Dopo i fatti di Parigi del 13 novembre scorso, sembra quasi scontato fare un’analisi di quanto successo e per questo ci vorrei provare, utilizzando una prospettiva più culturale rispetto a quella socio-politica che altre volte ho utilizzato in questo spazio.

In questi giorni, chi si occupa di analisi politica sta cercando di dare un quadro geopolitico dettagliato delle cause e delle origini della serie di attentati che hanno colpito il Bataclan e altri luoghi della capitale francese, ma quello che sta dilagando sempre di più tra le maglie delle democrazie occidentali è un più subdolo messaggio, oramai neanche più tanto velato e che prende il nome di scontro di civiltà.

Nel 1996 uno tra i più importanti scienziati politici a livello mondiale, Samuel P. Huntington, ha scritto un libro, Clash of Civilization, che a grandi linee descrive come nel mondo post-guerra fredda il tenore dei conflitti sarebbe stato declinato principalmente nell’accezione dello scontro di civiltà. Huntington  ha strutturato il suo pensiero attraverso l’analisi delle diverse teorie sulla natura della politica globale durante la guerra fredda.

Alcuni teorici e scrittori sostenevano che i diritti umani, una democrazia liberale e capitalista e un’economia di libero mercato fossero diventati l’unica alternativa ideologica rimasta alle nazioni nel mondo all’indomani del crollo del muro di Berlino. In particolare, Francis Fukuyama sosteneva che il mondo avesse raggiunto, in un senso hegeliano, la “fine della storia”; Huntington riteneva invece che, mentre l’età delle ideologie era finita, il mondo era semplicemente tornato a un normale stato di cose caratterizzato dal conflitto culturale. L’asse principale dei conflitti futuri sarebbe stato lungo linee culturali e religiose, che lui sintetizza nella parola civilizzazione.

Quasi vent’anni dopo le parole di Huntington stiamo assistendo a una narrativa globale che richiama questa teoria. La ferita e le morti causate nelle strade dell’11° arrondissement diventano il simbolo di un’opposizione tra il nostro modo di fare e il loro modo, tra la nostra concezione di vita, felicità, divertimento, socialità e la loro.  Non importa se il mondo islamico è una religione che aggrega 1 miliardo e 600.000 persone e solo una infinitesima parte di esso si riconosce nelle parole di Abu Bakr al- Bhagdadi, non importa se gli stessi musulmani sono le prime vittime delle violenze del sedicente Stato Islamico, non importa se quando parliamo di “mondo islamico” non capiamo che non esiste un unico mondo islamico perché l’unità del popolo dell’Islam è venuta meno immediatamente dopo la morte di Maometto nel 632 d.c.

Non importa nulla di tutto questo, siamo Noi contro di Loro.

Ebbene forse non è cosi. L’eurocentrismo che attanaglia la nostra prospettiva, e che ci fa credere che il mondo sia un est e un ovest tracciati a partire dalla centralità geografica della cartina di Mercatore, distorce la nostra percezione. Per declinare con un approccio più contemporaneo le parole di Huntington potremmo traslare il significato di scontro di civiltà in scontro della civiltà; civiltà che in questo specifico caso, però, non è la nostra.

Quanto si sta consumando in Medioriente è la causa degli attentati parigini, sia di quelli di gennaio a Charlie Hebdo, sui quali Giacomo Raccis aveva offerto una lettura, sia di quelli attuali. Ma la guerra che si sta svolgendo non ci compete, e mi rendo conto che dicendo una cosa del genere potrei sembrare completamente pazzo. Siamo sì gli artefici di quanto sta accadendo e lo siamo stati in due momenti precisi della storia recente. Lo siamo stati quando ci siamo spartiti i rimasugli dell’impero ottomano a conclusione della prima guerra mondiale per mezzo degli accordi Sykes-Pycot – invero iniziati a guerra non ancora conclusa – e del successivo trattato di Sévres del 1920, in cui si decretava la fine dell’impero; e lo siamo stati quando siamo intervenuti in Iraq nel 2003.

Queste due date, lontane quasi un centenario le une dalle altre, sono le due linee che condannano gli stati europei alle proprie responsabilità. A fianco di queste responsabilità ci sono quelle del mondo arabo che sono altrettanto complesse e articolate, ma qui ciò che conta è sfrondare il campo dall’idea che siamo calati in un contesto in cui ci sono due squadre opposte, quelli con la maglietta bianca, che siamo noi, e quelli con la maglietta nera. Loro.

Lo scontro che devasta il Medioriente oggi però non è più affar nostro, non è la nostra guerra, bensì quella che i musulmani stanno facendosi tra di loro ormai da molto tempo. È quindi una guerra che per usare le parole di Mario Giro – Sottosegretario degli Affari Esteri e della Cooperazione Internazionale – dobbiamo qualificare come intra-islamica.

È una guerra anzitutto tra musulmani, le cui vittime sono quasi tutte musulmane. La religione in questo caso non è la causa scatenante, bensì lo strumento di legittimazione che nobilita il conflitto sia a livello regionale che locale, ma che non è il punto di partenza, né tantomeno sarà quello di arrivo. In questo fango noi occidentali finiamo periodicamente impigliati: partiamo manipolatori, finiamo manipolati, come è stato scritto in un editoriale di Limes in tempi non ancora sospetti.

Ecco allora che se vogliamo trovare un senso agli attentati di Parigi dobbiamo innanzitutto contestualizzarli partendo da queste premesse. E la premessa fondamentale è che non siamo in guerra noi contro di loro, ma veniamo toccati dagli schizzi del fango che proviene da quel territorio solo in relazione alla nostra presenza in loco. Questo spiega per esempio perché la Francia sia stata obiettivo di questi attentati, invece della Germania: perché la Francia è parte della coalizione che bombarda la Siria. L’esposizione internazionale francese dunque è il motivo del vulnus che attualmente la fa sanguinare, che tuttavia non va interpretato come una dichiarazione di guerra. A riprova di questa teoria c’è anche l’attentato all’aereo russo che volava sul Sinai e che è stato abbattuto due settimane fa causando la morte di 240 persone. I Russi – sempre più invischiati nel pantano mediorientale – sponsorizzano il regime di Bashar al-Asad, che a sua volta combatte l’ISIS.

Il terrorismo qaedista, antesignano di quello attuale, muoveva da altre premesse culturali, serviva a stuzzicare l’Occidente, costringerlo a una reazione, al successivo intervento (guerra in Afghanistan e Iraq, 2003) e su tale base costruire l’aggregazione, la chiamata alle armi dell’esercito di Allah.In questo caso invece il monito che ci viene dato è: “restatene fuori, questa è una nostra faccenda”. Si capisce come le due finalità siano decisamente differenti. Il sistema di potere jihadista (ISIS) ha esplicitamente la finalità di voler creare un’entità statuale che parte da spinte endogene e che attualmente sta trovando la sua fortuna nella debolezza degli stati in cui opera: Iraq e Siria. Lo stesso tentativo era stato fatto da al-Qaeda, ma il territorio su cui si muoveva era ancora ”occupato” da stati forti che osteggiavano la sua espansione.

Alla luce di queste premesse dunque la risposta occidentale deve avere due matrici:

  1. capire se mantenere una presenza in Medioriente;
  2. capire come difendersi da un vicino turbolento.

Concentrarsi su questi due punti ci consente di razionalizzare il conflitto mediorientale; rivedere la nostra posizione in relazione a un conflitto che assume una prospettiva decisamente più angolata e meno frontale di quella che ci appare in questo momento. Ciò che è da rivedere principalmente, ancora prima delle strategie geopolitiche e delle tattiche militari – solo intervento aereo, oppure boots on the ground, sostenere i combattenti curdi oppure sostenere il regime di Bashar al-Asad – è il nostro approccio culturale rispetto a questa guerra non-europea.

Possiamo spaventarci a morte, possiamo invocare la distruzione totale del territorio siro-iracheno secondo la tecnica Dresda, possiamo costringere le nostre società a un costante regime di emergenza che comprime e viola le nostre libertà civili, sociali, e culturali. Siamo liberi di continuare con l’integrazione dei migranti, di implementare politiche estere finalizzate alla stabilizzazione della Libia, della Siria, dell’Egitto e della Tunisia.

L’unica cosa in cui non siamo liberi, l’unico obbligo che abbiamo è convincerci del fatto che non sia una questione di cultura.