Quelli che invitavano Piperno ad asciugare, a slacciare le circonvoluzioni della sua prosa dovrebbero essere soddisfatti: innanzitutto, Dove la storia finisce recupera e migliora nel numero di pagine la relativa snellezza del romanzo d’esordio Con le peggiori intenzioni e non mostra l’ambizione del dittico Il fuoco amico dei ricordi, che era costituito da Persecuzione e Inseparabili, da poco riuniti in un solo volume; inoltre, lo scrittore svela un minore auto-compiacimento e sembra adottare, in alcuni passaggi, una castiglionesca sprezzatura, un fraseggiare più “sbadato” che rende meno faticosa la lettura. Qua e là, il gusto per l’aggettivazione non comune si riaffaccia, ma in misura tale da non infastidire, nonostante «l’alba striasse le pareti di ragnatele diafane».

Avvicinarsi a Piperno significa ritrovarsi ad avere a che fare con il tempo, più che con lo spazio: certo, ci sono l’immancabile Roma ebraica, il Portico d’Ottavia, i villini liberty dei quartieri Nord, Sabaudia, ma per tutti questi punti passa una e una sola retta, quella del tempo, che li unisce e li rende equivalenti. I luoghi acquistano consistenza quando non esistono più, nei ricordi di chi ritorna in città dopo sedici anni californiani, perché quando la vita li attraversava non riuscivi a capire nulla, non intuivi quali fossero i loro argini: che il problema del tempo sia il problema stesso di ogni romanzo, addirittura la ragione della nascita di questo genere letterario, non serve andare a spiegarlo a un proustiano o proustologo come Piperno. Così, la storia di questo romanzo sembra lontanissima, arcaica, anche se i giorni dovrebbero essere i nostri, come testimoniato dall’ampio ricorso agli ultimi ritrovati tecnologici: i personaggi si servono agilmente di iPad, Twitter, Facebook, Instagram e quant’altro, ma sembrano farlo per non essere risucchiati da un tempo senza nome, per mettere le mani su qualcosa di solido, per non perdere un ancoraggio. A volte, (anche) Proust impazzisce e, allora, Piperno esagera: «Avvertiva una vaga, generica nostalgia di qualcosa di altrettanto vago e generico». Questa è una nuova frontiera, molto umana e difficile da comprendere tecnologicamente: la possiamo chiamare “alta indefinizione”?

È la voce del narratore, ovviamente, ad allontanare, spingere via la vicenda, ad averlo già fatto, prima di cominciare a scrivere: è lui a raccontare la storia patriarcale di Matteo Zevi e quella dei suoi affetti, di una famiglia in cui ciascuno sa di dover esercitare il proprio diritto alla felicità, e che sono gli altri a fare attrito, almeno finché non scopre che un loro abbraccio era necessario, per attuare e modulare quel diritto. Se di famiglie ne ha una sola, quella romana, di mogli c’è un esubero, invece, nella vita di Matteo, che rientra nella Capitale dopo l’esilio americano: ma è Federica l’unica a contare, a restare, ad aspettare la sua ricomparsa, a rifiutarsi tenacemente di chiedergli il divorzio, nonostante tutto, cioè nonostante i guai, le sofferenze, i danni irreversibili che il marito non ha mai smesso di procurarle. Ad accusarla, a rimproverarle di avere oltrepassato ogni soglia dell’umiliazione, a rispondere alla sua accondiscendenza con un sovrappiù di freddezza, i figli e l’ambiente sociale nel quale non è mai riuscita ad adattarsi: ciascun membro della fu casa Zevi, d’altronde, ha da fronteggiare le proprie crisi d’identità e, quindi, di coppia e matrimoniali, e scarseggiano non solo le forze per l’aiuto reciproco, ma anche la percezione dell’esistenza del dolore altrui.

Difficile, dopo Barney Panofsky, non vederlo reincarnato, ogni volta, non riconoscerlo in Matteo: ma abbiamo imparato che dovremo farci l’abitudine, e che bisogna casomai non impigrirsi e andare più indietro, ritrovare quelle figure bellowiane che hanno funzionato da archetipo anche per la creatura di Mordecai Richler. Sono scene o scenette, in senso drammaturgico e non denigratorio, quelle di Dove la storia finisce: chiuse spesso da una sentenza del narratore o di un personaggio, che restaura una pace e rompe la scia del tempo, per un attimo, fino alla pagina che segue. Il vizio temporale che in Con le peggiori intenzioni costringeva scrittore e lettore all’immobilità, e quest’ultimo ad assistere alla perifrasi che sostituiva l’atto, che ne faceva quasi un mémoir, non si ripete, ma il prezzo da pagare è la distanza: il narratore disinvolto è al di sopra, al di là della storia e la lascia scivolare, tanto che il romanzo consuma mesi e mesi, nel girare dei capitoli, senza paura dei vuoti, di abbandonare per un po’ a sé stessi i personaggi. Che cosa accade, allora, “fuori” da queste pagine, negli spiragli che lasciano aperti? Quando questa curiosità viene eccitata, vuol dire che il romanzo non è a tenuta stagna, non pretende di esaurire ogni rappresentazione e funziona, almeno per un lettore che non voglia essere mantenuto in cattività.

Ogni opera seleziona i criteri coi quali la giudicheremo, e serve, in questo caso, il metro faulkneriano della grandezza, il metodo che lo scrittore americano utilizzava per misurare i propri colleghi, cioè la portata dei loro fallimenti: Hemingway, per esempio, risultava corretto ed efficace, ma non aveva mai osato, perché temeva troppo il tonfo, la caduta, nonostante la propria auto-mitologia; Piperno guadagnerebbe una buona posizione, invece, perché i rischi che decide di correre, proponendo il finale imprevedibile in cui le storie minuscole e quella maiuscola vengono a cozzare, sono altissimi, e non pienamente ripagati, come inevitabilmente càpita. Quando deus ex machina è la scomparsa fisica, o la fuga, o l’aliyah, non si sa a chi faccia più comodo: se agli attori del dramma, che avevano esaurito ogni immaginazione e non riuscivano più a muoversi, o al demiurgo che, pagina dopo pagina, si era affezionato troppo e non sapeva come uscirne. Comunque, è vero che la vita va così e che, a volte, certe tragedie ci proteggono dalla vita stessa.

I critici fanno altri nomi, quando si tratta di tracciare una mappa della narrativa contemporanea, non quello di Piperno: qualcuno dovrebbe indagare più a fondo le loro ragioni, e se non siano, a volte, extra-letterarie. Quelli dello scrittore romano sono romanzi di classe, dove la specificazione vale come indice di provenienza dei personaggi e, presumibilmente, dello stesso autore: la buona borghesia, ebraica e non, che conosciamo e frequentiamo in sua compagnia quasi non ha cittadinanza, all’interno dei confini del più recente romanzo italiano, che rifugge dalla tematizzazione dei soldi, dei tanti soldi, con l’eccezione del sodale di Piperno, e suo concittadino, Leonardo Colombati. Le opere di entrambi non sembrano stimolare molto la reattività della critica letteraria più giovane, forse perché la loro appare come una narrativa più “pacificata” e meno fitta di proclami socio-politici: in Dove la storia finisce, per esempio, il disagio non è sociale né socializzabile, bensì individuale, perché non può né vuole essere comunicato e trasmesso, e nessuno si confida con nessun altro.

Chi era convinto che Piperno avesse dato il proprio meglio nella saggistica e nella pubblicistica – la raccolta dei suoi articoli è uscita nel 2013 con il titolo di Pubblici infortuni – avrà qualche dubbio in più, adesso. I più maliziosi e gli incontentabili, invece, subiranno una tentazione: che sarebbe di una storia del genere, se affidata a Moravia, a quello che, per Luigi Baldacci, era il suo «meraviglioso stile di plastica»? Anche o soprattutto al Moravia stanco, per esempio, de Il viaggio a Roma, che presenta alcune affinità con questo romanzo.


pipernoAlessandro Piperno, Dove finisce la storia, Mondadori, Milano 2016, 277 pp. 20€