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Tra cultura umanistica e tecnologia. La visione di Lorenzo Tomasin

Claudio LagomarsinidiClaudio Lagomarsini
29 Novembre 2017
in Letterature
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l'impronta digitale lorenzo tomasin

Dal 2013 a oggi, la Biblioteca Vaticana ha digitalizzato quasi 15.000 manoscritti antichi, liberamente accessibili in rete in foto ad alta definizione. Poca cosa in confronto ai 95.000 già ospitati da «Gallica» (il portale digitale della Bibliothèque nationale de France), che accoglie in tutto oltre 4 milioni di documenti tra libri, mappe, fotografie, partiture musicali, filmati, a un ritmo di 100.000 nuove digitalizzazioni all’anno. Insieme ad altri portali, «Gallica» partecipa all’“aggregatore” «Europeana», che rende disponibili oltre 53 milioni di documenti.

Nell’ultimo decennio, i progetti di riversamento in digitale del patrimonio culturale sono stati numerosi e hanno comportato un massiccio dispendio di risorse umane ed economiche. Ma mentre nascevano nuovi progetti e crescevano i finanziamenti per le digitalizzazioni, calavano gli investimenti nella ricerca di ambito umanistico, quella che dovrebbe spiegarci, appunto, quali sono il senso e l’importanza di quei manoscritti, di quelle stampe, fotografie e partiture. Tra qualche anno potremo agevolmente consultare su schermo gran parte dei documenti prodotti dall’uomo negli ultimi tremila anni. Con il problema che, forse, non sapremo più bene come leggere e interpretare quella gran catasta di anticaglie.

Su questo genere di paradossi si sofferma Lorenzo Tomasin ne L’impronta digitale: cultura umanistica e tecnologia (Carocci, 143 pp., 12€). Il saggio affronta alcune questioni relative al rapporto fra tecnologia, da un lato, e insegnamento, ricerca, trasmissione del sapere umanistico, dall’altro. L’impronta digitale non è − va detto subito − il solito, bilioso pamphlet antitecnologico: come studioso di Storia della lingua italiana e di Filologia romanza – domini di ricerca che non possono più prescindere da corpora digitali, database e altre risorse informatiche − Tomasin conosce benissimo l’importanza della tecnologia, quando essa è messa al servizio di un’idea e di un metodo. Il saggio si occupa, invece, di smontare una a una molte delle banalizzazioni e delle idee ricevute che contaminano (sui giornali, in rete, nei senati accademici, nei ministeri) il confronto pubblico e privato intorno alla cultura umanistica del nostro tempo.

Ad esempio, ha senso affermare, come ha fatto di recente Martin Vetterli, ingegnere ed ex-capo del Fondo Nazionale Svizzero per la ricerca, che le lingue classiche sono «utili» in quanto permettono, tra l’altro, di «conoscere l’etimologia di un buon numero di parole correnti»? E nel sostenere la necessità di erogare, anche in Italia, corsi universitari solo in inglese, è legittimo il paragone che alcuni hanno proposto tra Globish e latino, cioè tra un impoverito inglese di koinè e la lingua d’insegnamento usata nel Medioevo nelle università di tutta Europa? E ancora: è stato buono e giusto il potenziamento a oltranza del programma educativo stem (Science, Technology, Engineering, Mathematics) caldeggiato da Obama fin dall’inizio del suo mandato (e ora, aggiungiamo noi, ricucinato in salsa pari-opportunità dal ministro Boschi)? L’elezione di Trump non sarà interpretabile come uno degli effetti collaterali di una lunga tradizione di politiche educative antiumanistiche?

I casi discussi da Tomasin (per ognuna delle questioni centrali sono citati numerosi esempi e aneddoti) mettono a nudo un problema cruciale: la totale miopia dell’Occidente in materia di programmazione culturale. L’unico programma chiaro e condiviso sembrerebbe quello che ricordavamo all’inizio: l’affannosa traduzione in digitale di tutto ciò che si è conservato (ma questo per chi? Con quale scopo?). Tomasin porta, tra gli altri, l’esempio di un costoso progetto svizzero che consisterebbe nel radunare tutti i libri cartacei disponibili nelle biblioteche, digitalizzarli e poi bruciare i doppioni: una allucinata, borgesiana «digitalizzazione integrale del deposito, che conferirebbe al magazzino stesso il ruolo di una sorta di mausoleo librario: luogo di conservazione tra il prudenziale e il simbolico di materiale percepito come obsoleto».

Naturalmente non tutte le provocazioni di Tomasin chiedono di essere prese alla lettera: ad esempio, sull’elezione di Trump come effetto collaterale della stem Education, qualcuno potrebbe obiettare − paradosso contro paradosso − che l’elezione di Obama, cioè il punto più alto toccato dalla tradizione progressista, è stata preparata dalle illuminate politiche culturali di Bush. Ma le provocazioni di questo libro hanno sempre un’impostazione euristica e, anche quando ci si trova in disaccordo, si è comunque costretti a cercare un buon argomento per sostenere le proprie idee. Sono due delle cose (acquisire conoscenze e riordinare le idee) che un buon saggio dovrebbe aiutarci a fare.

Un problema di fondo che attraversa molti capitoli, aneddoti, riflessioni di Tomasin è quello dell’“utilità” della cultura umanistica. Il binarismo che fin da tempi antichissimi organizza, secondo declinazioni specifiche diverse, il nostro sistema culturale (arti liberali vs. arti meccaniche, otium vs. negotium, Humanities vs. stem, etc.) si presta molto spesso a essere ridotto, anche da persone che occupano ruoli non secondari nel mondo dell’insegnamento, della ricerca o della politica culturale, a un’opposizione primaria tra “utile” e “inutile”. E tutto questo con atteggiamenti che vanno dalla concessione di umilianti briciole di utilità ai rappresentanti dello schieramento opposto (come nel caso dell’ingegnere svizzero che risconosce agli inutili classicisti l’utile capacità di individuare le etimologie delle parole) fino al pride dell’inutilità, che può degenerare,  in àmbito umanistico, in rivendicazioni di assurdi privilegi, come se le risorse economiche della collettività, slegate da qualsiasi criterio di sostenibilità, potessero e dovessero salariare ogni ricercatore che sia in grado, con un po’ di retorica, di far passare il proprio privato hobby intellettuale per un irrinunciabile tema di ricerca.

Se non vedo male, Tomasin proporrebbe di sostituire l’opposizione corrente tra “utile” e “inutile” con un’opposizione diversa, tra “importante” e “accessorio”. Lo si vede, ad esempio, nelle righe in cui sostiene che «il latino e il greco […] non sono né utili né inutili. Ma, al pari di molte altre discipline umanistiche, sono importanti più di molte cose ritenute utili (come la capacità di panificare) e di moltissime ritenute inutili (che poi di norma sono inutili per qualcuno o per qualcosa)». La questione di che cosa sia o non sia “importante” per una società è, ovviamente, delicatissima. Mi sembra che Tomasin intenda l’importanza delle discipline umanistiche in termini di educazione degli individui e di ricadute sociali dell’educazione sul medio-lungo termine. Se per assurdo investissimo tutte le risorse destinate all’educazione in un programma stem, lasciando del tutto indietro l’educazione umanistica, otterremmo ben presto una società altamente funzionale ed efficiente, i cui individui, però, faticherebbero a reperire, nelle proprie attività quotidiane e nelle proprie vite, un senso e uno scopo che vadano al di là della funzionalità e dell’efficienza stesse.

Se anche si può discutere su singole questioni, resta difficile, in definitiva, non vedere un legame forte tra lo smarrimento dell’Occidente − che si manifesta ora come relativismo etico, ora come crisi identitaria determinata dal crollo delle ideologie e/o delle religioni, ora come incapacità di reagire al terrore se non riconoscendosi sotto l’insegna superficiale di società del divertimento − e il ruolo sempre più marginale che è riservato alla cultura umanistica: quel bagaglio inutile a cui non si può fare a meno di rivolgersi quando ci si trova a investigare le eterne questioni: che cosa ci ha portati dove siamo, dove vorremmo andare, perché stiamo facendo tutto questo…

Ecco: non c’è stato qualcosa di sbagliato nell’investire gran parte delle nostre risorse economiche e intellettuali nel mettere a punto sistemi tecnologici avanzatissimi, che però si rivelano destinati, sempre più, a persone semianalfabete che usano quegli stessi sistemi non per progredire e migliorarsi, ma per minacciarsi gli uni con gli altri, convincersi di bufale marchiane, confezionare meme e commentare foto di gattini?


 

tomasin lorenzo - l'impronta digitaleLorenzo Tomasin, L’impronta digitale. Cultura umanistica e tecnologia, Carocci, 143 pp., 12€

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Claudio Lagomarsini

Claudio Lagomarsini

Claudio Lagomarsini (1984) insegna Filologia romanza all’Università di Siena. Suoi racconti sono apparsi su Nuovi Argomenti, La rassegna mensile di Oblique, Pastrengo e nelle raccolte "Il fiume in un racconto" (Clichy) e "Radio1 Plot Machine" (Mondadori-Rai Eri). Ha scritto articoli e longreads per minima&moralia, Le parole e le cose, The Towner, Il Post. Il suo romanzo d'esordio è "Ai sopravvissuti spareremo ancora" (Fazi 2020).

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