Chi si avvicini per la prima volta ad un libro di Thomas Bernhard fa esperienza di uno stato d’animo peculiare: il disagio, un sentimento che qualifica in modo fondamentale, ma celato, il nostro stare al mondo. La scrittura di Bernhard però non è volta alla descrizione dell’irrazionale, dell’inconscio o di tutta la platea di situazioni che possiamo hegelianamente definire come il negativo. No, sentiamo disagio di fronte ad un altro tipo di situazione: l’inflessibilità della ragione. I protagonisti di Bernhard, che raramente si discostano dall’autore stesso, sono sempre lucidi, razionali, freddi, inamovibili nelle loro decisioni, decisamente folli. Ed è leggendo i loro monologhi senza fine che si prova disagio, il disagio di vedere la morte, la follia, l’odio, l’ossessione come eventi fin troppo comprensibili, fin troppo evidenti.

È per questo che, vanificando uno dei più durevoli pregiudizi nei confronti della filosofia, Thomas Bernhard rappresenta un caso di razionalismo esasperato. Prenderemo come esempio il contenuto e lo stile di una sua opera dove questa conclusione è particolarmente chiara, Il soccombente, Der Untergeher (Adelphi, 1985).

Protagonista del libro è Glenn Gould, presente in absentia, poiché veniamo informati della sua prematura morte sin dalle prime righe del romanzo. L’io narrante (Bernhard?) e Wertheimer sono i suoi compagni di studi musicali presso l’importante scuola di Horowitz.

I tre studiano a Salisburgo, una città che imparano ad odiare; come ci viene ricordato, infatti, solo nei luoghi che si odiano, privi quindi di distrazioni, si può studiare con la massima concentrazione: mangiano poco, ripetono all’infinito le loro esercitazioni, non dormono, fondano la loro amicizia nella totale dedizione verso lo strumento. Gould si distingue presto per le sue doti eccezionali e, fino al momento della morte, si dedica alle registrazioni di pianoforte che lo renderanno celebre, ricercando la perfezione esecutiva. Ricerca peraltro inutile, considerato che è lui stesso la perfezione. D’altro canto i suoi amici, pur di ottimo livello, abbandonano presto la carriera di virtuosi del piano: Bernhard è consapevole che ormai non ha alcun senso suonare e si dedica ad altro; invece, Wertheimer non può più neanche sopportare la possibilità di suonare, sapendo che il più grande pianista di sempre è morto e che, lui, pur eccellente, non può paragonarsi a Gould. Wertheimer è tormentato, ossessionato da un’affilata dialettica tanto esatta quanto lacerante: la consapevolezza di essere fra i migliori pianisti viventi e tuttavia l’impossibilità di esserlo. Infatti, nella persona di Glenn Gould si identificavano essere e dover-essere, fino all’esautoramento della sua esistenza: la morte dell’idea.

Wertheimer è invidioso delle capacità di Gould, ma il problema è un altro: egli sa che la morte di Gould è sotto alcuni aspetti la morte della musica. Non aveva senso suonare mentre Gould era in vita e non avrà più senso suonare dopo di lui. La contingenza della morte ha vinto sull’esistenza dell’ideale, per questo Wertheimer si vergogna di vivere dopo la scomparsa del genio.

Se Bernhard prende semplicemente le distanze dalla musica, Wertheimer si spinge più in là. Egli giungerà all’unica soluzione possibile. La disperazione non è la conseguenza della fatalità o di momenti di perdita della ragione, bensì è l’ultimo frutto di una catena deviata – ma salda e coerente – di un processo razionale. Wertheimer raggiunge la sorella, da poco trasferitasi dal marito dopo lunghi anni di segregazione in casa, e si toglie «spudoratamente» la vita nel giardino della giovane sposa. S’inabissa nel gorgo della disperazione e porta con sé chi gli sta intorno; soccombe a se stesso, alla propria più acuta ed infelice consapevolezza.

Come altri protagonisti dei romanzi di Bernhard (come ad esempio in Perturbamento, Gelo o Estinzione), Wertheimer è attraversato dall’assurdo del mondo, dove anche l’ideale muore. Egli è fermamente deciso ad inseguire il non senso fino in fondo, consapevole e volenteroso carnefice di se stesso.

Stilisticamente domina la ripetizione ossessiva di formule e di intere frasi. Anche dopo lunghi periodi, ritornano quel pensai o dissi che, oltre ad alienare il lettore in una spirale di pensieri, sono l’esplicitazione della coscienza monadologica dell’io narrante. Tutte le vicende narrate, i personaggi e i dialoghi sono pensieri in atto che rivivono – e vengono quindi ripensati – nell’autore attraverso la nostra lettura: una forma di presente assoluto, l’ideale coincidenza di coscienza e mondo. Leggiamo i pensieri del narratore nel loro primo fluire, secondo il modo, lo stile di chi li ha pensati.

Tutto – la follia, lo squallore, la disperazione, il dovere, la perfezione, la ragionevolezza del non senso – rientra nel vissuto della coscienza del narratore.

Tutto rimane sospeso e staziona nella medesima coscienza, anche il nostro disagio.

T. Bernhard, Il soccombente, Milano, Adelphi, 1985, pp. 186, € 10.