Qualche settimana fa mi trovavo al cinema per vedere Lo chiamavano jeeg robot. Prima che il film iniziasse, venivano proposti i consueti trailer dei film in uscita nelle sale. Tra questi uno in particolare aveva attirato la mia attenzione. Si vedevano gare automobilistiche, asfalto sfrigolante, sequenze adrenaliniche, il tutto commentato da una spavalda colonna sonora  a base di riff distorti e beat martellante. Ma tra i protagonisti non c’era nessun attore dai bicipiti ipersviluppati e nemmeno amazzoni californiane, ma uno Stefano Accorsi irriconoscibile, smagrito e dal capello unto, che si aggira tra i box con l’aria di uno navigato, insieme a una ragazzina con la tuta da pilota. Il film si chiamava Veloce come il vento e il regista era italianissimo: Matteo Rovere.

Nell’arco di un mese sono usciti due titoli italiani  che sfidano le colonne d’ercole del cinema nostrano, spingendosi oltre Margherita Buy e i drammi da salotto. Ci sono alcuni elementi che fanno pensare che questo non sia un fenomeno isolato, ma qualcosa di più. Si tratta innanzitutto di due giovani registi, sotto i quarant’anni ed entrambi romani. Mainetti, con il suo supereroe di borgata, è andato oltre qualunque aspettativa e c’è chi parla di un secondo capitolo già in programmazione. Rovere si era già cimentato in una trasposizione – non del tutto convincente –  di un romanzo di Sandro  Veronesi, Gli sfiorati, storia di un grafologo ossessionato dalla sorellastra che gli occupa casa e lo costringe a vagabondare per Roma pur di evitarla. Passare da una materia borghese e perfettamente italiana tratta da uno sfornatore di bestseller come Veronesi, a una storia di corse di bolidi, poteva rivelarsi il classico passo falso. Prima di vedere il film mi chiedevo come si potesse rendere tutto quello scintillio di carrozzerie cromate e schianti pirotecnici che siamo soliti ammirare nei vari Fast and Furious, in una chiave più europea, evitando patetiche imitazioni.  Evidente che Matteo Rovere conoscesse la soluzione e lo ha dimostrato con un lavoro a dir poco sorprendente. Il trucco consiste nel non usare trucchi. Inseguire modelli che non ci appartengono, imitandone stile e linguaggio, conduce a errori e a scelte artificiose. Se non si hanno i mezzi digitali delle produzioni hollywoodiane, bisogna puntare sulla verità. Mostrare macchine e corse autentiche, ad esempio e scegliere una storia di redenzione ambientata in Emilia, terra feconda di derapate e testacoda.

Giulia è una giovanissima pilota del campionato auto gt, grintosa e meno acerba di quanto possa dire l’età. L’improvvisa morte del padre, manager della scuderia, la getta in un’improvvisa condizione di indigenza e rischia di infrangere tutti i suoi sogni di sportiva. A complicare la situazione ci pensa il fratello ex campione di rally ora tossicodipendente, Loris detto Ballerino, che torna a reclamare un posto nel casolare appartenuto al genitore defunto. I fratelli impareranno a convivere e a condividere i loro guai, fino a formare un pittoresco team in grado di affrontare tutte le sfide, sia dentro che fuori dal circuito.
La storia, tratta da fatti realmente accaduti al pilota di rally Carlo Capone, ricorda nella sua elementare struttura quella di molti film del genere underdog, da Rocky, a Flashdance, fino al più recente The Fighter di David O.Russel (con quest’ultimo i richiami sono più fitti, dal legame di sangue alla tossicodipendenza).

L’elemento originale dell’opera di Rovere non è da ricercare nella storia, bensì nella qualità della scrittura, frutto di un lavoro chirurgico sui personaggi e le loro dinamiche. Dimenticate lo Stefano Accorsi giovanilista dei primi anni della carriera o il campione dei trentenni in crisi visti ne L’ultimo bacio di Muccino; l’attore emiliano sfodera una performance maestosa, frutto di un’applicazione magistrale del metodo Stanislavskij, tra trasformazione fisica, studio psicologico e affidamento al proprio humus culturale. Finalmente alla prova su un’interpretazione non in levare ma sopra le righe, Accorsi assume su di sé il peso maggiore della scena, nascondendo imprecisioni o sbavature dei propri colleghi. Il suo personaggio è del resto il più sfaccettato in assoluto, rappresentando il maudit delle quattro ruote in cerca di una seconda chance. Altra storia è quella di Giulia, interpretata da Matilda De Angelis. Capelli blu e orecchino, la giovane promessa del campionato gt sembra l’eroina di un fumetto giapponese. Nel corso del film ne apprezziamo la sensibilità e la ruvidezza di giovane chiamata ad affrontare troppo presto le responsabilità di una vita adulta. A mancare è forse una certa sicurezza recitativa, messa in evidenza nel confronto con un Accorsi in stato di grazia, ma è pur sempre il suo primo film: la ragazza si farà. Il realismo dell’ambientazione è totale, grazie soprattutto alla scelta di girare vere scene di corse automobilistiche, iscrivendo la macchina che guida Giulia al vero campionato. Stuntmen sono perlopiù ex campioni o piloti tuttora in attività, difficili da tenere a bada con un volante tra le mani. Il risultato è una resa graffiante e diretta della corsa, come quelle curve prese da Giulia troppo pulite e che Loris vorrebbe che tagliasse, sporcasse, andando a prendersi dei rischi. Rovere ricorda così come la velocità faccia parte della tradizione italiana, ma la sua rappresentazione cinematografica passa più per gli inseguimenti dei film poliziotteschi, o per le soluzioni analogiche di un Ronin o un Taxxi, piuttosto che per Rush o per la già citata saga/franchising con Vin Diesel, Fast and Furious.
Veloce come il vento è la seconda sorpresa quest’anno di un cinema italiano forse non d’autore, ma molto convincente; Rovere e Mainetti dimostrano una grande conoscenza del mezzo e del linguaggio filmico, facendoci credere nel risveglio di un cinema italiano più arrembante e spregiudicato di quello visto negli ultimi decenni.