ma se Vivinetto ha sicuramente conquistato la padronanza di un verso duttile ed espressivo non ignaro della koinè poetica medio-alta, che impedirà di sostenere che ‘scriva male’ (tanti suoi coetanei fanno esordi peggiori, più ingenui, senza neanche i meriti testimoniali) o che dorma sui suoi freschi allori, qualcosa forse si perde rispetto al pur discutibile debutto. Ed è proprio quell’immediatezza nel metterci davanti l’urlo di dolore («solo ironicamente minimo», nota Bertoni) e il dato concreto, dell’esperienza di transizione, spicciolo, al limite imbarazzante ma sempre rivelatore. Già Simone Burratti ha osservato che erano questi i tratti più vivi e interessanti della scrittura di Vivinetto, e anzi ne lamentava la relativa rarità in Dolore minimo. Ma sono queste schegge di realtà a restare: l’umiliazione degli «Scansatini, Signuri» profferiti dai compaesani siculi; le varie pillole che scandiscono la giornata del transessuale rimodellando ciascuna un tratto del suo corpo; i tratti somatici che ancora tradiscono il genere di nascita («Un filo di barba residua, | lo sporgere virile delle clavicole, | la fossa concava del mento, | il pomo che inchioda alla colpa»); il miracolo dell’amore che rende possibile vivere appieno la femminilità d’un corpo infertile, che non ha «figli da dare […] tube che si gonfiano | né ovuli da spargere per il mondo […] vulve da tenere fra due dita – da schiudere fra le valve | delle gambe».

Simili spunti facevano della silloge, prima ancora che un’opera d’arte più o meno riuscita,  anzitutto una testimonianza, un documento di formativa lettura, capace di gettare luce su una realtà ferocemente discussa ma ancora troppo poco nota ai più. Questo faceva in fondo perdonare certa approssimazione formale, e anzi in qualche misura ne traeva persino vantaggio. Ora, è come se lo stile più elaborato e la costruzione più meditata servissero ad allontanare e ad astrarre (dal lettore, se non dalla scrivente) il dolore che pure ne resta ispirazione centrale. Si apprezza la volontà di crescita, ma si stringe di meno, e la retorica dei versi per quanto stemperata rischia spesso di suonare generica. Senza, d’altronde, che la relativa rifinitura stilistica e strutturale arrivi davvero a un livello capace di soddisfare quanti dalla poesia cercano un attrito con la lingua e con la tradizione letteraria non meno che con la realtà.

Per Vivinetto, finora, materia autobiografica e vocazione poetica hanno fatto un tutt’uno. Piacerebbe vedere, in prove future che certo non mancheranno, se l’una saprà dispiegarsi in autonomia dall’altra.