Avvicinandomi alla rete, sono sicuro di aver perso con il migliore, con l’Everest della prossima generazione. Compatisco i giovani che dovranno battersi con lui. Compatisco il giocatore destinato a essere l’Agassi di questo Sampras. Anche se non lo cito per nome, Pete è in cima ai miei pensieri quando dico ai giornalisti: è semplicissimo. La maggioranza delle persone ha dei punti deboli. Federer non ne ha.
(Andre Agassi, Open) 

Non saranno altre pagine celebrative di Roger Federer, non oggi e a pochi giorni da un’altra finale persa dal tennista svizzero, contro Djokovic, a Wimbledon. Eppure chi penserà a questa ultima edizione del Championships, domani o fra un anno, ricorderà prima il bellissimo monologo di Federer in semifinale contro Andy Murray, inglese quando vince, scozzese quando perde. Poesia in movimento, rovescio a una mano, la sublimazione del volley, lo scudo del servizio, l’eccellenza dei cambi di gioco in uno stato di variazione continua, l’estasi della demi-volée da fondo campo: il tennis di Roger Federer è fatto della materia dei sogni.

Non saranno altre pagine celebrative di Roger Federer, non ora che non vince uno slam da 3 anni preparandosi a compierne 34, coi suoi antichi avversari già tutti defilati. Eppure succede che Federer, uno e trino, è amato nella vittoria e amatissimo nella sconfitta. Succede che nessuno s’è chiesto se questa finale sia stata la sua ultima, ma a quando la prossima. Ultimo prode romantico, statuto fondativo di una nobiltà di corda, unico depositario di un tennis classico fra tante racchette meccaniche, corpi formidabili e corridori ferini. «Prima dell’invenzione delle padelle supersoniche – come scrisse Gianni Clerici – quelle che hanno consentito a un gioco di divenire uno sport».

Non saranno altre pagine celebrative di Roger Federer perché le più belle già appartengono a David Foster Wallace, ad André Scala e a René Stauffer: Il tennis come esperienza religiosa, I silenzi di Federer, Das Tennisgenie, ovvero La ricerca della perfezione. Per Foster Wallace, Federer svela quella «Bellezza transitoria che noi desideriamo vedere altre volte. Meglio allora arrivare alla questione estetica per vie trasverse, girarci intorno, o – come faceva Tommaso d’Aquino col suo soggetto ineffabile – cercare di definirla in termini di ciò che non è». Il filosofo francese André Scala tratta Cartesio come Lendl, Pasolini come Borg, Glenn Gould come Jimmy Connors, Bertold Brecht come Rod Laver. Roger però trascende ogni confronto perché, «come diceva Pindaro, l’atleta ha bisogno del poeta e Federer fa dell’arte di giocare a tennis un’invenzione costante».

Non saranno altre pagine celebrative di Roger Federer, che svuota l’azione sportiva da ogni linguaggio nell’epoca della sua riproducibilità tecnica. Narciso e Boccadoro, Federer è la magnifica compostezza di una sfida archetipica fra il talento e la forza, è l’idea di un tennis metafisico nella sua sovraesposizione mediatica. È come ascoltare Satie in cuffia durante un concerto di batterie. È come una cavalleria rusticana quando gioca contro Nadal in termini di ragioni avverse, perché «Nadal è la materia nera che di rado Federer restituisce alla luce» (André Scala). È come uno smoking bianco sporcato a Wimbledon dalle suole di Djokovic: l’uomo che  ha reso Federer il più grande uomo del tennis anche nella sconfitta, ricordato a margine per averlo battuto due volte, in finale, nel suo anfiteatro. Sono altre pagine celebrative di Roger Federer perché è il destino dei romantici, ma basterà lo spettacolo della bellezza ad addormentare tutti i dolori in noi tristi mortali?