Non ho saputo resistere. Quando ho avuto per le mani Il gaucho insopportabile (traduzione italiana di Ilide Carmignani), questo libretto agile, dalla coperta color nocciola sono andato subito a leggermi la conferenza su letteratura e malattia. Ho ceduto, colpevolmente, a un istinto morboso che su Roberto Bolaño, almeno su certe figure che sono oltre la morbosità, oltre il magnetismo della colpa, non si dovrebbe avere.

Non dovremmo essere così disinvolti con i nostri vizi, perché dev’esserci un modo alternativo per sondare l’orrore, il male, il maleodorante, il necrotico, il guasto, la corruzione dei materiali di cui è fasciata un’esistenza, un altro modo per non essere atroci. Bolaño non meritava il mio sguardo intrusivo nel suo inferno privato, anche se quell’inferno privato l’aveva messo per iscritto. E non era neanche la prima volta che questo libro compariva nelle librerie. Il gaucho insostenibile si chiamava nell’edizione Sellerio uscita nel 2006 (allora la traduzione era di Maria Nicola) e chissà in quanti già avevano scrutato l’incerto passeggiare di Roberto.

In quelle pagine sulla malattia, dove si legge fin da subito che:

Scrivere sulla malattia, soprattutto se uno è gravemente malato, può essere un supplizio. Scrivere sulla malattia, se uno oltre a essere gravemente malato, è ipocondriaco, è un atto masochistico o di disperazione.

C’è qualcosa del suo eterno dislocarsi, del suo essere obliquo, della sua deriva del discorso, del suo sguardo continuamente in campo totale, del suo racconto tarato sul sommario genettiano. Ci sono atomi delle avventure di Arcimboldi, dei realvisceralisti messicani, tra Santa Teresa – dove il male maschile sacrifica donne sull’altare della Santa Muerte e della vendetta – e le «puttane assassine» dei suoi racconti.

Ma stavolta non si parla di personaggi fittizi, non c’è lo schermo che lo scrittore cileno usa per raccontare le sue storie. È una specie di registrazione sul campo, questa conferenza, un dispaccio di guerra: quella contro la malattia, che segna una linea e Roberto sta di qua dal fronte e il fronte avanza sempre di più e lui che arretra e alla fine – prima della fine – un piccolo rituale, apotropaico, un’autodiagnosi quotidiana come un esercizio spirituale.

Nella smania distruttrice che arriva con il Niente non c’è una ricomposizione quieta degli opposti, dei fili lasciati scoperti e dei lacci dimenticati slacciati: c’è l’incendio dionisiaco dei sensi: «Scopare è l’unica cosa che vogliono quelli che stanno per morire. […] Perfino i morti, ho letto da qualche parte, l’unica cosa che vogliono è scopare». Nel mondo dionisiaco dello sfascio Apollo è in esilio. La liberazione, però, non è soltanto sessuale, ma anche stilistica: si può sperimentare anche la «felicità atroce» di scrivere male, parlare male.

Si chiudono i conti, perché in fondo siamo all’ultimo atto e l’autore lo sa. Non c’è niente di più miserabile e tragico e però definitivamente umano che conoscere la propria data di scadenza. Avvicinarsi al confine, accerchiare i propri ultimi giorni come un commovente pistolero del West (o come un gaucho della pampa): aspettare che il treno scarichi i criminali nel paesino di frontiera ed essere sicuri che stavolta, dal duello, chi ne uscirà in una cassa di legno sarai proprio tu.

Lo sa come sa che quando non riuscirà più a tenere le mani aperte davanti a sé con tutte le dita sollevate sarà il segno decisivo, il marchio fatale della malattia. A quel punto l’ultimo capitolo dovrà essere scritto.

Speravo di leggere in questa Letteratura+malattia=malattia un diario dello scasso epatico che lo uccise, lo speravo più che per assecondare un guilty pleasure, perché dovevano esserci ragioni ed elaborazioni intorno alla perdita di uno scrittore così, perciò speravo di leggere: “Morire è ok, non fa poi così male”. E invece silenzio. I morbosi a bocca asciutta, perché in Letteratura+malattia=malattia si parla di poesia, di viaggi, di sesso, di quanto tutto si riduca all’osso quando sei in ascensore con una dottoressa bassina e dai tratti asiatici e il tuo specialista ti ha detto che le cose non vanno bene affatto, nient’affatto. Ma non si parla di come avviene il decadimento di un malato. Forse su certe cose è bene non scrivere. Baudelaire parla di «un’oasi di orrore in un deserto di noia». E chiosa Bolaño: o sei uno zombie o sei uno schiavista. Il tema è l’esistenza, nientemeno. Il verso di Baudelaire gli piaceva moltissimo, lo usò come esergo di 2666 e del resto il deserto di Santa Teresa è una specie di terminal delle esperienze terrene. Dal deserto emergono cadaveri e nel deserto un Dionisio sanguinario si toglie le proprie voglie.

Tutta l’opera di Bolaño, in fin dei conti, parla del contagio dei deserti. Anche Città del Messico è Santa Teresa, anche Buenos Aires è Santa Teresa, anche Parigi è Santa Teresa, le fogne delle metropoli dove il destino del popolo dei topi aderisce al sogno collettivista sono Santa Teresa, anche la chiesa cattolica è il deserto, la letteratura è il deserto, il Cile della dittatura è il deserto, tutto è fuoriuscita dei deserti, virus delle sabbie.

 

In questo libro racconti diversissimi s’inseguono. A prima vista sembrano testi raccolti senza una vera necessità interna, accalcati sulla massicciata della scrivania, sospinti dall’urgenza dell’attimo finale, dell’orologio in andante accelerato. Sussurra la leggenda che Bolaño, a Barcellona per l’aggravarsi della patologia epatica che lo avrebbe ucciso di lì a poco, chiedesse di far sosta prima dal suo editore e soltanto dopo di andare in ospedale.

Invece un ordine interno c’è, un intrico di cordame che lega insieme i molteplici scenari raccontati nel Gaucho insopportabile. C’è una scia luminosa da seguire nel labirinto oscuro del citazionismo disorientante, della prosa furiosa di Bolaño, dei suoi scarti di ritmo: è un’illuminotecnica poetica che veglia sulle tavole calde urbane, sulle mense precarie dei gauchos, è questa la luce tenera che abbaglia il vero pasto nudo di cui si cibano i personaggi bolañiani: la poesia. Si scrive sempre nei romanzi e nei racconti di Bolaño e spesso si scrivono poesie. Ogni volta in cui è possibile, si scrivono poesie. L’autore diceva che la sua vocazione era quella poetica e la prosa gli dava da mangiare e un’altra storia racconta che 2666 sia stato scritto per dare al figlio Lautaro una rendita. Scrivono molto anche questi personaggi: la poesia si nasconde ovunque, anche nel popolo dei topi: «Eustaquio […] componeva e declamava versi […] il che lo rendeva palesemente inabile al lavoro».

Perché la poesia, più di tutto, è esplorazione di verità. Si legge in Jim, il racconto che apre il libro:

Che cos’è la poesia, Jim?, gli domandavano i bambini mendicanti a Città del Messico. Jim li ascoltava guardando le nuvole e poi si metteva a vomitare. Lessico, eloquenza, ricerca della verità. Epifania. Come quando ti appare la Madonna.

«Epifania». La poesia è una rivelazione, un guscio che si spacca e mostra il midollo delle cose. E un po’ di questa germinazione è presente in tutti gli altri racconti, intarsiati d’intertestualità, ma tutti quanti soltanto apparentemente postmodernisti.

Vediamoli in breve. La title-track è addirittura il remake di un racconto di Borges, Il sud. Héctor Pereda, nella Buenos Aires prosciugata dalla crisi economica degli anni Duemila, si ritira dalla vita pubblica e si rifugia nella pampa, dove le vacche hanno ceduto il posto a conigli selvatici.

 

Allo stesso modo è ad alto tasso di prestiti il racconto Il poliziotto dei topi: Pepe el Tira è nientemeno che il nipote di Josefine la cantante, la protagonista del celebre racconto di Kafka. È lui il protagonista di questo lucido spin off kafkiano, ibridato con Chandler, Spiegelmann e il Basil disneyano e l’allegoria sovietica della collettività:

Viviamo nella collettività e la collettività ha bisogno soltanto del lavoro quotidiano, dell’attività costante di ognuno dei suoi membri per un fine che trascende le aspirazioni individuali e che, tuttavia, è l’unico a garantire la nostra esistenza come individui.

 

Pepe el Tira intuisce che l’infanticidio sul quale indaga vada oltre l’accidente biologico, il mantra darwinista della struggle for life. C’è una scelta, dietro, un atto gratuito. Così, se la Josefine kafkiana segnava un divenire dell’umano verso il disumano, in Bolaño il poliziotto Pepe è il rappresentante di una legge sclerotizzata alla quale appare, d’improvviso, l’oscura epifania di un Dionisio assassino.

Su altrettanti modelli iperletterari è incardinata la storia di Álvaro Rousselot, scrittore argentino che, sulle tracce del misterioso regista francese Guy Morini, suo plagiatore, si trova sulla strada dello Stevenson di Jeckyll e Hyde. E cosa dire del mimetismo dei Due racconti cattolici, scritti come i versetti di una scrittura sacra?

Non è certo una novità, per un lettore di Bolaño, imbattersi in questa feroce intertestualità: materiali fluidi si travasano da un pianeta all’altro; il reportage finisce nel romanzo (Sergio González Rodrìguez, il reporter di Ossa nel deserto, storica inchiesta sui delitti di Ciudad Juárez, diventa personaggio letterario nella Parte dei delitti, incentrata sui femminicidi di Santa Teresa, ovvero la Ciudad Juárez di 2666), ma anche i personaggi dei racconti trasmigrano nei romanzi: è il caso di Lalo Cura che dal racconto Prefigurazione di Lalo Cura (in Puttane assassine) giunge a 2666, dove cambia funzione e attività, ma rimane lo stesso personaggio. Stessa sorte tocca ad Amalfitano, che cambia moglie tra 2666 e Il dispiaceri del vero poliziotto. E poi c’è la pletora di poeti e scrittori veri e immaginari citati ovunque, a partire dai Detective selvaggi fino alla Letteratura nazista in America.

E allora è lecito domandarsi: ma Bolaño sta giocando? Manipola i frammenti di altre letterature, di altri immaginari come un bambino assembla i pezzi del Lego?

Bolaño è così scettico, sfiduciato nei confronti della letteratura, incapace di costruire, tutto concentrato sui cocci, unica fonte di divertimento rimasto?

La sua opera è, per così dire, in mano al Divertimento, questo ente astratto, l’intrattenimento infinito e mortale: in fondo gli anni dei Detective selvaggi sono gli stessi di Infinite jest, il monstrum di David Foster Wallace sull’Intrattenimento appunto. Sarebbe logico domandarsi se anche lo scrittore cileno si immerge nel bagnomaria coevo di riflessioni teoriche intorno alla Tv, oltre McLuhan, oltre Debord, verso Steve Jobs e l’iperconnessione e la necessità lacerante di sconfiggere la noia (il Re pallido, incompiuto ultimo romanzo di DFW sarà tutto incentrato sulla noia, in maniera speculare a Infinite jest).

Questo è il postmodernismo, oltre la bandiera delle citazioni allaganti: è sfiducia. La letteratura non serve a niente, lo sapevamo già: la letteratura non offre una visione. La letteratura serve all’intrattenimento, è una costola della Tv, è un ufficio in un network. Qualche tempo fa un tizio mi disse: «Il testo, cos’è il testo? Cosa ne è rimasto? È un’appendice di Instagram». Questo è il postmodernismo, è la misologia, sfiducia nei confronti della parola.

Ma non Bolaño. Lui non era postmodernista, non era uno sfiduciato, tutt’altro, anche se – parafrasando Philip Roth – credeva che ogni biografia fosse governata dal caso. Non era un ideologo, ma credeva in maniera quasi mistica nella parola, nella fabbricazione del senso grazie alla parola. S’impasta la voce con la poesia, il sesso, i viaggi, la morte. Di cos’altro vuoi parlare? Di racconto in racconto, di romanzo in romanzo, fino alla stazione centrale della “letteratura e malattia”.

Tre figure, fra le altre, in quella conferenza. Tre sassi lucenti sotto la furia del torrente. Poeti e scrittori fra i maggiori, ciascuno colto al crocevia tra vita e morte, tra quello che significa essere vivi (i libri, il sesso, i viaggi) e quello che significa esser morti (i libri, il sesso, i viaggi).

Il primo è Mallarmé. Scrive Roberto Bolaño: «I libri sono in numero finito, gli incontri sessuali sono in numero finito, ma il desiderio di leggere e di scopare è infinito, superiore alla nostra stessa morte, le nostre paure, le nostre speranze di pace».

Il secondo è Baudelaire: «per viaggiare davvero i viaggiatori non devono avere nulla da perdere».

E infine Kafka, la chiusura:

capiva che i viaggi, il sesso e i libri sono strade che non portano da nessuna parte, eppure sono strade su cui bisogna spingersi e perdersi per ritrovarsi o per trovare qualcosa, qualunque cosa, un libro, un gesto, un oggetto perduto, per trovare qualunque cosa, forse un metodo, con un po’ di fortuna il nuovo, quello che è sempre stato lì.

Invoca Bolaño, invoca uno spirito morale, non spende rituali in un recinto di spettri letterali. La sentiamo la sua voce, che chiama dalla posizione estrema nella quale si trova: chiede una fiducia nella parola, facendo piazza pulita di cascami postmodernisti. E ancora: il caso ci domina, ma è sempre necessario domandarsi cosa descrivere. Lui, ossessionato dalle visioni oscene degli snuff movies, quelli spettacoli che, avrebbe detto Renato Serra a proposito di Kipling, «i Padroni della Vita e della Morte hanno voluto che fossero normalmente celati agli occhi dei mortali», lui che ne ha fatto il centro nero del suo romanzo di romanzi ci consegna, alla fine della propria vita, in Letteratura+malattia un esempio di visione morale. E lo fa straziandoci la carne, lacerandoci il cuore con delicatezza e distacco, con compostezza, senza trucchetti da quattro soldi, raccontando di un personaggio intravisto in una notte insonne, in Tv. Per inciso: la Tv, in Bolano, è una porta di accesso fra due mondi; è ricreazione sacra della Visione (in 2666 c’è un brano bellissimo sul VHS casalingo che, nel silenzio e nel buio del proprio salotto, resuscita la religiosità delle prime sale cinematografiche, quando vedere un film significava partecipare a un’allucinazione collettiva, alla proiezione di un sogno) ed è messaggera degli inferi. La televisione rivela l’orrore e salva una liturgia perduta.

Racconta il conferenziere di un videoartista che porta alle estreme conseguenze la sua body art, infliggendosi ferite e dolori di ogni genere. Fin quando non scopre di essere a sua volta un malato terminale e non decide, ovviamente, di filmare anche quest’ultima esperienza. Seguono momenti di sconforto e di ospedali, ma anche peregrinazioni sui luoghi d’infanzia. Finché l’inevitabile giunge e il performer è in ospedale, mentre attende la morte e continua a girare il suo film. Ma ecco che la visione si sdoppia: c’è una troupe tedesca o francese che sta girando un documentario proprio sul suo progetto funereo. Il documentarista che riprende se stesso, perciò, è a sua volta ripreso da un’altra camera. E poco prima che il sipario si chiuda definitivamente sulla vita del body artist una dissolvenza ci nega l’ultimo istante, chiudendo su una scarna notizia di morte:

Il documentario dell’artista del dolore, al contrario, segue passo passo la sua agonia, ma questo noi non lo vediamo, possiamo solo immaginarlo, o dissolvere l’immagine in nero e leggere l’asettica data della sua morte, perché se lo vedessimo non riusciremmo a sopportarlo.

Lo sguardo dell’insonne, un occhio sonnambolico, evaporato, che non appartiene più alla veglia ma non è mai appartenuto al sonno, si arresta. È così facile scivolare sul piano inclinato della pigrizia, della cedevolezza, arrancare perdendosi nel tutto, dimenticare la decenza di osservare da una giusta distanza, oppure al contrario bendarsi per non vedere, schivare i territori del pericolo per salvaguardare quel poco di miserabile che stringiamo nel cesto delle mani. In questo Bolaño non è poi così distante da David Foster Wallace, anche lui ossessionato dall’inevitabilità dolorosa di un contatto con gli altri. E mai ha giocato Bolaño, anche se la sua opera è piena di disperato umorismo: mai ha avuto meno che un sacro rispetto per tutto ciò che si può descrivere e osservare, tra Santa Teresa, l’inferno e tutto il resto del mondo.

E così questo libretto dall’aspetto gracile, che forse, anzi, che certamente non è fra le sue cose migliori, tra i romanzi maggiori appunto e le Puttane assassine e Chiamate telefoniche, è senz’altro un bellissimo biglietto d’addio, che ci ricorda quanto sia degna di fiducia la parola e su quanto sia necessario domandarsi, giorno dopo giorno, cosa significa essere vivi e cosa significa essere morti. E allora addio Roberto.


gauchoRoberto Bolaño, Il gaucho insopportabile, Adelphi, Milano 2017, 158 pp. 18€