Per togliere ogni dubbio vale la pena dire che Nel mondo a venire (Sellerio 2015, pp. 300) è innanzitutto, e molto semplicemente, un bel libro. Bello in vari sensi, non ultimo quello di essere un oggetto ben curato, accompagnato da fotografie, da qualche poesia che si fonde con la narrazione, da pause e sospensioni del pensiero e da storie nella storia. È però anche un libro strano, insolito, composto e complesso; una storia fatta di scarti temporali improvvisi, passaggi di tempo che si aprono e si chiudono moltiplicando e sezionando la percezione di un momento nelle sue sfaccettature più paradossali. È qui che la scrittura diventa lirica e la poesia dialoga con la narrativa. Ben Lerner – classe 1979 – è al suo secondo romanzo. Prima di dedicarsi interamente alla prosa ha pubblicato alcune raccolte di poesie e un racconto breve, The Golden Vanity, apparso sul “New Yorker” e entrato a far parte di Nel mondo a venire come secondo capitolo. Oltre a moltiplicare il piano della finzione, questa operazione di ri-contestualizzazione mette il racconto in tensione con il resto della narrazione, e tutta la storia assume così anche un aspetto vagamente autofinzionale, intercettando e declinando in modo sapiente un certo gusto della narrativa contemporanea.

Per ammissione dello stesso scrittore-narratore il libro che stiamo leggendo avrebbe dovuto essere un romanzo sulla falsificazione, e si trasforma in un ibrido in grado di integrare perfettamente aspetti legati alla vita dello stesso Lerner con una trama di episodi dai tratti surreali. L’intera vicenda è incorniciata da due eventi climatici che colpiscono la città di New York: quello che si può supporre essere l’uragano Irene, che fa da sfondo alle prime pagine, e l’uragano Sandy, che copre – anche materialmente dato che la parte bassa di Manhattan resta al buio a causa di un blackout – le ultime pagine. Tra questi due eventi si “diramifica” (l’espressione è usata da Calvin, uno degli studenti del narratore) la storia – o meglio le storie – raccontata. Al narratore, scrittore e docente di letteratura di Brooklyn – altro tratto comune con lo stesso Lerner – che ha raggiunto il successo grazie ad una breve storia pubblicata sul “New Yorker”, la migliore amica Alex chiede di aiutarla ad avere un bambino, insistendo perché sia lui a donare lo sperma che servirà poi per l’inseminazione artificiale. Contemporaneamente, al giovane viene diagnosticato un ingrossamento dell’aorta che potrebbe essergli fatale. Tra il piano interno e biologico, che riguarda la formazione del feto nel grembo di Alex così come la possibile malattia cardiaca del narratore, e il piano esterno, quello degli stravolgimenti climatici e sociali della New York contemporanea, si viene ad instaurare una sorta di legame segreto, un flusso continuo di rimandi e interazioni. Tutto si riorganizza continuamente in piccole varianti e lievi trasformazioni, e l’espressione ripetuta “sentii il mondo riorganizzarsi intorno a me” prelude in genere ad una descrizione in cui le cose subiscono una lieve variazione rispetto ad un momento prima, cambiamenti infinitesimali in grado di trasformare gli spazi noti in qualcosa di diverso. Questo mette in gioco un altro concetto che resta in filigrana a tutto il libro: quello di propriocezione. In termini poco tecnici, la propriocezione è essenzialmente la capacità di percepire la propria posizione nello spazio attraverso i sensi. Complici le suggestioni causate dalla malattia, dall’alcol, dalle droghe e da una serie di “incidenti” quotidiani, il narratore descrive in più occasioni una sorta di alterazione della sua propriocezione. Sono le incrinature che la coscienza umana subisce ogni giorno nel mondo presente, ma che, come suggerisce Lerner, è anche già “un mondo a venire”.

Presente, passato e futuro collassano all’interno di un sistema di riflessi e di sovrapposizioni nella narrazione creando una nuova organizzazione del tempo intorno ai corpi dei protagonisti. La scrittura oscilla tra prima e terza persona, segno evidente di un cambiamento interiore: il protagonista del capitolo The Golden Vanity è semplicemente identificato come “l’autore”, e riproduce una variante del narratore. La voce narrante si sofferma spesso sulle possibili configurazioni degli eventi, allontanandosi e ricongiungendosi a sé in una discontinuità di immagini e di sensazioni che definiscono la storia. È qui che si aprono i portali spazio-temporali, i viaggi (o le proiezioni) nel tempo ispirate al cinema di fantascienza degli anni ’80 e ’90, del resto richiamato anche dai numerosi riferimenti al primo film della serie Ritorno al futuro. Il titolo originale del libro di Lerner, 10.04, è infatti un riferimento all’ora in cui nel film il fulmine colpisce l’orologio della torre permettendo a Marty McFly di tornare nel 1985 con la Delorean – scena ben presente nei ricordi cinematografici di molti di noi. Ma è anche un riferimento a The Clock, opera di Christian Marclay il quale monta in successione scene di film in cui gli orologi seguono la scansione temporale per coprire 24 ore, installazione che il narratore e Alex vanno a vedere insieme.

Quella che abitualmente si considera cultura alta (sempre che abbia ancora senso una distinzione) coabita con riferimenti e riflessi della cultura pop. Nel mondo a venire è così un libro in cui riferimenti reali si mescolano con elementi finzionali, in perfetto stile postmoderno, portando all’estremo limite la riconoscibilità degli uni e degli altri, proprio come accade per la stessa situazione che origina la scrittura di Lerner. Le pagine si popolano (o sono forse infestate) di fantasmi della letteratura del passato. In molte parti si instaura un segreto dialogo con la scrittura di Whitman, in particolare relativamente alla visione utopica di quello che Deleuze ha chiamato un “popolo che manca”, le figure spettrali che attraversano il Brooklyn Bridge di notte rievocano i morti che camminano sul London Bridge della Waste Land di Eliot – citazione per altro esplicitata nel testo pur senza indicarne il riferimento. E ancora, si possono rintracciare i nomi di Walter Benjamin, di Paul Klee, William Bronk, Donald Judd, ma anche quello di Sasha Grey, senza alcuna continuità logica apparente se non quella, ancora una volta, di un gioco di ri-mediazione.

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La scrittura di Ben Lerner fonde magnificamente (e l’ottima traduzione di Martina Testa restituisce tutto) stili diversi, in cui la poesia si integra alla narrazione senza spezzarla ma portandola semplicemente ad un grado diverso di profondità. La dimensione politica e la coscienza ambientalista e civica che emergono in certe parti ricordano la scrittura di Jonathan Franzen, il quale, a sua volta, ricambia la stima, come riporta il risvolto di copertina. Allo stesso tempo, la struttura riesce ad essere sofisticata senza essere però pesante o eccessivamente citazionistica. Nel Mondo a venire è in sostanza un libro decisamente consigliabile (e caldamente consigliato) per chi ama le storie in cui sembra che non succeda nulla mentre tutto si riorganizza in modo graduale, e una pagina dopo l’altra “tutto sarà com’è ora, solo un po’ diverso”.