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Nove libri per l’estate: i consigli della Balena Bianca

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Quella di quest’estate non sarà una vera e propria pausa per La Balena Bianca (la rassegna Da Zero a Dieci, per esempio, continuerà per tutto agosto), quanto un rallentamento, una diminuzione di ritmi e parole. Ma, come tutti gli anni, la ciurma e gli amici del capitano Achab hanno messo insieme una piccola lista di libri da portare sotto l’ombrellone: ci sono nigeriani e albanesi, tedeschi e cileni, francesi e italiani; saggi e romanzi; riscoperte e novità. E a questo punto non resta che augurarvi buone vacanze.


 

Marco Rossari, Nel cuore della notte, Einaudi (Giacomo Raccis)

«Posso raccontarti di un bagno nell’oceano, l’acqua che prova a risucchiarmi non so quante volte, forte e torbida e vischiosa, mentre io spero che ci riesca.» Ha le forme di un gorgo seducente ed esiziale il cuore della notte, quel momento primordiale in cui ebbe origine la letteratura – uno sconosciuto arrivò e raccontò la sua storia – che rivive nelle pagine di un romanzo che dichiara esplicitamente tutti i propri debiti con la grande tradizione occidentale. Nel cuore della notte ci sono i personaggi di Conrad, di Céline, di Lowry, e anche quelli più recenti di Tadini e di Hamid; eppure Rossari è riuscito a trovare una propria personale strada, aggiungendo una testimonianza all’illustre genealogia degli scrittori che si sono confrontati con i fantasmi notturni. Quella dello sconosciuto che sequestra l’attenzione del protagonista, costringendolo a farsi testimone di una storia irripetibile, è una parabola di ordinaria abiezione, aggiornata ai miti e ai feticci della nostra cultura. Ma, accanto a una prepotente spinta verso il presente, convive la tensione irresistibile degli universali: l’amore, il dolore, la poesia che può salvare o condannare (senza retorica).

 

A. Igoni Barrett, L’amore è potere, o almeno gli somiglia molto, 66thand2nd (Carolina Crespi)

Questa raccolta di racconti arriva a nove mesi di distanza da Culo nero, il romanzo di A. Igoni Barrett pubblicato lo scorso settembre. Come spesso accade, però, i racconti il nostro Barrett (nigeriano itinerante, ora residente a Lagos) li ha scritti prima: il libro infatti è uscito in Inghilterra nel 2013. Ma se, nella metamorfosi di Culo nero, la scaltrezza e l’arte di arrangiarsi erano le armi del neo-bianco Furo Wariboko prontamente ribattezzatosi Frank Whyte, con L’amore è potere, o almeno gli somiglia molto facciamo un passo indietro nella storia di Barrett. Per le strade si pesta duro, verbalmente e non, tanto si può essere chiunque e subito dopo non esserlo più; dentro le case però siamo come siamo o come ci vogliono: le bottiglie vuote, i topi, i rantoli, le lampadine senza elettricità. È qui, in famiglia, che i personaggi si perdono, storditi dal frinire dei grilli; ed è sempre qui, in famiglia, che imparano a cavarsela perché non sembrano esserci alternative alla sopravvivenza. L’amore di Barrett – che oscilla tra la stretta filiale che diventa cappio e l’assalto di un estraneo che si fa quotidiana presenza – è un guinzaglio che riporta indietro di continuo, nel ventre in cui si è nati. L’amore di Barrett è potere perché rende impotenti: fa muovere senza muoversi, viene scambiato per amore, ma da tempo è diventato l’unico modo conosciuto di stare al mondo. Tutto in questi racconti ci è familiare e forse il talento in questo giovane scrittore (amara lezione, ma gran bene per la letteratura) è proprio quello di farci sentire a casa anche quando non vorremmo, in un appartamento zozzo, davanti a una chat erotica, complici di un pestaggio, comodamente sdraiati a terra, in uniforme e pantofole, su un cumulo di foglie secche e frutta marcia.

 

Ismail Kadare, La provocazione, La nave di Teseo (Michele Turazzi)

Ismail Kadare, probabilmente il più importante scrittore albanese contemporaneo, ha descritto il suo paese nel presente, nel passato e nell’allegoria: un mondo in bilico tra Oriente e Occidente, ricco di storia e folklore, costantemente scosso da battaglie, conflitti e totalitarismi. In La provocazione, piccolo libriccino arrivato da qualche mese nelle librerie italiane, veniamo catapultati al fronte. Siamo in montagna, è inverno, due eserciti vivono rinchiusi nei rispettivi fortini. Si controllano, si studiano, attendono il momento giusto per sferrare l’attacco decisivo oppure, forse, soltanto il giorno in cui dalla pianura arriverà la notizia che la guerra è finita. La neve inizia a cadere, sempre di più, ricoprendo ogni cosa di bianco e isolando i due battaglioni in un mondo senza tempo e senza spazio. Così come senza nome sono le nazioni che si fronteggiano, le montagne dove si combatte: tutto ciò che esiste al di fuori del fortino è indistinto, lontano. E così Fred Kosturi, il protagonista, non è soltanto un caporale alle prese con delle decisioni troppo grandi per lui, ma diventa il simbolo dell’umanità tutta: smarrita in un universo che non riconosce, di fronte all’ignoto, senza la capacità di comprendere e, quindi, costretta all’inazione.

 

Marco Amerighi, Le nostre ore contate, Mondadori (Matilde Quarti)

Se Le nostre ore contate, esordio del toscano Marco Amerighi, ha avuto negli scorsi mesi un notevole plauso di critica, un motivo c’è. Il romanzo, in cui si intrecciano due vicende sfalsate temporalmente, combina sapientemente uno stile piano e accurato a una storia complessa, che si sviluppa su più piani. Il racconto segue l’implosione di un’adolescenza stanca di provincia, che si sgretola a causa di un evento che distrugge le dinamiche relazionali dei personaggi, e, parallelamente, il ritorno a Badia Scarna (il luogo fittizio – ma solo nel nome – dov’è ambientata la vicenda) del protagonista diversi anni più tardi a causa di un altro evento traumatico, relativo alla sua storia famigliare. Il romanzo, profondamente nostalgico, è imperniato però su una vicenda reale, di estrema rilevanza sociale, che ne scardina le dinamiche adolescenziali proiettandolo su un piano di critica politica: le morti a causa dell’amianto nella zona industriale di Larderello, in Toscana (l’autore ha anche scritto un reportage sull’argomento per Internazionale). La scrittura di Amerighi è scorrevole e la vicenda coinvolgente, qualità narrative che consentono una lettura veloce e immersiva, per niente pesante nonostante la densità del dramma, individuale e collettivo, che viene raccontato.

 

Silvana Nitti, Lutero, Salerno Editrice (Paolo Caloni)

In occasione delle celebrazioni dei cinquecento anni della Riforma, la biografia di Lutero scritta da Silvana Nitti restituisce in tutta la sua ricchezza e complessità la figura del Riformatore. Nitti ripercorre la tumultuosa vita di Martin Luder (così in origine, poi grecizzato in Luther da Eleutherios, il liberato) raccontandola con una prosa luminosa e scorrevole, senza dimenticare la discussione delle opere maggiori e del profluvio di opuscoli, spesso di grande rilevanza. Ma ciò che rende particolarmente interessante l’opera è la narrazione della vita personale di Lutero: la famiglia, l’amorevole rapporto con i figli e con la moglie, le preoccupazioni teologiche che spesso sono innanzitutto pratiche, la salute malferma e l’indefesso lavoro di professore e studioso. Lutero non solo fu un teologo radicale capace di pensieri abissali, ma fu anche un feroce sbeffeggiatore del partito dei “romanisti” (i cattolici), un polemista ironico e dissacrante. Se infatti la coscienza è prigioniera solo della parola di Dio (altro che libertà interiore!), essa è liberata da qualunque altra fondazione etica e mondana: per porre rimedio ai rovelli della coscienza sosteneva che “ad alcuni fanno bene i digiuni ad altri le gran bevute” e lui di certo non si considerava un digiunatore. Insomma, Lutero era un uomo che, stazionando sulla soglia fra medioevo e modernità, forse contribuì a determinarne la distinzione.

 

François Bégaudeau, La ferita, quella vera, Einaudi Stile Libero (Giulia Sarli)

Lo senti sotto pelle quando si sta avvicinando. Ogni parte del tuo corpo lo reclama. È il momento, imposto dal destino, di attraversare una soglia che ti cambierà la vita. Per il protagonista di La ferita, quella vera si tratta di scopare per la prima volta. E così di lasciare per sempre l’infanzia. È l’estate del 1986 a Saint-Michel-en-l’Herm, dove un ragazzo di quindici anni arriva con la sua famiglia per passare le vacanze estive. È l’estate in cui tutto deve cambiare e ogni elemento del racconto è come assopito in attesa che un evento scuota la vita del protagonista. François Bégaudeau, dopo Entre les murs, torna a parlare di adolescenza, mescolando autobiografia e invenzione in un racconto che riesce a pieno a immergere il lettore in quel periodo della vita pieno di assoluti, in cui un brufolo sul mento può significare un futuro di solitudine e dolore e il sorriso di una ragazza la felicità eterna.

 

Thomas Bernhard, Camminare, Adelphi (Michele Farina)

Pubblicato per la prima volta nel 1971, Gehen di Thomas Bernhard è stato finalmente reso disponibile al lettore italiano nella traduzione di Giovanna Agabio con il titolo Camminare. L’impazzimento di un uomo davanti a una partita di pantaloni che mostra dei “punti radi” – e sulla quale aleggia dunque lo spettro della contraffazione – è l’epicentro della serie di discorsi proferiti da Oehler durante una passeggiata in compagnia dell’anonimo narratore. Un tarlo logico rode la mente di questi camminatori e il loro incessante parlamentare, nel quale i pensieri svaporano dalla testa come una nube tossica. Una prosa dal rigore cristallino anima questo prezioso libretto, nel quale analogie, variazioni, iterazioni e crudeli ragionamenti declinano un nucleo di follia in una catena discorsiva incalzante e ininterrotta, una tagliola retorica che lascia senza scampo. Camminare è un gioco al massacro dove gli strumenti della ragione letteraria rendono assai affilato anche il pensiero più insensato.

 

Alejandro Zambra, Storie di alberi e bonsai, Sellerio (Giulia Marchina)

Si leggono in una manciata d’ore i due brevi romanzi che compongono Storie di alberi e bonsai. Iniziano con la dichiarazione di una precisa situazione familiare e la premonizione del finale: una donna non torna, l’altra muore; «il resto è letteratura», osservazione lenta di variabili private, ricostruzione dell’educazione sentimentale dei due protagonisti, Julián e Julio, l’uno professore di letteratura e scrittore della domenica, l’altro studente di lettere squattrinato e perdigiorno. Procedendo per diramazioni di sogni e ricordi, la scrittura di Zambra segue una dinamica arbustiva e insieme contenuta che genera un incanto di sobrietà; come i bonsai curati e osservati con erotica dedizione dai protagonisti, le due storie del giovane autore cileno tracciano nello spazio di poche pagine il tempo di una vita o, per dirla con Munari, «l’esplosione lentissima ǀ di un seme».

 

Andrea Di Michele, Tra due divise. La Grande Guerra degli italiani d’Austria, Laterza (Claudio Belloni)

Consigliato agli appassionati di storia, ma anche a chi volesse scoprire una vicenda ancora poco nota: centomila sudditi di lingua italiana dell’impero austroungarico arruolati già nell’estate del 1914 e inviati sul fronte orientale. Nella stragrande maggioranza si trattava di semplici contadini, carne da cannone, che si trovò a combattere i russi, ovviamente, ma anche il pregiudizio prima e il sospetto poi dei commilitoni dell’impero multietnico. In quel clima di nazionalismi esasperati, infatti, l’entrata in guerra dell’Italia contro il suo alleato non facilitò certo il loro destino. Ciascuno delle decine di migliaia di prigionieri in mano russa, poi, si trovò in balia della grande storia e costretto a prendere decisioni difficili tra proposte di “rimpatrio” in Italia (e riarruolamento in un diverso esercito, per ricominciare a combattere contro il proprio), possibili condanne per tradimento e ritorsioni verso le famiglie, per non parlare del caos e delle rivoluzioni del 1917. Anche dopo la pace separata, alcuni di loro vennero arruolati in terra russa dal nostro governo che rispose all’appello antibolscevico internazionale “all’italiana” con l’invio di divise da far loro sostituire a quelle austriache con cui erano partiti. Al di là della retorica, la nuova patria non fu accogliente nemmeno al rientro, anzi riservò a migliaia di “redenti” il campo di concentramento perché sospetti di essere austriacanti o portatori del virus comunista. Insomma, le ultime centinaia di uomini che morirono, di stenti e di malattie, lo fecero in Italia, in prigionia.