Invidiai un cuore capace di battere all’unisono con l’intero universo.
Simone de Beauvoir (1958)


 

Il libro del potere, recentemente pubblicato da Chiarelettere con l’ottima introduzione di Mauro Bonazzi, raccoglie tre saggi di Simone Weil scritti tra il 1937 e il 1942, in cui la filosofa indaga la natura del potere nella storia umana. L’indagine prende avvio dallo studio della letteratura classica e della mitologia greca, in particolare dell’Iliade omerica.

Weil indugia sui versi più crudi dell’Iliade, evidenzia la brutalità delle vicende narrate, la violenza cieca che riduce gli eroi a corpi trascinati nella polvere, a cose attaccate a carri. Nel poema omerico non c’è traccia di consolazione, né aura di gloria per l’eroe. «Quasi tutta l’Iliade si svolge lontano dai bagni caldi», lontano dal calore della vita domestica, nel frastuono di una guerra dominata dalla forza.

Lo stesso uso della forza è protagonista dell’attualità di Weil: sono gli anni della guerra civile spagnola, dell’ascesa del nazismo, dell’occupazione della Francia. Sotto la pressione dell’attualità, Weil intraprende lo studio teorico delle condizioni che portano l’umanità all’uso della forza, affiancando all’analisi intellettuale un coinvolgimento pratico in prima persona: nel 1935 si arruola volontaria al fianco dei repubblicani spagnoli contro i franchisti, più avanti tenterà in ogni modo di unirsi alla resistenza francese antinazista, per essere in prima linea contro il nemico.

Si saldano in Weil riflessione filosofica e esperienza vissuta. Per sperimentare la durezza della vita operaia e l’oppressione che ne deriva, per otto mesi Weil – proveniente da una famiglia benestante, di classe borghese – lavora nell’industria pesante, nelle fonderie di un’industria metallurgica e alla Renault come fresatrice. Documenterà nei suoi diari le condizioni intollerabili del lavoro in fabbrica, descrivendo l’operaio come lo schiavo moderno, oppresso da attività alienanti che vietano qualsiasi libero dispiegamento della sua personalità.

Il radicalismo di Weil genera sconcerto e ammirazione tra gli stessi studenti della Sorbona, dove studia filosofia. Celebre il racconto di Simone de Beauvoir del loro primo (e ultimo) incontro nei cortili dell’università:

Un giorno riuscii ad avvicinarla. Non so più come nacque la conversazione; lei dichiarò in tono deciso che la sola cosa importante, oggi, sulla terra, era la Rivoluzione, che avrebbe dato da mangiare a tutti quanti. Io di rimando, e in tono non meno perentorio, risposi che il problema non era di far la felicità degli uomini, ma di trovare un senso alla loro esistenza. Lei mi squadrò. – Si vede che non avete mai avuto fame, – replicò.

Weil appariva, e forse appare tuttora, troppo estremista e radicale, troppo votata all’azione per l’ambiente accademico filosofico. Eppure, né la sua estrema sensibilità né la sua vocazione all’azione presero mai il sopravvento sulla riflessione filosofica: anzi, il richiamo alla ragione, alla moderazione, all’equilibrio pervade anche le sue considerazioni sull’Iliade.

Del poema omerico Weil apprezza la lucidità con cui è descritta la brutalità della guerra, mai contraffatta né mascherata. Non c’è disprezzo nell’Iliade per gli sconfitti, né odio per i nemici. Non c’è neppure ammirazione per la forza del vincitore, vista la precarietà della vittoria e il destino comune di vincitori e vinti: Achille, Agamennone, Ettore, sono al contempo guerrieri e vittime, che infliggono ferite mortali per poi cadere a loro volta.

Di fronte all’assurdità di una guerra innescata per la bellezza di Elena, l’Iliade ci sfida oggi a ragionare su quali possano essere le cause in grado di legittimare una guerra. Forse la difesa della Democrazia, del Diritto, della Sicurezza?

È qui che le riflessioni di Weil acquistano una sorprendente attualità. Vagliando le cause delle guerre più recenti, Weil ne demistifica il senso:

Mettiamo la maiuscola a parole prive di significato e, alla prima occasione, gli uomini spargeranno fiumi di sangue, a furia di ripeterle accumuleranno rovine su rovine […]; niente di reale può davvero corrispondere a tali parole, poiché non significano niente.

Greci e Troiani si massacrarono dieci anni per Elena; le guerre contemporanee, osserva Weil, sono di un’irrazionalità anche maggiore, perché generate da parole vuote, che ci ostiniamo a scrivere in maiuscolo come per dotarle di una presunta universalità. La bellezza di Elena era quanto meno tangibile; parole come Sicurezza e Ordine lo sono assai meno.

È allora la riflessione filosofica sul linguaggio a offrirci un’àncora di salvezza contro l’esercizio della forza e l’innescarsi di nuove guerre, mettendo a nudo il vuoto che si nasconde dietro parole di per sé belligeranti.

Chiarire i concetti, screditare le parole congenitamente vuote, definire l’uso di altre attraverso analisi precise, per quanto possa sembrare strano, servirebbe a salvare delle vite umane.

Sicurezza, Ordine, Nazione, ma anche Democrazia, Capitalismo, Comunismo, Fascismo: tutte parole che apparentemente rappresentano realtà assolute, isolate da situazioni concrete e necessità esterne, come se fossero fini in sé, quando invece andrebbero vincolate a condizioni concrete.

Qualcosa allora sarà buono e giusto non in assoluto, ma soltanto ‘nella misura in cui’, o ‘a condizione che’ si dia una certa, concreta situazione. Non si dirà allora: ‘la Democrazia è’ o ‘la Democrazia deve’, ma ‘c’è democrazia nella misura in cui’ o ‘a condizione che’. Un compito questo – di vincolare le parole a condizioni reali e di restringere il pensiero astratto alle cose – che è ancora estremamente attuale e urgente per sospendere le «cause immaginarie» dei conflitti.

Fa sorridere che proprio lei, Simone, che sconcertava amici e colleghi con il suo radicalismo, inviti alla misura, all’equilibrio, alla lentezza dell’analisi e della riflessione sul linguaggio. Ci si stupirà meno di questo, se si interpreta l’invito al radicamento nelle cose come ulteriore declinazione di quella fusione di riflessione filosofica e interesse per le condizioni della vita reale, – di universale astratto e particolare concreto, – che rimane una costante della sua esistenza.

Del resto, l’appello all’analisi, alla misura, all’equilibrio, non va affatto scambiato per ‘Pacifismo’, altra parola inconsistente. Per Weil la lotta resta condizione vitale inaggirabile: la stessa ‘lotta di classe’ «è fra tutti i conflitti il più fondato, il più serio, se non addirittura l’unico». Il punto è sempre distinguere l’immaginario dal reale, non ipostatizzare concetti vuoti, e non subire il fascino di entità immaginarie.

Nella pratica, dirà altrove, per sanare il conflitto sociale e risolvere la lotta di classe occorre predisporre un sistema di istituzioni che porti al potere persone in grado di udire e comprendere il grido «fievole e maldestro di chi subisce il male». Ricorda di nuovo Beauvoir:

Mi avevano raccontato che nell’apprendere che in Cina era scoppiata una grande carestia [Simone Weil] s’era messa a singhiozzare; queste lacrime m’imposero il rispetto più ancora dei suoi doni di filosofia. Invidiai un cuore capace di battere all’unisono con l’intero universo.

Dove sarebbe Weil oggi? Probabilmente sulle alture del Rojava, su una spiaggia di Lampedusa o a insegnare filosofia nel liceo di una banlieu parigina; a scrivere e studiare di sera.


 

weilSimone Weil, Il libro del potere, Chiarelettere 2016, 93 pp. 9,5€