RAR_Le storie che i libri creano con altri libri.
RAR è un progetto letterario e artistico che lavora sul concetto di analogia portando alla luce legami tra opere di autori differenti, anche al di là delle storie che le opere stesse raccontano.
Le recensioni di RAR useranno un metodo basato sul confronto di testi, che verranno intrecciati tra loro, come se fossero capitoli di una stessa Storia, che travalica le trame e gli autori. Come se si volesse creare un unico grande libro.


C’è una frase quasi al termine della non invadente nota alla riedizione – maggiorata di un racconto – di Io odio John Updike, firmata da Giordano Tedoldi, l’autore, e appena pubblicata da minimum fax, e la frase è questa: «Si dice delle raccolte di racconti che spesso c’è un filo comune, un personaggio unitario, perché si teme la frammentarietà. Lo si disse, sciaguratamente, anche di questo libro, dieci anni fa. È falso: questo è un libro di racconti che non dialogano tra loro, che sono intrattabili l’uno rispetto all’altro, in cui ogni storia accampa tutti i suoi diritti sovrani a discapito delle altre. È un libro frammentario, come dovrebbe essere ogni buona raccolta di racconti, a meno di non essere quel che dice che è o di non dire quel che è. Quindi questo libro sostituisce anche, in maniera assai più soddisfacente per tutti credo, l’elogio della frammentarietà».

Sul principio questo paragrafo mi aveva inceppata sul verbo sostituire, che nella mia mente si era storpiato in costituire, senza dubbio a causa dell’unico fonema che li distingue, certo, e dell’elogio della frammentarietà citato, poi. Perché: qual è l’elogio da sostituire? La soluzione poteva essere considerare che il libro avesse una duplice valenza: che fosse una raccolta di racconti e, in sostituzione o alternativamente, costituisse un elogio esemplificativo della frammentarietà.

Abbandono, quindi, la nota e, evitando di seguire l’indice, metto subito alla prova l’affermazione dell’autore di mutua indipendenza dei testi, e arrivo fino alla fine.

Tedoldi diceva più che la verità, se i racconti sono autosufficienti e singolari, lo sono anche i personaggi (principali), tanto da sembrare ventriloqui impegnati in elucubrazioni che risvegliano la voce nei dialoghi; immersi in abitudini sfrontate – anche se messe in pratica in solitudine o con un complice servizievole – quanto lo sono quelle reali delle persone, una volta sfondato il perbenismo di facciata e ci si addentra nell’intimità. Intimità che li isola impedendo al lettore di sovrapporli.

I loro nomi non ritornano, le abitazioni neanche; le occupazioni e la dimensione sociale sono distinte; ma è come se Tedoldi illuminasse in ciascuno, lasciasse accesa, mentre mette a riposo il resto, la parte – se vogliamo il frammento – che condividono; un’attitudine e un’indole, nello stesso modo in cui i personaggi condividerebbero una caratteristica fisica, l’iride azzurra o i capelli ricci. Tedoldi probabilmente direbbe: «siamo compagni di notti bianche e di occhiaie, benché lei lo ignori» (L’amore freddo, p. 148). Ignorano di essere riconoscibili per uno stesso motivo, i personaggi.

Sembra che soffrano di un medesimo disturbo; un fanatismo ossessivo ed egocentrico (per gli alberghi di lusso in The Leading Hotels of the World o le sospensioni criogeniche in L’amore freddo), coadiuvato da relazioni umane dove «umano» vale «di potere», se non «sottomissione», al limite dell’osare forzato che spesso incappa nel pericolo per sé, o per gli altri (vedi la cena a base di pesci scorpione in L’amore freddo o l’istinto di imboccare vie contromano in DB9); un imperativo, che a un bisogno di riconoscimento (di talento, di amore corrisposto o di devozione) alterna la fuga, notturna in auto, o in treno, lasciando alle spalle tornei di scacchi e una madre ex prostituta (Bathos); la fuga dalla romanità (Le macchine), dalla propria inettitudine per mezzo di una sbronza che dovrebbe divertire «con qualcosa di diverso dai miei soliti pensieri di suicidio e masturbazioni» (Io, vittima di Tal, p. 260) e che invece devierà il futuro, «il futuro [che] non è mai arrivato» (Io, vittima di Tal, p. 259). Un modo di essere comune, nella presenza dei vari tic e delle ossessioni – criogeniche, automobilistiche, scacchistiche, di scrittura, musicali, per gli alberghi di lusso; ossessioni ovunque, nelle reazioni e negli oggetti che circondano i personaggi.

A queste frammentarietà, però – che contemplano che ciascuna storia si regga per nascita da sola, così come la si percepisce al primo colpo, nero su bianco, e una preferenza per una specifica attitudine dei personaggi – se ne aggiunge un’altra, che può smentire, o forse dimostrare per assurdo la frase iniziale, e che richiede uno sguardo d’insieme, di aver letto l’intero volume, facendo evadere il lettore dai confini di un racconto.

Ci sono in Io odio John Updike delle parole, non tutte, soltanto alcune determinate parole, e delle frasi che le contengono, che restano attaccate alla memoria grazie a un meccanismo elementare, la ripetizione. A volte si ritrovano nel testo stesso, altre a distanza di pagine e sotto un titolo differente, in ciascun caso riecheggiano e sembrano ispessirsi, acquisire dimensione nella ricorrenza. Come se un significato ulteriore, dettato dalle ambientazioni diverse, dallo scorrere e aumentare dei paragrafi, arrivasse con la ripetizione. E non sto parlando di parole che potremmo definire, con rispetto, servili, che si sacrificano interamente per il senso del racconto, ma di parole che tirano dei fili invisibili, moltiplicando tra loro le storie.

***

La prima parola è incubo. Riporto alcune delle frasi in cui compare nell’intero volume.

[p. 150, L’amore freddo]

«Sei stato in sospensione un mese e mezzo».
«Perché hai interrotto?»
«Perché hai avuto gli incubi. Molti incubi: a catena direi».

[p. 70, Le macchine]

(Didier si allontanava sempre con pensieri osceni, promiscui, con materiale combustibile per i suoi incubi).

[p. 150, L’amore freddo]

«Non posso assolutamente lasciare in sospensione un cervello che comincia a mangiarsi da solo con gli incubi».

[p. 190, L’amore freddo]

La realtà non è mai un incubo. La realtà non ti uccide, non ti castra, ma tu ti castri, tu ti uccidi.

 

La parola è una, incubo, i racconti sono due e le citazioni insieme portano un messaggio che non è esclusivo del racconto di appartenenza; compongono una sorta di dialogo, inframmezzato dall’intervento di un narratore X e la cui chiusa prende i toni di una sentenza che assomiglia tanto a una tesi. Si tratta di una sorta di alone, di dialogo super partes che definisce quello che è un incubo; l’essenza di ciò che assumerà i connotati dell’incubo nei racconti.

***

Altra parola: croce. Riporto due stralci di conversazione.

[p. 179, The Leading Hotels of the World]

Matteo alza gli occhi sul soffitto e vede la grande croce nera dipinta come di fresco, tutta sbavata.
«Che cosa ho avuto?», domanda Matteo.
«Come padre domenicano, posso dirti che hai avuto un brutto male».

[p. 249, Io, vittima di Tal]

Mi lascio andare sul letto, disteso, e sul soffitto, dipinta in vernice nera, vedo una croce. Una crociona.
«Aspetta un momento», le dico, «guarda sul soffitto…»
«L’ho fatta per te. Così puoi pregare», risponde Lady.

 

I due frammenti iniziano in maniera pressoché identica: in una stanza da letto sul soffitto c’è una croce nera – un incipit che da atei si potrebbe definire coincidenza –, e proseguono accerchiati da una semantica religiosa che a un padre domenicano fa corrispondere la preghiera. Quante possibilità ci sono che la parola croce si ripeta contestualizzata in racconti autosufficienti all’interno di una raccolta in modo casuale? È una domanda retorica, nel senso che gli strumenti della retorica non richiedono in maniera imprescindibile una volontà per essere applicati, ed è concepibile che determinate parole, quelle più spigliate, diciamo così, abbiano persistito nell’autore. Per una ragione. Non credo si tratti di noncuranza.

A onor del vero, esistono altre occorrenze della parola croce, di uguale impatto ma di atmosfera più rarefatta, come in Bathos, [pagina 88]: «Sul manifesto c’era il disegno di un oggetto oblungo con una croce in cima». Dire di essere nella hall di un albergo, l’anteprima di molte camere da letto, è forse esagerare per collegare questa croce alle prime due. Eppure il basilare adagio di Cechov sul fucile dice che se proprio non c’è motivo per cui quel fucile (croce) stia lì, allora il motivo potrebbe essere il caso, o il fatto che la rilevanza di un elemento cambia da momento a momento e, per dirlo, l’elemento – il fucile o la croce – va usato comunque.

***

Potrei aggiungerne altre, di parole, dello stesso tenore, o anche meno esplicite ma che piovono abbondanti in molti racconti: sospensione, vomitare, ridere, maschere animali, disturbo, auto, denti, rasoio, polsi tagliati, scolopendra, Kubrick sono ulteriori legami, e non li esauriscono, che si illuminano nella lettura d’insieme e raccontano una storia altra, o rappresentano degli snodi attraverso cui passano le storie della raccolta (anche).

I punti in comune non compromettono l’autonomia dei racconti. Sarà che l’appartenere a uno stesso insieme è di per sé sufficiente a definire l’insieme. I racconti sono leggibili singolarmente per natura e statuto; così come lo sono i romanzi entro la loro copertina: per leggerne uno non è necessario leggerne altri. Ma disporre di una massa di testi nella mente e fra le mani moltiplica quel romanzo, o quel racconto, o parti di essi; forse è per questo motivo che si raccolgono. Nella mente, soprattutto. «La vera biblioteca personale di un uomo è quella che gli è rimasta nella memoria», scriveva Danilo Kiš (Il libro dei re e degli sciocchi, in Enciclopedia dei morti, Adelphi, 2011, p.143).

Ingarden direbbe che è fondamentale distinguere l’opera (d’arte) letteraria in quanto oggetto dall’esperienza che ne scaturisce, e che ogni testo ha dei punti di indeterminazione che non nuocciono alla stabilità del testo stesso ma che è compito della lettura colmare rimpolpando lo scheletro della scrittura. Questa evoluzione del testo, questo passaggio da un’esperienza estetica a una personale, nel caso di Tedoldi, avviene tra le pagine stesse di Io odio John Updike, o è uno dei modi che si può scegliere perché avvenga. Se le ripetizioni succitate fossero sfuggite alla lettura non significherebbe davvero non aver letto. Significherebbe aver colto altri squarci e punti di indeterminazione e, di questi squarci, dei frammenti differenti. Il racconto in sé è frammentario, laddove è la scrittura a esserlo, e ricongiunge le proprie parti con cosa meglio possa completarle, e sarà il lettore a mettere in moto l’operazione.

La frammentarietà cui accenna Tedoldi nella nota fa capo a un titolo; la frammentarietà cui, invece, si fa cenno con gli esempi si disfa degli stessi titoli. Ma entrambe sussistono senza richiedere alcuna esclusività. Anzi, l’elogio potrebbe persino accrescere se gli esempi a sostegno si alternano l’un l’altro e si sostituiscono privilegiando ogni volta un’ottica, lasciando leggibili parti di testo e oscurandone altre. Un racconto a discapito degli altri; delle frasi a discapito di altre oltre i confini dettati dai titoli; un’attitudine e una situazione rispetto al modo in cui potrebbero venire altrimenti descritte. Un’opera non cambia anche appuntandola, considerandone soltanto alcuni aspetti, dimenticandola.


 

updikeGiordano Tedoldi, Io odio John Updike, minimum fax, 2016, pp. 310, € 14