Quando il primo romanzo di Zadie Smith era ancora in fase di lavorazione diversi editori già se ne contendevano l’esclusiva della pubblicazione. Così, sull’onda dall’entusiasmo che alcuni racconti della Smith avevano suscitato nei cenacoli letterari del King’s College di Cambridge, venne lanciata un’asta al rialzo per l’acquisto dei diritti di quello che sarebbe diventato White Teeth (2000), romanzo sulle problematiche quotidiane di due famiglie multiculturali del North West di Londra che, oltre a dare fama immediata alla Smith, inaugurerà il filone del realismo isterico.

Il clamore dell’esordio spiazza Smith, riluttante ad un’attenzione mediatica che fatica a conciliare con il suo carattere spesso schivo e insicuro. Non ha mai nascosto come per lei scrivere fosse un’esperienza faticosa che non dà sicurezze poiché ogni parola può essere fraintesa e piegata ai fini più disparati. Poco più che ventiseienne e la Smith fa già la conoscenza di quello che in gergo tecnico è definito «blocco dello scrittore». Per metabolizzare questa prima chiusura creativa, nel 2008 scriverà uno dei suoi saggi più intimi, a tratti sofferto, con il quale allude alle sue abituali pratiche di progettazione e stesura narrativa[1]. Al tempo di White Teeth fu invece molto più pragmatica: rifiutando di accondiscendere alle richieste di un sequel al romanzo d’esordio si liberò da un peso che iniziava a non poter più sostenere.

Affrancata e mentalmente rigenerata, pubblicherà The Autograph Man (2002), sua prima sistematica trattazione del tema dell’identità, e On Beauty (2005), lavoro vagamente ispirato a E.M. Forster, uno degli autori cardini della sua formazione[2].

Parallelamente all’attività autoriale, Smith inizia quella accademica. Insegnando scrittura creativa alla Columbia e alla New York University riesce ad addentrarsi come mai aveva fatto prima nei meccanismi costitutivi della prosa. Capisce che scrivere oggi è pratica molto più ostica di quanto non lo fosse stato in passato ma che tuttavia è impossibile rinunciarvi poiché è un modo di rivendicare «le nostre capacità di esseri umani in un mondo che spesso ci vede esclusivamente come produttori o consumatori»[3].

La conclusione pseudo reazionaria di Perché scrivere[4] (2011) diviene l’assetto teorico di NW (2012), una costruzione sperimentale ottenuta intrecciando le storie di quattro ragazzi dei neighborhoods londinesi nonché il primo testo veramente maturo della Smith, e Swing Time (2016), l’ultima sua fatica romanzesca equilibratamente giocata su sentimentalismi repressi e sfoghi istintivi.

Il ritorno alla saggistica è motivato dalla convinzione di essere parte di una realtà dominata dalle Learning Organizations – una società dell’informazione come l’ha definita Lévy[5] – nella quale la diffusione della conoscenza è sottesa a dei limiti individuali: tutti sanno qualcosa ma nessuno sa tutto. Approfittando del tramonto del mito romantico del «tuttologo» incallito, la Smith, con la delicatezza di chi esonda in un terreno non ritenuto il suo più congeniale, non solo smentisce le incertezze di uno spaesamento mai attuatosi, ma arriva finalmente a impartire un ordine a quella massa indifferenziata di scritti saggistici che aveva iniziato a raccogliere a partire dal 2010. Da qui nasce la linearità senza apparente regolarità dei saggi di Feel Free[6] (2018), tutti diversi ma comunque riconducibili alle tematiche da sempre presenti nella scrittura della Smith: identità, razza e condivisione empatica si alternano a lucide impressioni su Jay-Z, Bieber, Billie Holiday, Joni Mitchell[7].

I saggi proposti in Feel Free coprono quindi circa un decennio di riflessioni della Smith. Ottenuto prima il beneplacito di riviste come New York Review of Books, New Yorker, Guardian o Harper’s, dove tali saggi sono originariamente apparsi, la definitiva raccolta in un corpus compatto ne attribuisce un valore affatto dissimile da quello proprio di un manuale universitario. Ciò perché, oltre a ben mostrare le derive del pensiero della Smith che ritorna criticamente su questioni dibattute già ai suoi esordi letterari o confessioni su uno stile faticosamente conseguito dissimulando più di un’incertezza professionale, Feel Free è un setaccio con il quale Smith passa in rassegna le dinamiche sociali, politiche, morali ed economiche del nostro presente.

Il merito, nonché grande punto di forza dell’operare della Smith, è la resa della selezione: che si tratti della Brexit o di etiche razziali il taglio che viene dato al testo che le affronta non è mai chiuso nell’elitarismo prospettico dell’autrice. Si ha come l’impressione (e qui è ben visibile l’iniziale destinazione giornalistica dei saggi) che Smith sia intenzionata a sottoscrivere un tacito patto con il potenziale lettore accostando la sua personale sensazione – più di una tesi in Feel Free è compiacenza di un sentore – a dubbi che sarebbe lecito rintracciare in qualsiasi individuo di una qualunque middle-class nazionale. Più che saggi ad una voce, quelli della Smith sono opere dialogate che cercano soluzioni per tutti a problemi di tutti. Più le questioni da affrontare appaiono ostiche, più incisivo e vigoroso sarà il mordente dell’attacco.

Lo si vede bene già a partire dalla sezione Nel mondo, la prima della raccolta. Qui è contenuto Recinti: un diario della Brexit, uno degli scritti più discussi della Smith poiché concepito per scardinare quello che a detta dell’autrice è stato un brillante quanto diabolico bluff mediatico. Ritenendo la Brexit una deformazione politica del sovranismo nazionale britannico, viene mostrato come la perdita di controllo di uno spazio di pubblica discussione diventi occasione ghiotta per manipolare cittadini accecati da un rischioso antistoricismo.

Tuttavia, tributare un incondizionato primato alla sola condivisione empatica come risoluzione di conflittualità umane non rientra nell’approccio politico e morale della Smith. Quanto meno, non nei fini della sua scrittura. Pertanto, nonostante non abbia mai negato il piacere di suscitare emozioni nei lettori, si è sempre dimostrata meno disincantata di molti suoi altri colleghi che nell’empatia letteraria intravedono una panacea facilmente gestibile e difficilmente deprezzabile. In Feel Free una posizione di questo tipo è feconda di implicazioni di grande impatto, soprattutto quando viene accostata alle dissertazioni sulla razza.

Adeguandosi alle più recenti ricerche antropologiche, la Smith professa con matura fermezza l’inconsistenza delle differenze razziali. Se con Swing Time aveva sondato in via del tutto istintiva il suo retroterra d’origine, spaziando tra ritualità tribali e pratiche mistiche come tratto d’appartenenza alle ancestrali tribù dell’Africa occidentale, con Feel Free il discorso sulla blackness viene investito da una nuova autorevolezza accademica, esito di letture convincenti che la Smith si premura di citare ad ogni incontro pubblico[8].

Ugualmente allo smascheramento della futilità argomentativa di chi difende la purezza della razza, in più di un saggio, da Cambiare idea a Feel Free, la Smith si è impegnata a mostrare il peso insito nelle parole che, nel quotidiano come in situazioni più formalizzate, non è consentito trascurare, specie nei dibattiti sul genere e sulle razze. Conformandosi a bieche convenzioni e tralasciando la funzione descrittiva che il linguaggio possiede, si rischia altrimenti di irrigidire uno scenario destinato ad inasprirsi. Pertanto, la Smith si fa portavoce di un movimento che punta ad oggettivare il nascosto delle nostre vite, ricorrendo ad una lievità espressiva costretta ad essere assecondata per snellire questioni già implicitamente scottanti. Avvalendosi di tali considerazioni compone il saggio Il Budda delle periferie di Hanif Kureishi che, se nella struttura dell’opera ne rappresenta il giro di boa, nell’animo della Smith è molto più di una demarcazione geo-testuale. Come era accaduto anni prima con la recensione di I loro occhi guardavano Dio[9] di Zora Neale Hurston che palesava una spontanea apertura all’intimità della Smith al tempo quattordicenne, il saggio sul Budda delle periferie equivale ad un aggiornamento emotivo di una donna che ha ben compreso che più peso avrebbe dovuto dare alla leggerezza della vita. Col senno di poi, può certo dirsi che ci sia riuscita.

Come Kureishi, la Smith diffida delle pretese di autorevolezza ingiunta e disapprova fermamente chi eleva a modello collettivo, di universale validità, un’esperienza del tutto personale senza che questa sia corredata da inoppugnabili motivazioni.

Retaggio reazionario delle letture intimiste della Smith è anche il rifiuto di una creatività imposta[10], giudicata un’inchiodatura prescritta da costumi socio-culturali aspramente combattuti fin dai suoi primi racconti. Sospingere l’inconsueto a materia narrata per svelarne la normalità rifiutata da un codice culturale dominante è la sostanza della creatività della Smith. Riconoscendolo si potranno comprendere con maggiore immediatezza molte delle trame – se non tutte – dei suoi racconti e romanzi.

Il gioco dell’ambivalenza identitaria, di un io che nega se stesso[11], si presta anche a tematiche che all’identità mettono fine, se non altro a quella corporale. Se è innegabile che Feel Free sia un libro molto ironico, imbevuto di sarcasmo british ibridato ad un crudo american humor, è altrettanto vero che persino la morte ne è una componente tematica rilevante. La Smith ha già prodotto testi emotivamente molto travagliati[12] e Feel Free non è esentato da tale evenienza. Tuttavia ora la morte è ritratta con una certa vaporosità e attenuata dalla bellezza dell’anatomia umana. In Uomo vs Cadavere[13] emerge proprio l’incapacità della Smith, umanamente comprensibile, di identificarsi in un nudo privo di vita tratteggiato da Luca Signorelli che è comunque occasione per sviluppare una digressione filosofico-artistica sulla morte nell’immaginario occidentale.

Infine Feel Free è ripensamenti, attacco all’illusorietà della vita, scommessa sul divenire, istantanea della complessa struttura architettonica dell’esistenza o, più semplicemente, grido di una donna che sottraendosi al silenzio ha deciso di prender parola in nome di tutti.


BIGSUR32_ZadieSmith_FeelFree_cover-409x637

Zadie Smith, Feel Free, Roma, Sur, 2018, pp. 360, € 19.

 

 

 

 

 


[1] Z. Smith, Sentirsi del mestiere, in «Cambiare idea», Minimum Fax, Roma, 2010, pp. 19-34.

[2] Z. Smith, E.M. Forster, quadro intermedio, in «Cambiare idea», cit., pp. 252-270.

[3] Z. Smith, Perché scrivere, in «Perché scrivere», Minimum Fax, Roma, 2011, p. 33.

[4] Raccolta saggistica che raggruppa due separati interventi pubblici della Smith: Fail Better apparso su The Guardian il 13 gennaio 2007 e in Italia su Internazionale n° 275 del 28 dicembre 2007 e While Write, lectio magistralis tenuta a Firenze il 15 giugno 2011 durante la quinta edizione del Premio Gregor von Rezzori.

[5] P. Lévy, L’intelligenza collettiva. Per una antropologia del cyberspazio, Feltrinelli, Milano, 1996.

[6] L’edizione italiana edita da SUR è intitolata Feel Free. Idee, visioni, ricordi. Nonostante il titolo originale abbia un’accattivante sonorità allitterante, è difficile credere che la casa editrice SUR abbia deciso di lasciarlo inalterato per simili motivi. Più probabilmente è la stata la difficoltà a rendere in italiano il genere implicito del titolo inglese, potenzialmente maschile e femminile, a far optare per una mancata traduzione. Un’operazione che, per quanto filologicamente corretta, appare come un intervento riuscito solo in parte, soprattutto perché corredato da un sottotitolo francamente posticcio e banale.

[7] In un incontro pubblico tenutosi al noto Shakespeare and Company Bookshop di Parigi la Smith ha affermato che l’eterogeneità delle tematiche trattate in Feel  Free può racchiudersi nella cacofonica sigla «BBB», decriptata in «Bathroom, Bieber, Brexit».

[8] Tra i tanti si può citare Citizen: An American Lyric (2014) di Claudia Rankine e Racecraft: The Soul of Inequality in American Life (2012) di Karen & Barbara Fields.

[9] Z. Smith, I loro occhi guardavano Dio: cosa significa soulful?, in «Cambiare idea», Minimum Fax, Roma, 2010, pp. 237-251.

[10] Z. Smith, Creatività e rifiuto, in «Feel Free. Idee, visioni, ricordi», SUR, Roma, 2018, pp. 54-65; tale saggio è assente nella versione americana di Feel Free. Si tratta di una conferenza tenuta dalla Smith a Roma e che Martina Testa, la traduttrice delle opere dell’autrice, ha deciso di inserire nell’edizione italiana.

[11] Z. Smith, L’io che non sono io, in «Feel Free. Idee, visioni, ricordi», SUR, Roma, 2018, pp. 235-254.

[12] Z. Smith, Morto che ride, in «Cambiare idea», Minimum Fax, Roma, 2010, pp. 212-233.

[13] Z. Smith, Uomo vs cadavere, in «Feel Free. Idee, visioni, ricordi», SUR, Roma, 2018, pp. 273-290.