La Berlinale si conferma anche quest’anno festival politico, attento ai mutamenti della società. La selezione delle opere ha come obiettivo quello di raccontare un reale spesso troppo frammentato e difficile da cogliere. I film si fanno dunque portavoce di minoranze, nuove identità di genere, dei dimenticati e sommersi, attraverso storie mai didascaliche o banali. Forse non sempre siamo di fronte a opere ineccepibili, ma sono pur sempre validi contributi all’importante progetto di questa kermesse cinematografica. Ho portato qui tre esempi di film visti in questi primi giorni di Berlinale, che tracciano nuove vie per descrivere il presente.

Isle of Dogs (Wes Anderson)

 

isle of dogs

Quello di Wes Anderson è il fim d’apertura perfetto. C’è subito da segnalare un primato: si tratta infatti del primo lungometraggio d’animazione ad aprire il festival nella storia della Berlinale. Isle of dogs è il secondo film d’animazione con l’utilizzo della tecnica in stop-motion per il regista texano, dopo l’ottimo Fantastic Mr. Fox. Ma tra i due film i punti in comune sono davvero pochi. Chi si aspettava il confortante gioco di diorami e architetture flat dai colori pastello a cui Anderson ci ha abituato, rimane spiazzato da un’estetica dark e un gusto vicino a quello di Tim Burton. Cieli grigi, degrado, cani cenciosi che sputano sangue e perdono orecchie, un Giappone autoritario in cui tramano forze oscure: sembra di vedere una Metropolis da fumetto, dove il puro intrattenimento si fonde con un messaggio politico, che già potevamo intravedere in Grand Budapest Hotel. Dietro quei cani si possono scorgere tutte le minoranze oppresse del mondo, popoli reclusi a costretti all’esilio secondo un piano ben architettato. Ma quella di Anderson non si riduce a una fiaba moraleggiante; l’opera è soprattutto una storia famigliare, tema costante del cinema di Anderson. Motore di tutta l’azione è infatti il rapporto tra un padre autoritario – come ne I Tennenbaum – e il figlio Atari Kobayashi. quando Kobayashi senior ordinerà la quarantena per tutti cani al fine di contrastare una pericolosa – quanto sospetta – influenza canina, il giovani Atari, al comando di un aereo di fortuna, raggiungerà la tetra isola in cui sono confinati tutti i quadrupedi, per cercare il suo fedele amico Spots. Dopo un atterraggio di fortuna, incontra un  branco di cani alfa che lo aiuteranno nella ricerca, in un difficile viaggio fatto di traduzioni impossibili e inaspettati addomesticamenti. L’uso della stop-motion sembra non essere una mera dimostrazione di abilità tecnica, ma si inserisce in un preciso disegno poetico. La resa finale ha quasi un sapore retro, restituendo una forza espressionistica a gesti ed emozioni. Anderson riesce così a imprimere nei suoi personaggi una vita che nessuna computer grafica potrebbe riprodurre. Naturalmente ad affiancare Anderson in questa stralunata impresa cinematografica ci sono gli amici di sempre, da Edward Norton a Bill Murray, da Jeff Goldblum a Tilda Swinton, tutti a prestare le loro voci per completare la magia di una pellicola che raggiunge il suo scopo senza rinunciare a un genuino intrattenimento.

Obscuro Barroco (Evangelia Kranioti)

 

obscuro

 

In una Rio de Janeiro luciferina si aggirano creature da sogno. Evangelia Kranioti segue la transgender brasiliana Luana Muniz, star della sottocultura queer cittadina, in un viaggio al termine delle notte carioca, tra immagini estremamente cariche di simboli e sature di colori. La città del Cristo redentore viene dipinta come una fabbrica di piaceri e incubi, che esplode in tutte le sue contraddizioni durante il carnevale: tra tutti quelli del mondo il più eccessivo e seducente. Luana Muniz ci fa da cicerone, spesso in voice over, recitando brani di poesia brasiliana sul tema della trasformazione e del desiderio. Il barocco è del resto esso stesso arte mutante, alchemica e la regista filtra ogni immagine attraverso uno stile quasi pittorico carico di ombre, in cui si agitano semidei di cartapesta e anime perse. La visione nella sala IMAX restituisce tutta la potenza di una pellicola estremamente evocativa incentrata su un’artista della notte come Luana Muniz, scomparsa poco dopo la fine delle riprese. L’unica pecca di questo documentario sui generis è probabilmente un certo compiacimento estetico che porta la Kranioti a ribadire eccessivamente i medesimi concetti.

Profile (Timur Bekmambetov)

 

Profile

 

Il regista russo Timur Bekmambetov procede nello sviluppo di un nuovo linguaggio cinematografico, dopo il primo test nell’horror Unfriended. Profile si basa sulla storia vera di una giornalista britannica che accetta di intraprendere un’indagine ad alto rischio sulle procedure attuate dall’Isis per adescare in rete giovani donne occidentali convertite all’Islam e convincerle a trasferirsi in Siria, dove finiscono spesso col diventare schiave dei soldati del Califfato. La giornalista Amy assume così una falsa identità digitale e si addentra nel mondo dei simpatizzanti del Jihad, scoprendo come il linguaggio usato in rete dal terrorismo sia estremamente simile al nostro. Il “nemico” usa gif di gattini, scatta selfie e posta video comici: come tutti noi online cerca di piacere a più persone possibile. La ricerca di Amy verrà premiata e instaurerà un contatto con un adescatore dell’Isis, di nome Bilal, un affascinante soldato con cui intraprenderà un pericoloso gioco di seduzione, dove i confini tra realtà e finzione non saranno più distinguibili. La novità del thriller/documentario di Bekmambetov consiste nel raccontare l’intera vicenda da un punto di vista escluisvo: il monitor di un laptop, tra cartelle che si aprono, chat piene di emoji e video call con tanto di perdita del segnale. È attraverso il frammentarsi e il ricollegarsi delle informazioni che si aprono, chiudono e si sovrappongono sul monitor che vengono modulati ritmo e tensione della pellicola, dando finalmente corpo a una narrazione cinematografica che include il nostro vivere iperconnessi e, forse, anche sempre più soli.