Quando nel 1977, Suspiria di Dario Argento esce nelle sale, l’Italia è in pieno fermento politico. L’interruzione del Carosello segna, in un certo senso, la fine definitiva dei sogni del miracolo economico e i movimenti femministi, studenteschi e operai si intensificano fino ad arrivare, in alcuni casi, agli estremi. La sovversione prende il gusto del sangue e della violenza. Probabilmente a causa del clima mortifero e rabbioso che aleggia sul Belpaese, Dario Argento passa dal “giallo” all’horror, mettendo in scena una storia soprannaturale di streghe portatrici di morte, immergendo lo spettatore in una narrazione che si trasforma in un’allucinata esperienza sensoriale, sinestetica, rimboldiana, dove il cromatismo al limite del kitch delle immagini si dissolve e si fonde nei suoni, nelle urla, nei sospiri, nell’ossesione dei passi senza volto e in una colonna sonora assillante, opprimente, tinta dal nervosimo tipico del progressive rock, firmata dal gruppo italiano Goblin.

I Goblin non sono alla loro prima collaborazione con Dario Argento, hanno già partecipato alla colonna sonora di Profondo rosso, subentrando al famoso jazzista Giorgio Gaslini che, dopo alcuni dissapori con il regista, abbandona il progetto. Nel caso di Suspiria, la colonna sonora non si limita ad accompagnare le scene, a fare da sottofondo, a intensificare emotivamente il susseguirsi delle immagini, ne è quasi struttura portante, istanza narrativa, presenza costante al limite dell’invasività. Secondo la testimonianza di Agostino Marangolo, il batterista del gruppo, Dario Argento non soltanto partecipa attivamente alla creazione della musica, ma addirittura gira alcune scene con la colonna sonora in sottofondo, cosa tecnicamente abbastanza difficile all’epoca.

Il risultato del lavoro dei Goblin è una sinfonia sinestetica sperimentale, martellante, puntellata dalla presenza magica e aerea del bouzuki, mandolino greco che si staglia sull’oceano sonoro, progressivo e irrequieto, tipico della musica del gruppo.

Quarant’anni dopo, Luca Guadagnino si cimenta in un remake del film di Dario Argento e, per la colonna sonora, si affida a Thom Yorke, frontman dei Radiohead, alla sua prima esperienza come compositore per il cinema.

Probabilmente la sua colonna sonora non entrerà nella storia come quella dei Goblin. Altri tempi, altro film. Ciò nonostante, il lavoro compiuto per il film di Guadagnino è forse la cosa migliore che Thom Yorke abbia fatto da solista. L’album che ne ricava, composto da 25 tracce per la durata complessiva di un’ora e venti minuti, è in effetti godibilissimo anche facendo astrazione del film per il quale è stato composto.

La musica di Thom Yorke, contrariamente a quella dei Goblin, non è certo un elemento portante del film di Guadagnino. Ricopre un ruolo molto più tradizionale anche se, a tratti, si ricollega alla colonna sonora originale del film di Dario Argento grazie a una sicura tensione sperimentale.

L’album si apre con un componimento, A storm that took everything, che, nel suo dispiegare tappeti sonori potenzialemente infiniti, ricorda le Ramificazioni di Györgi Ligeti. La seconda traccia, The Hooks, introduce il tema ricorrente della colonna sonora, delle note di pianoforte che sembrano cadere nel vuoto come delle angosciose gocce d’acqua, avvolte da un’inquietante orchestrazione sinfonica e da sussurri e grugniti soffocati. Segue una sorta di valzer dallo slancio etereo e quasi irenico, Suspirium, voce e pianoforte che giocano con le tonalità minori e maggiori, dove la malinconia sembra spiare da dietro l’angolo.

Il lavoro di Yorke procede quindi alternando composizioni dal carattere sinfonico, cariche di toni cupi e minacciosi, e tracce dal formato più tradizionale della canzone. E sono proprio quest’ultime le cose migliori dell’album: Suspirium, già citata; l’ipnotica e surreale Has Ended, dalla linea vocale leggermente distorta, sostenuta da un ritmo di batteria assillante e un basso avvolgente; Open again, dalla chitarra classica spagnoleggiante e dalla voce, carica di riverbero, che sembra provenire da un mondo lontano; The Universe is Indifferent, distopica ballata country folk; e, infine, la bellissima Unmade, dal piano dolcissimo, sognante come una composizione di Satie, dai cori angelici e impressionisti, come una possibile via d’uscita dall’orrore del nostro mondo, passato e presente.

Detto questo, anche le tracce dal carattere più sinfonico e sperimentale raggiungono, talvolta,  risultati straordinari, come l’angosciante Volk, ossessiva nel suo arpeggio martellante, quasi minimalista, il cui procedere per variazioni sembra condurre in un oscuro regno infernale.

L’album di Thom Yorke si dispiega così tra spaventose discese agli inferi, deambulazioni inquietanti nel mondo sotterraneo e probito delle streghe, e slanci incorporei e impalpabili verso un orizzonte di riappacificazione e d’improbabile purezza.

Il viaggio – dantesco – ne vale la pena.

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