La serialità è ormai da tempo laboratorio infaticabile di nuove tecniche narrative. Il prodotto televisivo di ultima generazione, più colto, complesso e ambizioso, permette a registi e sceneggiatori di talento di mettere in pratica idee che sarebbero incompatibili con il formato cinematografico, in quanto si sviluppano per archi temporali più ampi e giocano su una sempre più marcata contaminazione dei generi. A cambiare, infatti, non sono i soggetti e i temi, spesso ancora legati a più che rodati ambiti come quello poliziesco o medicale, ma la strategia narrativa, il punto di vista da cui si osserva lo sviluppo della vicenda. True detective è un esempio formidabile di nuova serialità televisiva americana. Il prodotto della HBO risulta solo apparentemente l’ennesimo poliziesco farcito di uomini ruvidi, pistole e quartieri malfamati, per poi assumere le anomale connotazioni di noir filosofico a forti tinte horror. Immaginarsi questa serie televisiva come un pastiche di generi in grado di soddisfare più fette di pubblico potrebbe però risultare fuorviante. Fin dal titolo è posta in evidenza la ricerca di una figura archetipica: il vero detective, l’eroe moderno per eccellenza, colui che ha preso il posto appartenuto ai pistoleri e, prima ancora, ai cavalieri. La serie ideata dallo scrittore e sceneggiatore Nick Pizzolatto (in veste qui di vero e proprio showrunner) sembra voler tornare alle fonti da cui è nato questo eroe della modernità, recuperandone in qualche modo il carattere autentico di medium tra visibile e invisibile.

Non è un caso infatti che il primo detective della storia della letteratura lo si trovi tra le pagine del maestro indiscusso dell’incubo e del mistero: Edgar Allan Poe. Nel racconto I delitti della Rue Morgue compare infatti l’investigatore Auguste Dupin, in grado di risolvere un caso apparentemente impossibile, spingendo le proprie congetture e la proprie deduzioni oltre il consueto e l’evidenza. La sua non è una battaglia contro un ben definito criminale, ma contro ciò che è inspiegabile, in una continua tensione tra caos e ordine. Su questi principi sembrano essere modellati i protagonisti di True detective,  Rust Cohle e Marty Hart, una strana coppia di investigatori, interpretati dagli impeccabili Matthew McConaughey e Woody Harrelson. I due si troveranno per le mani un caso di omicidio dalla forte componente rituale, che li porterà molto più lontano di quanto potessero immaginare, in territori sconosciuti, dove vivono forze antiche e pericolose. Teatro di una simile vicenda non poteva che essere la paludosa Louisiana, location-feticcio delle HBO (basti pensare a un’altra fortunata serie ambientata da queste parti, True Blood), da sempre associata a un’immagine decadente di terra in cui sopravvivono arcaiche usanze e i segreti indicibili vengono seppelliti sotto l’erba fitta. In questo sud stregonesco, pieno di chiese, predicatori e prostitute, i nostri detective ricompongono i tasselli di una storia di violenza e poteri occulti, che lega a doppio filo figure di spicco della comunità a miseri redneck abitanti di stamberghe immerse nella campagna. Le insidie più pericolose giungono, però, dal caos che i due protagonisti si portano dentro, mostri più feroci di qualunque serial killer. Marty è un detective classico, non molto intuitivo, rispettoso delle regole e tendente a farsi gli affari propri. A casa lo aspettano una bella moglie e due figlie, in un altro appartamento una giovanissima amante.

Il suo rapporto con il collega è tutt’altro che facile: i due sembrano provenire da mondi differenti, incomunicanti. Rusty Cohle è un solitario dai metodi insoliti: come un rabdomante, scova segni e tracce che altri non vedrebbero, immergendosi nelle proprie indagini fino ai limiti dell’ossessione. Il suo passato è segnato dalla morte improvvisa della figlia, evento traumatico che rappresenta lo spartiacque della sua esistenza. Marty e Rusty sono dunque due detective agli antipodi, due modelli cavallereschi differenti, convenzionale e solido il primo, oscuro e acuto il secondo. Ad accomunarli solo un caso misterioso, unico collante di un’amicizia apparentemente impossibile. Il regista Cary Fukunaga è abile nel sottolineare quest’atmosfera di estraneità tra i due protagonisti, in particolare nelle lunghe sequenze di spostamenti in auto, in cui si assiste al difficile procedere di una conversazione tra un Rusty meditabondo e filosofico e un Marty più elementare, infastidito dall’astrusa complessità di ragionamento del collega. Il personaggio interpretato da McConaughey è figlio della miglior letteratura gotica e dell’orrore, è l’indagatore dell’incubo (per citare il nostrano Dylan Dog) deciso a scendere nell’abisso, pur di riportare alla luce verità spaventose. Per farlo dovrà abbandonare i metodi tradizionali, addentrarsi nell’oscurità, accogliendo lo stesso male che vuole affrontare, fino a rischiare di superare il confine tra giusto e sbagliato. Cohle si potrebbe paragonare al tipico protagonsita dei racconti di Lovecraft: isolato dal resto degli uomini, per aver visto troppo oltre.

Il serial sfrutta appieno la sua disponibilità di tempo narrativo per costruire più profondi legami tra le vite private dei protagonisti e il caso da risolvere, scardinando il modello classico della detective story basato su un impianto narrativo schematico, teso unicamente alla risoluzione del caso. La serie di Pizzolatto infatti si sviluppa su un arco temporale enorme, tra flashback che occupano interi episodi e momenti in cui il caso del “Yellow king” sembra essere apparentemente accantonato, per concedere maggiore spazio alle vicende personali dei protagonisti e ai loro demoni privati, fino a quasi confondere indagine e vicende private: misteri di natura differente, le cui soluzioni potrebbero essere imprevedibilmente legate.

Fukunaga descrive una storia in cui orrore e dramma intimo concorrono nel creare un’atmosfera che ricorda i più riusciti racconti di Stephen King. Che sia un caso che il regista sia ora all’opera per girare il remake di It?