“Grazie per aver giocato al mio gioco”

(James Halliday)

Occorre ammettere una cosa: Steven Spielberg è il più grande regista vivente per qualità media delle sue creazioni. Senza scomodare i capisaldi con cui il regista statunitense ha fondato o innovato generi e fantasie (a braccio: Lo squalo, 1975; E.T., 1982; Jurassic Park, 1993; Salvate il soldato Ryan, 1998), senza scandagliare gioie e gioielli del retrobottega (L’impero del sole, 1987; Prova a prendermi; 2002) e poco concedendo alla nostalgia celebrativa dell’infanzia (se Indiana ha “un sacco di bellissimi ricordi di quel cane”, noi ne abbiamo di lui), è abbastanza pacifico che Spielberg sia il miglior retore della Hollywood di qualità, che, animato di progressismo, sa compiacere il pubblico medio, non scontentare il critico d’essai, confezionare a cadenza invidiabile un prodotto di gran artigianato. Facendo, nel mentre, una montagna di soldi.

Ready Player One, ultima fatica tratta dal cult book omonimo di Ernest Cline (qui impegnato alla sceneggiatura con Zak Penn) uscito da noi nel 2011, si inserisce in questa parata: siamo nel 2045, il futuro fa ovviamente abbastanza schifo e a Columbus (Ohio) un po’ di più. Qui, il giovane Wade Watts (un Tye Sheridan che regala al nostro nerd un’unica, attonita espressione: meglio con gli occhiali da Ciclope) conduce un’ordinaria esistenza tra rottami e catapecchie, arrabattandosi in una ancora più ordinaria escapologia dalla mediocrità grazie al videogioco più bello di sempre, OASIS, un bell’incrocio in realtà virtuale tra un Second Life pompato a qualche miliardo di utenti e un Matrix non troppo lesivo della dignità umana. Fin qui, nulla di nuovo sul fronte dell’adolescenza occidentale; se non che, quando il papà di OASIS (James Halliday, un convincente Mark Rylance) passa a miglior vita nel mondo reale, regala ai gamers di tutto il mondo il loro sogno più perverso: un fantasmagorico easter egg, nascosto tra le pieghe della sua creatura, che donerà al fortunato scopritore uno smisurato patrimonio e il controllo totale del gioco. Alla ricerca delle tre chiavi per l’ovetto magico si lanciano naturalmente tutti gli avatar (o gunters, ovvero egg hunters) di OASIS, tra cui Wade (nel gioco è Parzival) e Art3mis (nel mondo reale si chiama Samantha “Sam” Cook e manco a dirlo fa la ribelle). A corredo, non poteva non esserci la multinazionale cattiva cattiva di Nolan Sorrento (il buon Ben Mendelsohn, visto di recente in Rogue One e The darkest hour), che vuol prendere il possesso di OASIS per riempire i visori dei giocatori di tutto il mondo di tanta, tanta pubblicità.

Non spoileriamo oltre perché tanto sapete come va a finire. L’elemento decisamente apprezzabile e che rende le oltre due ore di film piacevoli e leggere è piuttosto l’abilità retorica e registica con cui Spielberg svolge la storia e tiene le fila del tutto – vecchia scuola per lui: rem tene ecc. – per dirci che per lui la verità del cuore non sta nell’ultimo gadget conquistato online ma altrove, nella vita “reale” trafisgurata dalla fantasia infantile. Si capisce che l’appello alla disconnessione dagli idola videoludici poteva facilmente risolversi in un cerchiobottismo di maniera, sorretto qui e là da qualche madeleine a 8 bit, citazioni ad usum delphini e manfrine sociopedagogiche dei “social network malvagi che ti rubano i dati e vogliono dominare il mondo” – @Mark, I know… è stata una brutta settimana, ma la vita va avanti – ma questo pare più un cruccio dello Spielberg persona che dello Spielberg regista. Quest’ultimo spinge invece con vigore e classe per superare di slancio i rischi dell’elegia dell’età dell’oro dell’arcade videoludico e allestisce una smaliziata meccanica delle emozioni che concede poco al Leitmotiv del “come eravamo” o al compiacimento fine a se stesso. La scena della gara automobilistica è il manifesto – oltre che della buona realizzazione tecnica della pellicola – di questa disposizione arguta e partecipata nei confronti del materiale dell’immaginario: il ritmo accelerato e survoltato dei rimandi (ci affidiamo qui ad un elenco sicuramente parziale ma sicuramente più affidabile di quello che potremmo redarre noi) e l’ironia levigata dell’autocitazione bruciano e risolvono sul nascere quasi tutte le remore sul risultato finale dell’operazione.

Se Ready Player One non è esente da difetti (su tutti: una trama sentimentale un po’ approssimativa, un certo complesso del padre sparso in giro, il rischio del manicheismo tra buoni e cattivi), da queste scelte ne guadagnano tenuta e credibilità drammatica del film, in questo felicemente distante dalla plasticosità didascalica e non perturbante degli ultimi Marvel e aliena dai “risvegli” soporiferi di forze passate. Ne esce vincente l’idea che, fraggando il cortocircuito del desiderio e della nostalgia, può emergere la vera linfa spielbergiana: il fascino quasi fanciullesco per il racconto di grandi storie. Spielberg in Ready Player One non rimpiange esplicitamente alcun Eden arcadico ma, abbracciando a larga gittata la videocultura pop degli ultimi tre decenni, svela in modo nemmeno troppo inatteso cosa gli preme: che la lezione di creatività e di umanità dei maestri (tra i quali, a ragione, probabilmente si annovera) non passi inosservata e inascoltata presso le nuove, iperconnesse e smemorate generazioni di young adults.

OASIS è un bellissimo, fantasmagorico e rutilante universo. Ed è falso, fittizio e artificiale, perché è stato creato dal genio di James Halliday a corpo a corpo con i propri sogni e le proprie tare personali, come delicatamente ricordato in explicit. Amore e amicizia, realtà “vera” e una ragazza da baciare busseranno alla fine alla porta e si prenderanno quanto dovuto; ma quello di OASIS resta un mondo in cui – almeno una volta – non bisogna vincere ma solo giocare.