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#PremioBg19 – Due parole con Andrea Gentile

Pubblichiamo oggi la prima di cinque interviste ai finalisti del Premio Narrativa Bergamo 2019, che verrà assegnato nell’Auditorium di Piazza Libertà, a Bergamo, sabato 27 aprile 2019. Andrea Gentile è stato il primo finalista che ha presentato il suo libro, I vivi e i morti (minimum fax 2018) al pubblico del Premio. L’abbiamo incontrato nella hall dell’Hotel dei Mille di Bergamo e gli abbiamo rivolto qualche domanda per entrare nel cuore della sua scrittura e delle scelte che l’hanno portato a questo libro.


I vivi e i morti è un romanzo che pone al lettore, fin da subito, una serie di problemi; a partire dal genere di romanzo. Nelle varie recensioni uscite sono state utilizzate etichette diverse per riferirsi al libro, come “gotico”, “horror”, “fiaba nera”, “realismo magico”, romanzo “surreale”. Il romanzo non ha una trama forte, anche se si riconoscono personaggi e storie che s’intrecciano in maniera quasi ricorsiva; vero protagonista è il paese di Masserie di Cristo, nel Molise più rurale, intorno al quale si muovono persone, anime, voci, in un quadro che sembra restituire degli usi, delle leggende, degli ammonimenti, più che una narrazione vera e propria. Allora la domanda che sorge è che genere di romanzo è I vivi e i morti o quale etichetta si addice di più all’idea che tu avevi in mente quando l’hai scritto?

Mah, c’è da dire che quando uno scrive un testo non necessariamente può utilizzare un protocollo, oppure può immaginare di vivere l’esperienza della scrittura come qualcosa che cresce e che ti trascina in territori magari ignoti, inesplorati da se stessi. Prima della scrittura. Come se la scrittura potesse essere un arpione per portarti non solo in luoghi, ma in luoghi della mente, in luoghi interiori che non avresti raggiunto senza questo strumento, che è quello neanche della parola, ma della messa in atto di un pensiero. Perché dico neanche della parola, perché non necessariamente la parola ha la forza. E questo è un problema per chiunque scrive; spesso la parola riesce a esprimere solo in parte quello che davvero siamo capaci di sentire come esseri viventi, prima ancora che di pensare come esseri viventi. E quindi da questo punto di vista mi sembra davvero difficile ragionare in termini di genere.

Una volta cercavo una recensione per una lezione sulla distopia e ho trovato questa definizione e mi son detto che forse poteva essere un pretesto per descrivere un genere; una definizione di distopia che non è quella letteraria, ma quella medica, che è «alterazione dei tessuti». E quindi io per trovare una scorciatoia ho detto che forse la letteratura intesa come alterazione di un tessuto, per deformazione o per malformazione congenita, può essere qualcosa di interessante. Leggere la letteratura come una distopia in questo senso.

Sì, perché se pensiamo alla distopia pensiamo a una proiezione in avanti, in un futuro diverso da come noi pensiamo che si svilupperà, mentre qui c’è semmai un ritorno al passato. Ma c’è da dire che Masserie di Cristo, per come viene raccontata, e per come si muovono i personaggi in questo scenario, sembra un luogo senza tempo; e anche senza spazio. Colpisce l’immaginario che tu riesci a convocare e a dipanare in questo romanzo; colpisce anche – e forse la notazione è un po’ banale – in relazione alla tua giovane età. Perché comunque I vivi e i morti è un romanzo ambizioso per tanti aspetti, a partire da questa idea di costruire un intero mondo e costruirne anche la storia. Mi viene da chiederti allora, sembra che ci sia alla base di questo libro un nocciolo duro di letture, ma forse anche di visioni e di esperienze culturali in senso più lato. Quali sono i riferimenti, i puntelli che stanno alla base di questo libro?

C’è una domanda che si pone Blanchot: «noi siamo a seconda di quello che scriviamo, o noi scriviamo a seconda di quello che siamo?» Questo in qualche modo l’ho elaborato a posteriori, dopo la scrittura. Ho pensato che per quanto riguarda la mia piccola esperienza la risposta più giusta sia la prima: noi siamo a seconda di quello che scriviamo. La scrittura intesa come uno spazio che tu puoi navigare e che ti porta a mutare la tua esistenza, e non necessariamente per questioni di memorabilità, ma proprio per questioni di sfumature e di dettagli interiori.

Siamo esseri “spaziosi” in quanto esseri umani, forse la scrittura può aiutarci a essere ancora più spaziosi. L’idea di scrittura come forma terapeutica è stata utilizzata per decenni. L’idea di spaziosità, di apertura in questo tentativo, in questo combattimento con se stessi per espandersi dentro di sé può essere una delle possibilità. Chiaramente è un’esperienza totalmente intima e difficile da descrivere, che c’è la grande difficoltà per chi scrive di dover poi, in qualche modo, fare un lavoro di esegesi su se stessi, rendere conto, quando in realtà il testo è qualcosa che è fuori da se stessi. È veramente una difficoltà enorme, e potenzialmente – anche questa è una cosa che si è molto detta, ma mi sembra sempre vera – se lo scrittore non parlasse sarebbe meglio. Il testo è una cosa che sta lì ed è un organismo vivente.

Allora facciamo solo un’altra domanda così poi veniamo incontro a questo legittimo desiderio.
Lo stile è forse l’elemento che più colpisce di questo libro, perché in alcuni passaggi in cui la trama sembra affievolirsi o sgretolarsi di fronte agli occhi del lettore, quello che resta è la proprio la materia della lingua, una lingua che sa muoversi su più registri, sa toccare l’estremamente terreno, anche il basso corporeo, ma anche alzarsi a un tono che a volte è epico, a volte lirico, a volte addirittura – è stato scritto – liturgico, per via di un elemento quasi religioso, in questa lingua e in questa voce. Che è quella che racconta e dà corpo alla realtà Masserie di Cristo. Allora, da dove viene questa voce, come hai maturato questo stile così personale?

Sì, sostanzialmente bisogna capire poi perché uno scrive delle parole. Ci sono moltissime possibilità, la scrittura è chiaramente forma e la scrittura può essere stile e può far sì che questo stile coincida in qualche modo con una visione del mondo, con un’esplorazione del mondo. C’è un tema che mi pare molto presente in questi anni, che è la levigatezza. Tutto quello ciò che è bello è levigato, se ci pensiamo: le sculture di Jeff Koons sono levigate, lo smartphone è levigato, una trama molto lineare è qualcosa di levigato. Mi pare ci sia un chiaroscuro e una possibilità di sfumare questa levigatezza, di rovesciarla e quindi concepire lo stile anche qui come un’esplorazione, qualcosa che può andare incontro a un farraginoso, a un corrusco, a un oscuro, a qualcosa dove in qualche modo sedimentano i significati. Non per essere necessariamente espressivi o espressionisti, ma proprio per esplorare, per indagare il più possibile ogni singola manifestazione umana. Le manifestazioni umane hanno innumerevoli sfumature e, da questo punto di vista, quindi, anche il liturgico a cui ti riferivi credo che generi una considerazione ulteriore. Ci sono alcune pratiche che l’uomo compie, come può essere la preghiera oppure un certo tipo di bestemmia, tutta una serie di atti che hanno a che fare con la liturgia, che ci danno la possibilità di rovesciare, di vivere pienamente l’istante, proprio perché questa parola, questa forma che incarna la preghiera o la bestemmia perde di peso nel momento in cui perde il suo segno, proprio perché è avvolto da una nenia, da una cantilena. E a quel punto hai a che fare con uno svuotamento del significato; che non vuol dire che stai smarrendo il significato, ma magari stai cercando di trovarne altri, quindi il proliferare di significati dentro di te. Quindi da questo punto di vista penso che in questo senso uno stile possa essere concepito, oltre a tutta una serie di discorsi molto più ampi che possono avere a che fare con lo stile in letteratura.

Per chiudere, una domanda molto più leggera che facciamo tuti gli anni. Visto che sei finalista a un premio, se dovessi dire una caratteristica del tuo libro che potrebbe colpire il pubblico e farti vincere, quale sarebbe?

In tutta sincerità credo nessuna. Perché non sono in grado di dirla, perché è una cosa che sento lontana da me. È un testo che sta lì e non sono minimamente la persona in grado di rispondere a questa domanda.