C’è bisogno, più che mai, di parlare dell’opera di Ida Travi.
Io credo che in questo momento storico e politico, questo bisogno sia più evidente, più di altri poeti, più di altre scritture. Non uso la parola “urgenza”, troppo distrutta ormai dal vandalismo della politica; e non azzardo e non scrivo “necessità”, per pudore di chi ha sete, di chi ha fame: riservo questa parola per altri ancora più gravi scenari, ahimè tremendamente attuali. Ma sicuramente avverto il bisogno di invitarvi – come a qualcosa che nutre, che guarisce: che chiarisce – alla lettura della grande opera in versi che questa autrice ha compiuto negli ultimi otto anni e che, con l’ultimo volume Tasàr, animale sotto la neve del 2018, ha trovato infine compimento. Cinque sono i volumi di cui si compone; cinque raccolte di voci, frammenti, dialoghi, ombre, desideri, preghiere e invocazioni e infine sussurri e minimi scenari di liberazione e pietà, compongono quella che è stata definita la prima saga in versi contemporanea, o meglio un’epica dell’«inquieta persistenza» (dalla Nota critica di Daniele Barbieri, p. 138). A partire da TA’, poesia dello spiraglio e della neve (2011) e poi con i successivi Il mio nome è Inna (2012), Katrin, saluti dalla casa di nessuno (2013), Dora Pal, la terra (2017, tutti editi con rara eleganza da Moretti&Vitali), Ida Travi è stata capace di dare voce ad un universo poetico unico e originalissimo, per cui è difficile trovare confronti: forse solo l’ultimo Caproni può esserle accostato. Un mondo, questo che si dipana nei cinque volumi, che è abitato da personaggi che la fantasia della scrittrice ha denominato Tolki, di cui pochissimo si sa e che sembrano costituiti soltanto della loro capacità di parlare (infatti, they talk), e dal fatto di vivere – ma bisognerebbe dire: resistere – in un universo ai margini del nostro, un sottosopra elementare, fatto di materie allotrie, ma prime, ostili e iconiche, come neve, schermi, vento, autostrada e legno, che si incunea nei non luoghi periferici delle nostre più frenetiche metropoli contemporanee. È questa la terra di Zard, lo spazio dove tutta la saga ha luogo, un luogo che sembra nato al seguito di una «cesura» tragica, un evento non detto e non scritto, che si situa in un passato incerto, ma nondimeno sempre imminente. Nella terra di Zard, infatti, è costante «la sensazione che qualcosa di terribile possa sempre accadere» (Barbieri, p. 136). Ma da dove vengono questi personaggi? Perché sono lì? Di cosa vivono? Cosa fanno?

Le risposte a tutte queste pur lecite domande, nell’epica della Travi, sono disattivate. I Tolki, ovvero Inna, Sunta, Katrin, Kraus, Antòn e gli altri, sono soltanto il loro esistere: non altro sembra essere il loro compito; e il loro esistere si manifesta come capacità di pronunciare parole, parole umanissime e feriali, ma che si impongono sulla pagina come se fossero a metà strada fra l’allibita esibizione di esistenza e la richiesta di una risposta totale. Così scrive a proposito dei Tolki, l’autrice stessa nella prosa che apre TA‘, il primo volume della saga: «Parlano una lingua ridotta all’osso. […] Si vergognano di una parola in più» (p. 12); e ancora nel volume successivo, Il mio nome è Inna, scrive: «la loro lingua è misera, è una lingua da nulla. Sembrano esseri da poco nati alla parola, vivono incollati al loro nome. Quattro parole in croce, tutto qui» (p. 11).

La saga dei Tolki fin da subito appare come una saga sul linguaggio o meglio del linguaggio, l’ultima e la prima azione che rende umano l’uomo, la sua unica possibilità, la sua croce. Se entriamo nel grande poema della Travi con questa chiave, iniziamo a comprendere la straordinaria potenza speculativa di quest’opera, che va di pari passo con quella evocativa. Non solo infatti la sua poesia è capace di catapultarci in una dimensione immaginaria di straordinaria intensità fisica (la sua lingua è così essenziale che si riesce a percepire il freddo sulla pelle, come se fossimo lì, lì da sempre, per sempre), ma è anche capace di condurre in questo vasto movimento in cinque volumi una vera e propria speculazione sull’essere umano come quell’animale che non solo è l’unico, fra tutti gli esseri animati, a parlare; ma che è anche l’unico che ha sempre bisogno di imparare a farlo, sempre daccapo, mai definitivamente: il linguaggio umano non è determinato da nessun meccanismo biologico, non è natura, è cultura. E infatti, nel ciclo dei Tolki, l’umano non appare come solo l’unico animale che ha il linguaggio come strumento più proprio, ma è quell’essere che ha il linguaggio come suo destino: per essere umano, deve sempre compiere la distanza che lo separa dalla sua infanzia, deve sempre avere da essere quell’origine inesausta che lo guida verso la parola. Il poema dei Tolki, in questo senso, ci aiuta ed è ciò di cui abbiamo bisogno, oggi, in questo nostro mondo che non sa più parlare con lo sconosciuto, che è ossessionato dalla psicosi del diverso e, quando adopera il linguaggio in pubblico, stenta a superare la soglia del grugnito e dell’urlo. Perché se è vero che tutti i personaggi non fanno nient’altro che provare a parlare, a parlare davvero (ovvero provano a esistere pienamente nel linguaggio, fino allo stremo, fino al silenzio, fino a far esistere il silenzio del mondo nel linguaggio), noi, leggendo e incarnando con la nostra voce le loro prove di esistenza, facendo esistere loro, rendiamo possibile anche la nostra esistenza, imparando daccapo a parlare, riallacciando il filo perduto con la nostra infanzia e traguardandolo una volta di più. E così, con Ida Travi, ritroviamo intatta la potenza più originaria del gesto poetico: impariamo ad uscire dal silenzio delle vanità e a dire il mondo.

Non è un caso che la prima voce che incontriamo, nel primo capitolo dei cinque, è una voce che si mostra come denudamento, che chiede di essere vista mentre si denuda. Dice infatti: «Non ti serve una pala per scavare un’anima// Vuoi vedere/che mi tolgo il cappotto?// Vuoi vedere/ che mi tolgo il secondo cappotto?// E adesso, lo vedi, il mio spirito, lo vedi?» (TA‘, p. 17). La poesia di Ida Travi, trasportando il lettore in un mondo al di là del mondo, riesce a condurci oltre gli orpelli che velano e che distraggono, per riportarci al puro Spirito, ovvero al nulla della vita vivente, a quel luogo metaforico che, come voleva Agostino, riporta l’uomo alla «sovranità immutabile» su «ogni cosa mutabile»: lo spirito è «il dono dove riposiamo», è concretamente «il nostro luogo» più proprio (Confessiones, XIII, 9, 10). Ed ecco perché in tutti i cinque volumi, ma segnatamente in questo ultimo Tasàr, la poesia torna a nominare le realtà più trite, più note, che sembravano impossibili da scrivere in poesia; lo fa perché tutto qui sembra detto per la prima volta, carico del «mistero doloroso» (Tasàr, p. 21), ovvero del silenzioso nulla che si infrange allo scoccare della prima parola. Così inizia la prima poesia: «Ti ricordi le rose? Ti ricordi/ quando c’erano le rose?» (p. 17).

Decisivo è che la parola, questa parola, per essere vera, deve essere creduta. Uno dei personaggi principali dell’ultimo volume della saga, Sunta («colei che può restare sulla terra poiché non ha bisogno di sollevare il cielo», come scrive Alessandra Pigliaru nella sua bellissima nota, a p. 130), lo dice esplicitamente: «Ti prego, Kraus, ti prego/ – io sono Sunta – / saliremo al monte// Devi credermi, Kraus/ se non mi credi, è la fine.» (p. 59). La parola umana si regge – come gli antichi sapevano bene – sulla Fides: già venerata e chiamata Pistis dai greci, Śrāddha dagli indù, per lei i romani innalzavano templi. L’essere creduti è tutt’uno con l’essere qualcuno: nel momento in cui spera di essere creduta, Sunta afferma anche la propria esistenza. Ida Travi sembra dirci, rovesciando l’assunto del filosofo Berkley, che esse est credi, ovvero: esistere è essere creduti. Ma, per essere creduti, è nondimeno necessario essere percepiti: come attivare questa circolazione fra credere e percepire? Da qui si accede forse al segreto più intimo di questa poesia, che è anche poi il più evidente, come sempre accade; davvero così ovvio e decisivo, è la sua pelle, potremmo dire, così trasparente che oggi è totalmente dimenticata o, peggio, travisata. Per essere creduti e dunque percepiti, è necessario semplicemente avere una voce. Vi è nella poesia di Ida Travi una peculiare qualità vocale della scrittura. Scrive Barbieri che è «come se ci fosse sempre qualcuno che si sta rivolgendo a qualcuno lì presente»; e aggiunge: «questo crea una fortissima sensazione di immediatezza, di essere lì, che tutto stia succedendo ora» (p. 137). Infatti la parola dei Tolki è «scritta, ma suona come parlata». Chi ha sentito Ida Travi leggere dal vivo le sue poesie sa che è difficile esprimerne la sensazione, tanto intensa è la sua tecnica di respiro e memoria, ad occhi chiusi; eppure è niente rispetto a ciò che si prova di fronte alla sua pagina, dove quel suono c’è, ma non è udito se non attraverso se stessi: è come se giungesse alle soglie dell’udito senza perdere il bianco candore visivo che dalla pagina promana, ma anzi come fosse assiepato da quel biancore, ricoperto da questo albeggiare. Davvero, come scrive ancora Alessandra Pigliaru, non è un caso che al centro di questo ultimo volume, l’ultimo della saga, a chiusura di tutta l’epica dei Tolki, ci sia un animale muto: Tasàr infatti è il nome di un asinello, che non parla eppure mostra «la quiete di una sopravvivenza che si fa largo fino a diventare lode alla esistenza». Tasàr: chi è Tasàr? L’autrice ci avverte che è una reminiscenza di Balthazar, animale protagonista del film del 1966, Au hazard du Balthazar di Robert Bresson. Ma Tasàr nell’opera della Travi è anche altro. La Pigliaru scrive: «piccola e soave, ma anche smarrita anima che non conosce altra arroganza se non la sua stessa comparsa al mondo» (p. 129). Tasàr: colui che è chiamato per nome, ma nulla può chiamare. Dice una voce: «I nomi scrosciavano, io cercavo d’asciugarli col respiro» (p. 117). Tasàr «gira la testa piano/ come se venisse giù dal cielo» (p. 118). A Tasàr Sunta parla, ma Tasàr non può rispondere, deve accettare, ricevere tutte le parole del mondo, tutte le domande, come se fossero fiocchi di neve. «Tasàr, Tasàr… cosa sarà di noi/ torneremo là, da dove siamo venuti?» (p. 123), chiede un’altra voce nell’ultima poesia del libro. Ida Travi sembra dirci che, se vogliamo essere umani, tornare ad essere umani, dobbiamo imparare a stare insieme a questo silenzio; dobbiamo ritornare a dialogare con questa infanzia, dialogare con l’incomprensibile; a fare famiglia con questa impossibilità di essere risposti e nondimeno imparare a interrogarlo, a interrogarlo sempre. «Saremo la famiglia del secolo, Tasàr/ Saremo la famiglia di questo secolo», dice una voce, mentre la neve inizia a cadere.