Avendo accolto Antonio Moresco dopo il divorzio da Mondadori, Giunti vede bene di far fruttare l’acquisto pubblicando un romanzo più esile, gestibile e vendibile del voluminoso e complesso Gli increati. Questo romanzo è L’addio, che Antonio Franchini ha già deciso di portare allo Strega e sulla cui copertina, non a caso, il brand del Grande Scrittore compare in caratteri due o tre volte più grandi del titolo.
La novità, annunciata con enfasi dalla pubblicità dei mesi scorsi, è che Moresco scrive un poliziesco – metafisico, sì, ma pur sempre un poliziesco. È un fatto che desta attenzione, se si pensa che la crime fiction è forse il genere con maggiore forza simbolica della letteratura del Novecento. L’addio non è però modellato sul giallo classico, fondato sulla tradizionale circolarità ordine-colpa-punizione-ritorno all’ordine, ma sull’hard boiled, in cui è il disordine a essere dimensione fondante dell’esistenza.
Ne L’addio ci sono una città dei vivi e una città dei morti, vastissime, speculari e separate da un confine poco chiaro. Attraverso questo confine si muove D’Arco, “uno sbirro morto” incaricato da un uomo misterioso di indagare sui sempre più massicci arrivi di bambini nella città dei morti. Nella città dei vivi lo sbirro si immerge in un complotto apparentemente smisurato:
Ci sono password impenetrabili e reti di complicità ovunque, nei luoghi e negli ambienti più insospettati, non solo nel mondo della pornografia, della pedofilia singola o organizzata e in quello della droga (…). Ci sono aree di complicità attive che si sostengono e si rilasciano moltiplicando questo massacro, con diramazioni dappertutto, nel mondo della criminalità organizzata, nei network, nelle banche, negli istituti finanziari, con informazioni borsistiche mascherate che bisogna saper decifrare, persino nel parlamento della città dei vivi, nella magistratura e nella polizia stessa (…). Società segrete, holding per lo smaltimento dei rifiuti, organizzazioni sportive, case di moda, negozi, conventi, istituti religiosi, ospedali con sale operatorie e stanze nascoste messe a disposizione, gang organizzate che schiavizzano minori e li trasferiscono da un lontano punto all’altro di questa enorme città, set supersegreti dove seviziano e ammazzano bambini e bambine.
Nelle tre notti che passa nella città dei vivi, D’Arco si trova a confrontarsi con assassini che appartengono a diverse categorie umane, con quell’effetto di catalogo a cui il lettore di Moresco è abituato – i pedofili, il ballerino, le mamme, il chirurgo, gli scommettitori, fino a che, la terza notte, non si misura con il misterioso uomo di luce, che pare essere il capo del complotto. L’uomo di luce rivela tuttavia a D’Arco che era atteso, anzi, che la partenza di D’Arco per la città dei vivi era stata organizzata proprio dai membri della setta, affinché lo sbirro li uccidesse e li portasse quindi nella città dei morti.
Un poliziesco metafisico, dunque, e un poliziesco credibile: anche se Moresco insiste nel sottolineare che la storia che racconta è diversa «da quelle che siete abituati a trovare nei libri polizieschi e dalle quali vi fate narcotizzare», le atmosfere e le dinamiche del noir sono rese con fedeltà, e dunque senza banalità, e la situazione che si viene delineando riesce ad assorbire e invita a proseguire la lettura.
L’addio non è però un semplice noir: al centro del romanzo sta la riflessione sulla natura del tempo che Moresco ha sviluppato in tutta la sua opera – e infatti, avverte l’autore nell’introduzione, «Questo romanzo entra da prima di dove culminano Gli increati, altrimenti non avrebbe potuto essere scritto, viene all’incontrario, da dietro, viene dopo perché viene prima. Ma non sarebbe potuto nascere se non mi si fosse aperto tutto l’orizzonte con Gli increati». Il tempo non è una linea retta, una progressione immodificabile. I morti tornano nella città dei vivi, ma i vivi influenzano quello che accade nella città dei morti; il castigo punisce il delitto, ma il delitto serve a permettere l’esistenza del castigo; la morte viene prima della vita ma anche dopo:
«Io sono quello che tu eri perché tu sei quello che io sarò…» mi ha detto il bambino, d’un tratto. «Tu se diventato grande perché io sono stato ucciso da bambino, e io sono un bambino solo perché tu sei stato ucciso da grande. Perché io sono morto per far vivere te e tu sei morto per far vivere me…».
In questo senso, il romanzo di Moresco è molto interessante, e come sempre l’autore sorprende per l’originalità, la forza e la convinzione delle sue idee – tutti quei fattori che hanno contribuito a farne un emarginato e un monolite nel panorama letterario italiano. D’altra parte, l’impressione che si ha leggendo è che quello del poliziesco sia solo un pretesto: in altre parole che le due parti (la forma simbolica del poliziesco e la speculazione metafisica) non si amalgamino del tutto. Infatti L’addio nelle ultime settanta pagine si arena in una serie di congetture verbose e dialoghi laconici (e anche questo il lettore di Moresco lo conosce bene).
Viene in mente quello che diceva Foster Wallace di Twin Peaks: «come la maggior parte dei narratori che usano il genere giallo come meccanismo strutturale e non tematico, Lynch è molto più bravo ad approfondire e complicare le trame gialle che a risolverle». Allo stesso modo Moresco sembra più bravo a raccogliere le suggestioni e le atmosfere di un genere letterario, cercando di farne un contenitore neutro per le sue idee, che non a seguirlo fino in fondo. Nessun contenitore tuttavia è neutro, soprattutto uno con una storia come quella del poliziesco, e la sensazione è quella di un’unione frettolosa e posticcia. Se questo non è di sicuro un difetto tale da turbare la folta schiera dei suoi fan, potrebbe esserlo per un lettore occasionale.
Antonio Moresco, L’addio, Giunti, Firenze 2016, 288 pp. 15€