Joy, l’ultima fatica di David O. Russell con i suoi attori feticcio Jennifer Lawrence e Bradley Cooper, tratto dalla storia vera di Joy Mangano, imprenditrice, donna di affari, carriera e successo. Un film che avrebbe tranquillamente potuto intitolarsi “l’arte di commercializzare un mocio”.

Ma andiamo con ordine. Comincia il film e subito facciamo conoscenza della Joy bambina. Una voce off (di nonna Mimì), ci rende edotti con profusione di dettagli dell’amorevole e ingombrante famiglia allargata della bimba, sorellastra e migliore amica comprese. Bastano poche pennellate e il ritratto di Joy emerge nitido: una bambina sveglia, fantasiosa, piena di sogni e ambizioni. Tuttavia, già un’ombra grava su di lei, l’apparentemente confortante discorso della nonna che in pochi attimi le rivela il suo destino: avrai un marito, una famiglia e tutto ciò che una giovane donna con i piedi per terra può desiderare. Ma a Joy non interessa nulla di tutto ciò, lei non ha affatto i piedi per terra, anzi ama librarsi leggera sulle ali della sua sconfinata immaginazione. Il suo sogno è quello di diventare inventore, e nel suo futuro non c’è spazio per nessun principe azzurro, come dichiara lei stessa durante uno dei suoi giochi.

Stacco.

Joy è ora una giovane mamma di due figli, ha un ex marito spiantato che ancora vive nel suo seminterrato, una madre depressa che passa la vita davanti alla TV, un padre alquanto anaffettivo e un’odiosa sorellastra. I soldi scarseggiano, la casa cade a pezzi e la vita sembra aver preso definitivamente una brutta piega. Ma ecco che, dopo aver toccato il fondo, arriva il colpo di genio: perché non mettere in commercio un mocio che si strizza da solo, e che può addirittura andare in lavatrice? Dopo tutto, chi più di una casalinga (“Non ho studiato business, ma lavo pavimenti da sempre”) si intende di queste cose? È qui che Joy intraprende la sua lenta risalita, ed è qui che, purtroppo, il film comincia a naufragare.

Già, perché la prima mezzora, dedicata alla descrizione della caduta di Joy, brilla per originalità nella regia e nel montaggio, e quasi non sembra di essere davanti a un film di Hollywood. Il salto nel tempo dalla fanciullezza spensierata all’età adulta, con tutto il suo carico di responsabilità, è tanto vertiginoso quanto brutale, e tutto il disagio della protagonista emerge con grande potenza. Gli squarci surreali della demenziale telenovela ossessivamente seguita dalla madre creano un effetto straniante, e i salti avanti e indietro nel tempo e gli intermezzi onirici ammantano il film di un’atmosfera irreale, come se in questo modo il regista volesse esprimere lo sfasamento di cui soffre la vita di Joy. Insomma, sembra di essere davanti al Russell più in forma, il regista che firmò quel piccolo gioiello di Three Kings nel 1999, in cui lo stralunato George Clooney si aggira per un assurdo Kuwait devastato dalla prima guerra del Golfo alla ricerca dell’oro di Saddam.

Poi però torna il sopravvalutato Russell de Il lato positivo, un altro film incapace di mantenere fino alla fine il tono delle sue premesse. L’interminabile seconda parte dedicata alla battaglia di Joy per piazzare sul mercato il rivoluzionario mocio non ha più nulla dell’atmosfera tetra e opprimente del primo segmento, e anche la regia si appiattisce su uno stile estremamente classico e convenzionale. Ed eccoci dunque a passare con la nostra eroina tra momenti di entusiasmo e attimi di sconforto, speranze e delusioni, alti e bassi, il tutto in un tourbillon di negozianti recalcitranti, venditori incapaci, ladri di brevetti, fornitori truffaldini, frodi e appropriazioni indebite.

Ora, è molto chiaro che la vendita del mocio e il successo commerciale altro non sono che lo specchio terreno del riscatto di Joy e della sua anima martoriata dalle intemperie della vita. Riuscire a imporsi sul mercato non equivale solamente al riconoscimento economico e sociale, ma anche e soprattutto a un ritorno a quanto di più puro e importante Joy possedeva, cioè la se stessa bambina piena di sogni e ambizioni. Il maggior problema del film è che fallisce nel fondamentale passaggio dal triviale allo spirituale. La lunga, interminabile ordalia di Joy all’interno dello spietato mondo degli affari finisce per cannibalizzare tutto il resto, finendo per ridimensionare il lato più umano della vicenda. Si arriva dunque al paradosso che a un certo punto lo spettatore ha oramai dimenticato il vero motivo di tanti sforzi e sacrifici da parte di Joy, e l’obiettivo non è più il suo riscatto spirituale, ma vedere se questo benedetto mocio avrà o no il successo che merita.

Il film fallisce anche su piano degli interpreti: passino i deludenti comprimari, dall’inutile belloccio Bradley Cooper all’ombra di quel colossale attore che fu Robert De Niro, qui davvero svogliato nella parte di un padre odioso (ma la colpa è anche del personaggio scritto in modo approssimativo: si veda la pedanteria con cui si rivolge alla figlia in una delle sequenze finali); ma anche alla sopravvalutata Jennifer Lawrence, di certo dotata di innegabile presenza e carisma, manca la capacità di saper interpretare un ruolo più complesso rispetto a quello dell’eroina Katniss Everdeen di Hunger Games. Lawrence non sembra proprio a suo agio in una parte che tocchi le molteplici sfumature dell’animo umano e che non si limiti solo al triste o al risoluto, le uniche espressioni che sembra in grado di assumere genuinamente. Di conseguenza, l’attrice non rende giustizia a questo personaggio femminile così magmatico e indomito e al suo percorso, lasciando alla fine solo l’impressione di una self made woman che smette i panni della donna di casa per assumere quelli della donna d’affari in cerca del mero successo commerciale. E la bambina di un tempo, quella che in una delle sequenze più efficaci torna a tormentare in un sogno stile Twin Peaks la sé stessa adulta chiedendole conto dello sfascio della propria vita? Che fine ha fatto? Non è dato sapere. Il film di Russel ha scelto di puntare deciso sul versante più spettacolare e intrigante a discapito di quello più intimo e umano e dunque infinitamente più importante.